Un’occasione per riprendere il dibattito sull’accesso alla giustizia ambientale nel diritto dell’Unione Europea

Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione), sentenza dell’8 marzo 2011, C-240/09
L’art. 9, n. 3 della convenzione di Aarhus sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale non ha efficacia diretta nel diritto dell’Unione europea.
Questo è quanto statuito dalla Corte di giustizia in merito ad una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte suprema della Repubblica slovacca nell’ambito di una controversia fra un’organizzazione ambientale ed il Ministero dell’Ambiente.
Il giudice a quo si è domandato se, nel caso in cui un’associazione ambientale intenda contestare un atto amministrativo nazionale che deroghi a un regime europeo di tutela dell’ambiente – nella fattispecie, quello istituito dalla direttiva “habitat” [1] –, tale associazione possa trarre diritto di azione dall’ordinamento giuridico dell’Unione europea, in forza dell’effetto diretto delle disposizioni dell’art. 9, n. 3.
La Corte, riunita per l’occasione in grande sezione, ha, in primo luogo, dichiarato la propria competenza a statuire in via pregiudiziale sull’accordo in questione in quanto parte integrante dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea[2].
In secondo luogo, ha ricordato che, affinché una disposizione di un accordo concluso dall’Unione e dai suoi Stati membri con Stati terzi abbia effetto diretto, questa deve stabilire un obbligo chiaro e preciso non subordinato all’intervento di alcun atto ulteriore. Ciò non avviene nel caso dell’art. 9, n. 3, in quanto esso dispone che solo “i membri del pubblico che soddisfino i criteri eventualmente previsti dal diritto nazionale possano promuovere procedimenti di natura amministrativa o giurisdizionale per impugnare gli atti o contestare le omissioni dei privati o delle pubbliche autorità compiuti in violazione del diritto ambientale nazionale”. Tale disposizione, dunque, non può avere effetto diretto, contenendo alcun obbligo chiaro e preciso che regoli direttamente la situazione giuridica dei cittadini.
Infine, dopo essere giunta a tale conclusione, la Corte ha tenuto a precisare che il fatto che una specifica disposizione di un accordo internazionale non abbia efficacia diretta non significa che non debba essere presa in considerazione dai giudici nazionali di una Parte contraente (ad es. uno Stato membro dell’Unione europea).
I giudici nazionali, dunque, dovranno tenere in considerazione le prescrizioni dell’art. 9, n. 3, e, nel rispetto del principio di tutela effettiva del diritto dell’Unione europea, saranno tenuti a interpretarle in modo da non rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico europeo, nella fattispecie quelli derivanti dalla direttiva “habitat”.
È opportuno esaminare la sentenza della Corte per cui si è discorso nel contesto del più ampio tema dell’attuazione degli obblighi della convenzione di Aarhus all’interno dell’Unione europea in quanto parte contraente.
La convenzione, firmata nel giugno del 1998 e ratificata oggi da quarantaquattro parti contraenti, tra le quali l’Unione europea ed i suoi Stati membri[3], si articola in tre pilastri: il primo attribuisce al pubblico il diritto di accesso alle informazioni ambientali, il secondo garantisce il diritto di partecipare ai processi decisionali e il terzo l’accesso alla giustizia, ossia il diritto di ricorrere in via amministrativa o giurisdizionale contro gli atti e le omissioni dei privati e delle pubbliche autorità che violano le norme di diritto ambientale.
Che cosa ha fatto ad oggi l’Unione europea per attuare gli obblighi derivanti dalla convenzione di Aarhus? Le misure adottate sono state sufficienti per rendere tali obblighi vincolanti sia nei confronti dei propri Stati membri che delle proprie istituzioni? La risposta è positiva se ci si riferisce al primo ed al secondo pilastro ma, al contrario, negativa in relazione all’attuazione del terzo, l’accesso alla giustizia.
Per quanto riguarda l’accesso alle informazioni ambientali e la partecipazione ai processi decisionali, l’azione dell’Unione europea è stata efficiente sotto entrambi i profili: infatti, adeguate misure sono state indirizzate sia nei confronti degli Stati membri che delle istituzioni.
L’attuazione dei primi due pilastri della convezione di Aarhus all’interno degli Stati membri è stata assicurata dall’emanazione di due direttive nel 2003: da un lato, la direttiva 2003/4/CE[4] che garantisce il diritto di accesso all’informazione ambientale detenuta dalle autorità pubbliche e stabilisce condizioni e modalità pratiche per il suo esercizio; dall’altro lato, la direttiva 2003/35/CE[5] che prevede la partecipazione del pubblico nell’elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale.
In relazione, invece, all’azione dell’Unione europea nei confronti delle proprie istituzioni, al fine che queste possano assicurare l’esercizio dei diritti derivanti dall’applicazione del primo e del secondo pilastro, si deve sottolineare l’adozione nel 2006 del regolamento (CE) n. 1367/2006[6] che prevede regole per applicare le disposizioni della convenzione alle istituzioni e agli organi comunitari.

