Note in tema di federalismo fiscale

Lo scritto riproduce l’intervento alla tavola rotonda su Finanza pubblica, federalismo e economia italiana, tenutasi il 19 febbraio 2011 a Settignano (Firenze), Villa Morghen, nell’ambito del Master Quale federalismo? Modelli, risorse strumenti, organizzato dall’associazione Eunomia (6° edizione di EunomiaMaster).

1. Vorrei muovere da una premessa terminologica. Le parole hanno una storia, cambiano nel tempo. Fino ad un certo momento il significato di “federalismo fiscale” è stato ben distinto da quello di “federalismo”. La prima espressione fu inventata dagli economisti, in particolare dagli economisti pubblici, in alcuni scritti degli anni cinquanta e sessanta. Se in quegli anni, ma anche oltre, forse fino a tutti gli anni ottanta, si fosse chiesto ad un politico, o ad uno studioso di diritto, o di scienze politiche, o anche ad un economista che non fosse un economista pubblico, che cosa si dovesse intendere per federalismo fiscale, con ogni probabilità non avrebbe saputo dare una risposta. Si trattava infatti di un termine tecnico, proprio di una letteratura specialistica, con il quale si indicava più che un concetto, un problema, una questione di natura essenzialmente normativa: se un sistema di finanza pubblica articolato su più livelli di governo fosse preferibile ad uno centralizzato o, più propriamente, quale fosse l’assegnazione ottima delle funzioni di spesa e di prelievo tra i livelli di governo. Posta in questi termini la questione non riguardava – e non riguarda – solo i paesi federali, ma anche i paesi unitari[1].
Nell’ordinamento giuridico italiano l’espressione federalismo fiscale non compare mai, fino alla legge 42 del 2009 intitolata “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione”.
Oggi nel nostro Paese di federalismo fiscale parlano tutti, e nella sostanza la nozione ha finito per coincidere con quella di decentramento, cioè di un conferimento di maggiori poteri ai governi locali in materia di economia e di finanza. Talora, ormai, nelle discussioni correnti, si fa anche cadere l’aggettivo “fiscale”, e si parla semplicemente, e impropriamente, di “federalismo” per riferirsi a tale processo di devoluzione di funzioni.

2. In effetti alla domanda, che sta all’origine del discorso sul federalismo fiscale, se sia più efficiente un sistema di finanza pubblica centralizzato oppure multi-livello, gli economisti tendevano, fin dall’inizio, a dare una risposta a favore di questa seconda ipotesi. Mostravano tuttavia una grande prudenza e sottolineavano anche i limiti e le controindicazioni del decentramento.
Tecnicamente si ha efficienza economica quando si riescono a soddisfare al meglio le preferenze individuali. Gli economisti iniziarono con il notare come, se le preferenze dei cittadini sono differenziate a livello territoriale e se un governo centrale fatica a porre in essere politiche diversificate, un sistema decentrato risulta per definizione più efficiente. Questo è il teorema del decentramento fiscale definitivamente formulato da Oates nel 1972 (Oates, 1972). Perché si decentra? Si decentra perché i cittadini di giurisdizioni diverse richiedono servizi diversi e l’unico modo per soddisfarli è affidare la fornitura ai governi locali.
Successivamente il dibattito si arricchisce, grazie al contributo della teoria della public choice, in particolare di James M. Buchanan[2], che sarà poi premio Nobel per l’economia (1986). Con la public choice il paradigma centrale della teoria economica, vale a dire che la concorrenza funzioni meglio di altre forme di mercato, perché garantisce un risultato efficiente nel senso di Pareto, viene trasposto a livello dell’economia pubblica. La presenza di un unico governo centrale è assimilata al monopolio, mentre un sistema articolato su più livelli di governo viene accostato alla concorrenza. L’idea centrale è che le istituzioni debbano essere messe in competizione: lungo una dimensione verticale (concorrenza tra governi di diverso livello) e orizzontale (concorrenza tra governi di uno stesso livello).
Un ulteriore, più recente, filone di pensiero deriva dagli sviluppi dell’economia dell’informazione. Si sostiene che i governi locali abbiano un vantaggio in termini di informazione: l’asimmetria informativa fra governi ed elettori sarebbe minore a livello locale e pertanto i governi subcentrali avrebbero una maggiore possibilità di recepire le preferenze locali.
Infine, un ultimo importante apporto è stato quello legato alla nozione di accountability, che consiste nella possibilità per gli elettori di attribuire le responsabilità degli esiti delle politiche pubbliche e di agire di conseguenza punendo o premiando i governi. Anche qui, si ritiene che l’accountability cresca al crescere della vicinanza tra governo e governati.
Dall’insieme di questi contributi deriva un quadro in cui il decentramento di funzioni di spesa è visto con favore. Gli economisti individuano tuttavia una serie di controindicazioni, di natura sia tecnica sia politica, al decentramento. Dal punto di vista tecnico le controindicazioni riguardano in primo luogo le economie di scala. Se per gli enti pubblici fornitori di servizi esistono economie di scala, come spesso si verifica nel mondo delle imprese, vale a dire se il costo per unità di prodotto si riduce al crescere delle dimensioni dell’ente, una dimensione elevata risulta vantaggiosa rispetto ad una inferiore. Il caso estremo del monopolio naturale, quando, a causa delle economie di scala, conviene una sola impresa, corrisponde a quello di un unico livello di governo.
In secondo luogo, ci possono essere effetti di spillover, di traboccamento, quando i benefici della spesa di una determinata giurisdizione afferiscono anche ai cittadini residenti in altre giurisdizioni: in questo caso il livello di spesa pubblica non è più ottimale, perché nella contrapposizione tra benefici e costi non si tiene conto dei benefici esterni.