Un’attuazione efficiente e completa che, purtroppo, non include l’accesso alla giustizia da parte di cittadini o associazioni ambientali. Infatti, da una parte, non è stata ancora raggiunta una piena cooperazione tra l’Unione europea, gli Stati membri ed i soggetti interessati sull’emanazione di una legislazione europea che vincoli in modo efficace gli stessi Stati membri, dall’altra, la Corte di Giustizia dell’Unione europea apparentemente sembra non essersi ancora conformata agli obblighi derivanti dall’art. 9, n. 3.
Per quanto riguarda le misure indirizzate dall’Unione europea ai singoli Stati membri al fine di garantire un ampio accesso alla giustizia in materia ambientale, due sono gli elementi da portare alla luce.
In primo luogo, si deve sottolineare quanto poche siano le disposizioni normative europee che contemplino la possibilità, per i cittadini o le associazioni ambientali, di accedere ad una procedura di ricorso dinanzi ad un organo giurisdizionale o ad un altro organo indipendente per contestare la legittimità di decisioni che violino norme europee a tutela dell’ambiente[7].
In secondo luogo, si deve ricordare che, nel 2003, la Commissione europea, aveva presentato una proposta di direttiva sull’accesso alla giustizia in materia ambientale[8], con lo scopo di adeguare in modo completo e uniforme il diritto dell’Unione europea agli obblighi derivanti dall’insieme dei tre pilastri fondamentali della convenzione di Aarhus. Tale proposta, approvata con emendamenti in prima lettura dal Parlamento europeo[9], ha tuttavia incontrato notevoli ostacoli in sede di discussione al Consiglio dell’Unione europea. In particolare, diversi Stati membri hanno sollevato dubbi sull’adozione di una simile direttiva, affermando che la regolamentazione sull’accesso alle corti nazionali è, ai sensi del principio di sussidiarietà, di competenza nazionale, l’Unione europea non avendo diritto di intervenire in questa materia. La proposta è ferma da diversi anni al Consiglio in attesa che questo prenda la sua posizione in prima lettura.
Tutto ciò conferma quanto l’accesso alla giustizia da parte dei cittadini e delle associazioni ambientali sia una questione estremamente importante sulla quale pesa il delicato rapporto tra competenze nazionali e competenze sovranazionali, queste ultime progressivamente aumentate a partire dalla firma dei Trattati di Roma nel 1957. L’Unione europea ha, dunque, l’oneroso compito di trovare un difficile quanto necessario equilibrio tra rivendicazioni statali e politiche sovranazionali europee affinché il diritto ambientale non rimanga soltanto sulla carta ma produca effetti all’interno degli Stati membri [10].
Per quanto riguarda le misure prese dall’Unione europea nei confronti delle proprie istituzioni, il recepimento dell’art. 9, n. 3, è avvenuto attraverso il titolo IV del regolamento (CE) n. 1367/2006[11] che prevede la possibilità per le organizzazioni ambientali di presentare una richiesta di riesame interno all’istituzione che ha adottato un atto amministrativo ai sensi del diritto ambientale, la quale è tenuta a rispondere per iscritto entro un determinato termine, e, nel caso ometta di agire, il diritto di proporre ricorso dinanzi alla Corte di giustizia a norma delle pertinenti disposizioni del trattato. Tuttavia, il problema si pone proprio nel momento in cui le associazioni ambientali chiedono di avere accesso al sistema giurisdizionale europeo. Ad oggi, infatti, non esiste un solo caso giurisprudenziale in cui un singolo cittadino o un’associazione ambientale sia riuscito a far valere il proprio interesse ad agire per contestare di fronte alla Corte di Giustizia dell’Unione europea una decisione presa dalle istituzioni concernente norme europee a tutela dell’ambiente. In particolare, gli organi giurisdizionali europei hanno per il momento sempre negato l’accesso alla giustizia alle associazioni o a singoli cittadini, non ritenendoli, nei vari casi sottoposti al suo esame, in grado di provare il loro interesse diretto e individuale all’annullamento di un atto adottato dalle istituzioni, riguardante il diritto ambientale europeo[12].
Merita ricordare a tal riguardo che, a norma dell’art. 263, par. 4 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, qualunque persona fisica o giuridica può proporre ricorso al giudice comunitario contro atti adottati nei suoi confronti o “che la riguardano direttamente e individualmente …”. La Corte ha interpretato questa norma nel senso che “Chi non sia destinatario di una decisione può sostenere che questa lo riguarda individualmente soltanto qualora il provvedimento lo tocchi a causa di determinate qualità personali, ovvero di particolari circostanze atte a distinguerlo dalla generalità, e quindi lo identifichi alla stessa stregua dei destinatari[13]. Secondo la giurisprudenza, in materia ambientale le associazioni e i cittadini non sono mai riusciti a dimostrare di versare in quelle particolari circostanze, atte a distinguerli dalla generalità, e quindi a porli sullo stesso piano del destinatario di un provvedimento dell’Unione. Come è evidente, tale interpretazione ha creato e crea difficoltà quasi insormontabili per le associazioni ambientali o i singoli cittadini che vogliono impugnare una decisione delle istituzioni a loro avviso adottata in violazione delle norme europee a tutela dell’ambiente.
In che modo, infatti, una persona fisica o morale può distinguersi dalla generalità degli altri soggetti quando la decisione riguarda un interesse da tutelare che per sua natura è diffuso e collettivo?