Altre controindicazioni riguardano aspetti di political economy, legati ai costi che possono associarsi all’esistenza di molteplici livelli di governo e apparati burocratici. Infine, anche l’argomento dell’accountability viene da alcuni messo in discussione e rovesciato nel suo contrario, sostenendosi che i governi locali, essendo più prossimi all’elettorato, sono maggiormente soggetti alle pressioni dei gruppi organizzati e al rischio di corruzione.
Come si vede, si tratta di un quadro piuttosto complicato. In definitiva possiamo dire che gli economisti propongono di decentrare il più possibile, salvo che non convenga accentrare: da qui deriva il principio della sussidiarietà verticale.
Va anche sottolineato che il decentramento è visto in modo diverso a seconda che si tratti delle funzioni di spesa oppure di quelle di prelievo. Quanto finora si è succintamente detto in tema di vantaggi e costi del decentramento, vale per le funzioni di spesa. Gli economisti non condividono l’idea, che da noi in questa fase raccoglie un ampio consenso a livello politico, che il decentramento della spesa debba essere accompagnato da pari decentramento del prelievo. Si ritiene, in genere, che un perfetto allineamento di poteri di entrata e di spesa ai diversi livelli di governo non sia un elemento necessario di un buon disegno di rapporti finanziari intergovernativi, e che, anzi, dal lato del prelievo, sia opportuno fermarsi molto prima, rispetto alla spesa, sulla via del decentramento, colmando il conseguente disallineamento fiscale verticale con un sistema di trasferimenti tra livelli di governo, che può giocare un ruolo importante come elemento di coesione, di coordinamento, di indirizzo[3].
Per un economista ancora oggi l’espressione “federalismo fiscale” denota questo insieme di temi e di problemi, non una prescrizione sicura e univoca a favore del massimo decentramento.

3. Ripercorriamo brevemente alcuni passaggi dell’evoluzione del nostro Paese in tema di federalismo fiscale. La Costituzione del 1947 prevedeva uno Stato, fatto coincidere con la Repubblica, articolato in Regioni, Province e Comuni. Le regioni, una novità per il nostro ordinamento, furono istituite con molto ritardo, nel 1970. Ma proprio in quegli anni, mentre si dava attuazione all’ordinamento regionale, si procedeva ad un forte accentramento dal punto di vista finanziario, soprattutto con la riforma tributaria entrata in vigore nel biennio 1973-1974 (le imposte indirette nel ’73, le dirette nel ’74), a seguito della legge delega del 1971.
Prima della riforma, i comuni disponevano di importanti tributi propri, prevalentemente nel campo dell’imposizione indiretta, ma anche di quella diretta. La riforma tributaria, nella sostanza, finì per accentrare tutto il prelievo nelle mani dello Stato, abolendo le imposte locali: anche la nuova imposta locale sui redditi (ILOR) fu, infatti, presto completamente statalizzata.
La spesa invece rimaneva in buona misura decentrata, soprattutto a livello comunale. Le regioni acquisirono un certo peso dal lato della spesa in seguito alla riforma sanitaria del 1978. Negli anni successivi, il decentramento delle funzioni aumenterà, anche grazie alle leggi Bassanini degli ultimi anni ‘90.
Ad un certo momento inizia ad affermarsi l’idea che, al decentramento della spesa, fosse opportuno far seguire il decentramento dei poteri impositivi e tributari. Si assiste quindi ad un’inversione di tendenza, al tentativo di tornare alla situazione antecedente l’accentramento realizzato nei primi anni settanta: ha inizio un grosso processo di decentramento del prelievo fiscale. Una svolta importante, in tale direzione, si ha tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000, quando sono istituite le addizionali regionali e locali all’IRPEF; l’IRAP, un grosso tributo regionale; diverse forme di compartecipazione a tributi erariali. Il processo culmina con la riforma del titolo V della Costituzione del 2001.

4. La riforma costituzionale del 2001 modifica nel profondo l’architettura del sistema dei rapporti tra livelli di governo nel nostro Paese. Non più una Repubblica che “si riparte in Regioni, Provincie e Comuni”, ma una Repubblica che “è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” (il vecchio e il nuovo primo comma dell’art. 114). Lo Stato diventa quindi uno degli elementi costitutivi della Repubblica, accanto agli altri livelli di governo.
È una novità che, a distanza di dieci anni, risulta ancora assai poco metabolizzata dal nostro sistema politico-istituzionale. In tutto il dibattito sulle relazioni tra i livelli di governo, come nell’impostazione delle politiche, rimane radicata l’idea che allo Stato competa una posizione di supremazia. C’è ancora poca consapevolezza del sistema che, piaccia o meno, si è messo in piedi nel 2001. Un buon esempio è lo schema di decreto legislativo, in attuazione della legge 42 del 2009, su “i premi e le sanzioni”, dove è lo Stato che premia e sanziona gli altri livelli di governo. Nello spirito della riforma del 2001, invece, non spetterebbe allo Stato imporre regole agli altri livelli di governo.
Anche per quanto riguarda le modalità di finanziamento dei governi sub-centrali con la riforma del titolo V del 2001 si compie una scelta molto radicale, abolendo ogni forma di finanza derivata. La finanza derivata è il finanziamento di un livello di governo da parte di quello superiore attraverso i trasferimenti. In tutti i paesi, sia federali sia unitari con finanza pubblica articolata su più livelli di governo, i trasferimenti sono importanti perché, come si è detto, sono un elemento di coesione e di coordinamento, uno strumento attraverso il quale il livello di governo superiore può indirizzare le politiche di quello inferiore. Le tendenze più recenti rafforzano tale quadro. Negli ultimi anni c’è stato, a livello internazionale, un fortissimo decentramento delle funzioni di spesa, ma un molto meno significativo decentramento del prelievo; anzi, i paesi che avevano sistemi di prelievo fortemente decentrati hanno fatto qualche passo indietro.

L’Italia con la riforma del 2001 diventa dunque un caso unico nel panorama internazionale: tutti i trasferimenti sono aboliti, salvo quelli di natura perequativa e quelli, di carattere aggiuntivo e speciale, destinati a finanziare particolari esigenze di sviluppo, coesione, solidarietà non riconducibili al normale esercizio delle funzioni.
Si imbocca così una strada molto complicata. Da una parte si apre un enorme problema di ripartizione delle risorse fiscali tra i livelli di governo e di coordinamento dei rispettivi ambiti di autonomia. Dall’altra, rinunciando totalmente ai trasferimenti e quindi rimettendo tutto il finanziamento al potere impositivo locale, si porta in primo piano il problema della perequazione, con importanti ricadute di natura politica.
In un sistema di finanza pubblica totalmente accentrato dal lato del prelievo, la redistribuzione delle risorse dalle aree ricche alle aree povere passa attraverso il bilancio del governo centrale, che ne è pienamente responsabile. Questa è stata per molto tempo la situazione italiana: lo Stato ha gestito cospicui trasferimenti di risorse fra zone del paese. Nella situazione opposta, in un sistema in cui il prelievo è totalmente decentrato, se le capacità fiscali sono differenziate territorialmente, ma si ritiene – come ha fatto il nostro costituente – che alcuni servizi debbano essere garantiti in modo uniforme a livello nazionale, e che questo sia uno dei motivi fondamentali dello stare insieme, allora è necessario prevedere dei meccanismi perequativi a favore delle regioni che hanno minore capacità fiscale. Per capacità fiscale si intende il gettito potenziale pro-capite: dato che tutte le imposte sono pagate dal reddito può essere misurata dal reddito pro-capite. Il sistema di redistribuzione territoriale diventa manifesto e oggetto di contrattazione, anche se in misura diversa a seconda che si tratti di una perequazione di tipo verticale – come vorrebbe la nostra Costituzione – oppure orizzontale.