L’unico dato che al momento si può registrare si basa sui fatti: ad oggi l’accesso alla giustizia in materia ambientale è stato sempre negato dalla Corte della Giustizia a causa dell’interpretazione restrittiva dell’art. 263, par. 4, TFUE che rende impossibile la tutela dell’interesse ambientale da parte di associazioni o cittadini europei. Inoltre, occorre sottolineare che la Corte di Giustizia non sempre ha tenuto un atteggiamento rigido nell’applicazione del Plaumann test. Infatti, vi sono alcuni casi in cui sembra che essa abbia adottato un’interpretazione più flessibile delle condizioni stabilite dall’art. 263, par. 4 TFUE e dalla giurisprudenza Plaumann. In particolare, nel caso siano in gioco interessi economici o commerciali, la Corte ha dimostrato non solo di poter applicare più facilmente i parametri imposti dal Plaumann test ma anche, a volte, la volontà di derogare alla sua rigidità al fine di garantire ai ricorrenti una migliore tutela, ad esempio assicurando loro la legittimazione ad agire nei confronti di atti delle istituzioni europee, quando siano in grado di dimostrare di aver partecipato alla procedura per l’adozione dell’atto stesso oppure nel caso in cui dimostrino l’impatto negativo di questo sulle proprie attività economiche e commerciali[14].
Perché la Corte ha sviluppato questo approccio più flessibile nella tutela di interessi economici e non nella tutela di interessi ambientali?
Una risposta plausibile discende forse dalla stessa storia dell’integrazione europea. Si deve infatti ricordare che l’Unione europea è nata per perseguire l’obiettivo principale di creare condizioni economiche in grado di supportare la crescita di un mercato interno nel quale fosse garantito il libero commercio tra Stati membri nel rispetto del gioco della concorrenza. All’origine dunque, il giudice europeo si è preoccupato essenzialmente di tutelare gli interessi privati economici e commerciali. Solo in un secondo momento, accanto alla necessità di sviluppare una forte economia di mercato, sono emerse dal cuore della società civile europea ulteriori e nuove esigenze quali, ad esempio, il progresso sociale, la ricerca della piena occupazione e la tutela e il miglioramento della qualità dell’ambiente. Plaumann costituisce dunque un approccio comprensibile per ragioni storiche ma ormai non più giustificabile alla luce delle nuove esigenze dei cittadini europei all’inizio del ventunesimo secolo.
In conclusione, ad oggi il terzo pilastro della convenzione di Aarhus non ha ancora trovato piena attuazione all’interno dell’ordinamento dell’Unione europea, da una parte, non essendo stata adottata una direttiva che preveda l’applicazione degli obblighi derivanti dall’art. 9, n. 3 all’interno degli Stati membri, dall’altra non essendo previsti criteri per la legittimazione ad agire in grado di garantire un ampio accesso alla giustizia.