5. La riforma costituzionale del 2001 ha previsto una legge che detti “i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.
Nella scorsa legislatura fu elaborato un progetto di legge, firmato da Romano Prodi, Tommaso Padoa Schioppa e Linda Lanzillotta, che non fu discusso a causa della fine anticipata della legislatura[4]. Nella successiva campagna elettorale, la Lega puntò molto sul tema del federalismo fiscale, con una forte connotazione autonomista: lo slogan era che tutte le imposte dovessero rimanere sul territorio dove sono pagate. Una volta formato il governo, gli atteggiamenti si sono fatti molto più prudenti. Si è elaborato un disegno di legge, che risulta per alcuni aspetti vicino a quello della precedente legislatura: discusso e modificato attraverso diversi fasi e passaggi, è alla fine diventato legge nel maggio del 2009, con il consenso sostanziale di gran parte dell’opposizione.
La legge delega 42/2009 riguarda le forme di finanziamento delle regioni e degli enti locali in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione. Il tema centrale è quello dell’abolizione dei trasferimenti e della loro sostituzione con risorse fiscali (“fiscalizzazione” dei trasferimenti), così come stabilito dalla riforma costituzionale del 2001. Dal momento che le basi imponibili sono già largamente occupate dalle imposte statali, la legge fa ampio ricorso alle diverse forme di condivisione dei tributi erariali, in particolare l’Iva e l’Irpef. Nel caso dell’Iva, l’unica forma di condivisione possibile è la compartecipazione al gettito, peraltro già prevista dal nostro ordinamento. Nel caso dell’Irpef, oltre alla compartecipazione, si possono usare le addizionali, anch’esse già esistenti.
Non vi saranno dunque, probabilmente, grosse rivoluzioni rispetto al sistema attuale. Le compartecipazioni possono risultare difficilmente distinguibili dai trasferimenti. Una maggiore autonomia potrà essere concessa soprattutto dal lato delle addizionali Irpef, ampliando i margini di manovra in termini di fissazione dell’aliquota e di determinazione della base imponibile.
È difficile dire quali effettivi incrementi di autonomia tributaria risulteranno alla fine riconosciuti ai governi sub-centrali. I segnali sono contraddittori. Siamo in una fase molto complicata e travagliata dei rapporti fra livelli di governo: il pendolo continua a oscillare fra maggiore autonomia e maggiore centralismo. Un’ambivalenza di fondo segna sia l’atteggiamento del governo centrale sia quello dei livelli inferiori. Apparentemente i governi locali chiedono maggiore autonomia, ma allo stesso tempo la temono, perché hanno una bassissima propensione all’assunzione del rischio politico che la maggiore autonomia porta con sé. Più che autonomia i governi sub-centrali chiedono certezza sulle risorse: vogliono che la ripartizione delle risorse tra centro e periferia venga definitivamente sottratta alle scelte discrezionali del governo centrale.
È peculiare come un provvedimento dedicato alle entrate delle regioni e degli enti locali finirà probabilmente per non produrre grosse modifiche da questo lato, mentre dall’altro lato, quello della spesa, contiene un principio che, se compiutamente applicato, è destinato a rivoluzionare i rapporti tra i livelli di governo. Si tratta del passaggio dalla “spesa storica” alla “spesa normalizzata” o “spesa standard” come criterio di finanziamento. Sia che il finanziamento avvenga con prelievi propri, con compartecipazioni ai tributi erariali o con trasferimenti perequativi, non si continueranno a finanziare gli enti sub-centrali avendo come riferimento il livello di spesa dell’esercizio precedente, come si è fatto dal dopoguerra ad oggi, con una logica di tipo incrementale (e talora, soprattutto negli ultimi anni, “decrementale”). Il susseguirsi di leggi di finanziamento, alcune con obiettivi molto specifici e circoscritti, ha creato nel tempo una situazione caotica. Soprattutto nel caso dei comuni, c’è oggi una variabilità molto elevata dei trasferimenti pro-capite sul piano nazionale, che è assolutamente impossibile razionalizzare. Può interessare lo storico della finanza pubblica studiare gli interventi di finanza locale che si sono affastellati nel tempo, per ricostruire come si è potuta creare la situazione di oggi, nella quale la distribuzione di risorse tra gli enti risulta ormai del tutto erratica.
La legge 42/2009 stabilisce che le regioni e gli enti locali verranno messi in condizione di finanziare, a costi normalizzati, determinati livelli delle prestazioni da garantire in modo uniforme nell’intero Paese.
Per le regioni i livelli essenziali delle prestazioni (l.e.p), che devono essere garantiti dallo Stato ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione, riguarderanno, almeno in una prima fase, la sanità, l’istruzione, l’assistenza sociale e i trasporti locali, questi ultimi solo per la spesa in conto capitale. Per gli enti locali verranno garantite, invece, le risorse necessarie a finanziare a costi standard le “funzioni fondamentali”, per ora descritte in via transitoria in attesa dell’approvazione del codice delle autonomie.
Quando i governi sub-centrali non riusciranno, perché inefficienti, a garantire le prestazioni essenziali o le funzioni fondamentali ai costi standard, così come quando vorranno spingersi oltre i livelli di base garantiti, dovranno chiedere ai propri cittadini uno sforzo fiscale ulteriore, in una logica di autonomia e responsabilizzazione.

Riferimenti bibliografici
G. Brennan – J. M. Buchanan (1980), The Power to Tax: Analytical Foundations of a Fiscal Constitution, Cambridge University Press, Cambridge.
E. Longobardi (2010), “La nuova autonomia impositiva regionale”, in Atlantide, 3, (Anno VI, n. 21) pag. 23-27
R. A. Musgrave (1959), The Theory of Public Finance. A Study in Public Economy, McGraw-Hill Book Company, New York.
R. A. Musgrave (1961), Approaches to A Fiscal Theory of Political Federalism, in National Bureau of Economic Research (1961), p. 79-96.
R. A. Musgrave – P. B. Musgrave (1973), Public Finance in Theory and Practice, International Student Edition, 1st Ed., McGraw-Hill Kogakusha LTD, Tokyo.
National Bureau of Economic Research (1961), Public Finances: Needs, Sources and Utilization, Princeton University Press, Princeton.
W. Oates (1972), Fiscal Federalism, New York, Harcourt Brace Jovanovich.
C.S. Shoup (1969), Public Finance, Weidenfeld and Nicolson, London.
C. M. Tiebout (1961), An Economic Theory of Fiscal Decentralization, in National Bureau of Economic Research (1961), p. 79-96.

Note

1.  Ci si limita a qualche riferimento. Nel grande trattato di Musgrave (1959), un paragrafo intitolato Multilevel finance è, significativamente, inserito nel seminale capitolo dedicato all’equità orizzontale (Equal treatment of equals). In un volume del 1961 che raccoglie gli atti di una conferenza del National Bureau of Economic Research, apparve un saggio di Musgrave “Approaches to A Fiscal Theory of Political Federalism” (Musgrave, 1961) e uno di Tiebout “An Economic Theory of Fiscal Decentralization” (Tiebout, 1961). Quest’ultimo così esordisce: “Fiscal federalism involves the relations of multilevel governments. A normative approach may take the political structure as given and then see what economic consequences result. Conversely, one may neutralize political variables and arrange governments solely on the basis of economic efficiency”. Nel trattato di Shoup (1969) i temi del federalismo fiscale sono presi in esame sotto il titolo di Intergovernmental Fiscal Coordination. Nel 1972 Oates intitola Fiscal Federalism il suo saggio fondamentale. L’anno dopo esce il manuale per studenti di Musgrave-Musgrave (1973), che testimonia come il federalismo fiscale abbia ormai definitivamente acquistato il proprio autonomo e consistente spazio negli studi di finanza pubblica: Fiscal Federalism è il titolo della settima parte del volume, composta di due capitoli, Principles of Multiunit Finance e Fiscal Federalism in Practice.

2.  Uno dei riferimenti più interessanti rimane Brennan-Buchanan (1980).

3.  Il punto è più diffusamente sviluppato in Longobardi (2010).

4.  Disegno di legge delega al Governo in materia di federalismo fiscale, presentato il 29 settembre 2007, XV Legislatura, atto della Camera dei deputati n. 3100.