Ci si deve augurare che l’Unione europea, in collaborazione con gli Stati membri e tutti i soggetti interessati, possa adottare misure tali da permettere l’accesso alla giustizia in materia ambientale, sia attraverso l’operato della Commissione, del Parlamento e del Consiglio con la ripresa dei lavori relativi alla proposta di direttiva del 2003 sia attraverso i giudici della Corte di Giustizia con una più adatta interpretazione dei criteri di legittimazione ad agire per i ricorrenti non privilegiati che vogliano difendere gli interessi ambientali, così garantendo una migliore tutela dell’ambiente.
La sentenza della Corte di Giustizia dell’8 marzo scorso, purtroppo, non fa altro che consolidare quanto sopra descritto. In particolare la Corte ha dichiarato che:
L’art. 9, n. 3, della convenzione [CEE/ONU] sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, approvata a nome della Comunità europea con la decisione del Consiglio 17 febbraio 2005, 2005/370/CE, non ha efficacia diretta nel diritto dell’Unione. Nondimeno, il giudice nazionale è tenuto ad interpretare, nei limiti del possibile, le norme processuali concernenti le condizioni che devono essere soddisfatte per proporre un ricorso amministrativo o giurisdizionale in conformità sia degli scopi dell’art. 9, n. 3, della suddetta convenzione sia dell’obiettivo di tutela giurisdizionale effettiva dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, al fine di permettere ad un’organizzazione per la tutela dell’ambiente … di contestare in giudizio una decisione adottata a seguito di un procedimento amministrativo eventualmente contrario al diritto ambientale dell’Unione.
Il giudice europeo, pertanto, concede un ampio margine di manovra al giudice nazionale, dal momento che l’Unione europea non ha ancora adottato gli atti necessari per incorporare l’art. 9, n. 3 della convenzione di Aarhus nel diritto dell’Unione e renderlo vincolante per gli Stati membri, con l’effetto negativo di rendere l’accesso alla giustizia estremamente disomogeneo all’interno dell’Unione europea, a seconda dell’approccio più o meno restrittivo utilizzato da ciascun Stato membro.[15].
Che le istituzioni europee colgano quanto stabilito dalla grande sezione della Corte di Giustizia come stimolo per riprendere il dibattito sull’accesso alla giustizia ambientale e trovare, quindi, soluzioni di equilibrio che possano soddisfare tutti gli attori in gioco: Unione europea, Stati membri, cittadini e associazioni ambientali. Senza prescindere dalla necessaria dimostrazione di un interesse ad agire, si potrebbero individuare criteri specifici nuovi per l’accesso alla Corte di Giustizia da parte di cittadini e associazioni ambientali affinché possano contestare più facilmente un atto adottato da un’istituzione europea potenzialmente dannoso per la loro stessa salute e per l’ambiente in cui vivono. Inoltre, si potrebbe facilitare l’accesso alla giustizia all’interno dei singoli Stati membri con l’adozione di una direttiva che stabilisca criteri comuni per una minima uniformità legislativa tra i ventisette Stati membri. Soltanto in questo modo si potrà ottenere un’efficiente e completa attuazione di tutti gli obblighi derivanti dalla convenzione di Aarhus all’interno dell’Unione europea.

Note

1.  Direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, GU dell’ 8.3.1996, L 59/63.

2.  Il 17 febbraio 2005 la Convenzione di Aarhus è stata approvata dall’Unione europea con la decisione del Consiglio 2005/370/CE, GU del 17.5.2005, L 124/13.

3.  Ad eccezione dell’Irlanda.

4.  Direttiva 2003/4/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale e che abroga la direttiva 90/313/CEE del Consiglio, GU del 14.2.2003 L 41/26.

5.  Direttiva 2003/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 maggio 2003, che prevede la partecipazione del pubblico nell’elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale e modifica le direttive del Consiglio 85/337/CEE e 96/61/CE relativamente alla partecipazione del pubblico e all’accesso alla giustizia – Dichiarazione della Commissione, GU del 25.6.2003, L 156/17.

6.  Regolamento (CE) n. 1367/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 settembre 2006, sull’applicazione alle istituzioni e agli organi comunitari delle disposizioni della convenzione di Aarhus sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, GU del 25.9.2006, L 264/13.

7.  Art. 6, dir. 2003/4/CE; art. 10 bis, dir. 2003/35/CE; artt. 12 e 13 dir. 2004/35/CE.

8.  Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 2003, sull’accesso alla giustizia in materia ambientale, COM/2003/0624 def. – COD 2003/0246.

9.  Posizione del Parlamento europeo definita in prima lettura il 31 marzo 2004 in vista dell’adozione della direttiva 2004/…/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sull’accesso alla giustizia in materia ambientale, GU del 29.04.2004, C 103E/626.

10.  V. le conclusioni dell’avvocato generale Sharpston, presentate il 15 luglio 2010, e relative alla sentenza in questione: “L’art. 9, n. 3, è stato recepito solo con effetti nei confronti delle istituzioni dell’Unione, attraverso il regolamento n. 1367/2006. Ritengo che nella specie si possa applicare una variante del principio di diritto comune «inclusio unius est exclusio alterius». L’esistenza di un regolamento che applica l’art. 9, n. 3, nei confronti delle istituzioni evidenzierebbe, quindi, solo l’assenza di un atto dell’Unione che recepisca obblighi equivalenti negli ordinamenti giuridici degli Stati membri. La proposta di direttiva della Commissione intesa a dare attuazione all’art. 9, n. 3, in relazione agli obblighi degli Stati membri è caduta nel nulla. Gli obblighi di cui all’art. 9, n. 3, devono ancora essere trasposti nel diritto nazionale attraverso il diritto dell’Unione.” (punto 76).

11.  Artt. 10-12.

12.  Ordinanza del Tribunale di primo grado del 9 agosto 1995, Stichting Greenpeace Council e a. c. Commissione, causa T-585/93 e sentenza della Corte del 2 aprile 1998, Stichting Greenpeace Council e a. c. Commissione, causa C-321/95 P; ordinanza del Tribunale di primo grado del 2 giugno 2008, WWF-UK Ltd contro Consiglio, causa T-91/07; ordinanza della Corte del 5 maggio 2009, WWF-UK Ltd c. Consiglio, Causa C-355/08 P.

13.  Sentenza della Corte del 15 luglio 1963, Plaumann & Co. C. Commissione, causa C-25/1962. In particolare: “Chi non sia destinatario di una decisione può sostenere che questa lo riguarda individualmente soltanto qualora il provvedimento lo tocchi a causa di determinate qualità personali, ovvero di particolari circostanze atte a distinguerlo dalla generalità, e quindi lo identifichi alla stessa stregua dei destinatari. Da questa sentenza ha tratto origine il c.d. Plaumann test, ancora oggi utilizzato dai giudici di Lussemburgo per stabilire se un determinato soggetto ha legittimazione ad agire contro un atto delle istituzioni comunitarie.

14.  In particolare nel settore della tutela della concorrenza. V. sentenza della Corte del 19 maggio 1993 William Cook plc c. Commissione, causa C-198/91; sentenza della Corte del 15 giugno 1993, Matra SA c. Commissione, causa C-225/91; ordinanza del presidente del Tribunale di primo grado del 15 dicembre 1992, Comité central d’entreprise de la Société Générale des Grandes Sources e altri c. Commissione, causa T-96/92; sentenza del Tribunale di primo grado del 27 aprile 1995, Comité central d’entreprise de la société anonyme Vittel e altri c. Commissione, causa T-12/93; sentenza del Tribunale di primo grado dell’11 luglio 1996, Metropole télévision SA e Reti Televisive Italiane SpA e Gestevisión Telecinco SA e Antena 3 de Televisión c. Commissione, cause riunite T-528/93, T-542/93, T-543/93 e T-546/93; sentenza della Corte dell’11 giugno 1992, Extramet Industrie SA c. Consiglio, causa C-358/89; sentenza della Corte del 18 maggio 1994, Codorniu SA c. Consiglio dell’Unione europea, causa C-309/89.

15.  V. un recente studio condotto dalla DG Ambiente della Commissione europea sulle condizioni di accesso alla giustizia nei singoli Stati membri: Milieu Ltd (2007) Summary Report on the inventory of EU Member States’ measures on access to justice in environmental matters, Report for European Commission, DG Environment, Brussels, disponibile su http://ec.europa.eu/environment/aarhus/study_access.htm.