La vita e le forme. Intorno alla lezione di Giorgio Lunghini

La “lezione breve” di Giorgio Lunghini all’Accademia dei Lincei, in cui ha sviluppato una serrata critica alle teorie economiche oggi dominanti, manda, mi sembra, questo messaggio: non è possibile interpretare il mondo in chiave statica. Il mondo e la vita sono attraversati da conflitti e crisi perenni, intrinseci alla loro stessa esistenza. Solo se, con profonda umiltà, si cerca di cogliere la dinamica di questi conflitti e di queste crisi, si può capire qualche cosa del mondo e della sua storia. Conflitti e storia non sono riducibili a giochi di forze, razionalizzabili con la sola matematica.
Le sue parole, qui sommariamente e poveramente riassunte, hanno una valenza generale. Si applicano pienamente anche al diritto. Solo di questo chi scrive può e vorrebbe dire qualche cosa.
La storia insegna che l’esperienza della codificazione francese – oggi finita, ad onta del nome che si continua ad adoperare – indusse una trasformazione profondissima degli studi giuridici. Si può dire che venne introdotta un’idea metodologicamente rivoluzionaria: la generalità dei concetti e, sua compagna, pericolosissima compagna, la loro astrattezza. Già “contratto” era concetto difficile per chi era abituato a parlare di trasporto, di abitazione, di scambio (usucapione è molto più semplice, perché il fenomeno reale, nella sua materialità, è univoco); ma “negozio”! Che cosa dire di questa parola che comprendeva il contratto, ma in qualche modo lo assorbiva in sé, perché aspirava a trascendere ogni contenuto, ridursi al puro – astratto – gioco delle volontà, senza riferimento concreto alcuno? Si sono scritte centinaia, forse migliaia di volumi su questo tema. Possiamo ben dire che in questo modo si sviluppò una cultura giuridica che aveva il proprio riferimento non nell’esperienza umana e nella sua sterminata complessità, ma in un quadro di modelli, schemi, figure predefiniti, ai quali la realtà – l’esperienza – doveva essere ridotta. Si pensi alle pagine che si sono dedicate ai “diritti potestativi” o “meramente potestativi”, quasi con l’idea di poter prescindere dalla prelazione o dall’opzione – per non parlare dei “diritti soggettivi” e degli “interessi legittimi”, di cui si è scritto, parlato e soprattutto giudicato come se fossero realtà viventi.
Del resto, nomen omen: per questo approccio metodologico si è parlato di “dogmatica giuridica”. Dogma è un parere, un’opinione assurta al rango di verità. Articolo di fede, staccato dalla vita, il contrario del diritto, che è una ricerca costante dell’ordine e della giustizia.[1]
Certo, oggi nessuno si sogna più di scrivere libri sui diritti potestativi. Ma si continua a prendere per realtà ciò che è mera costruzione concettuale, o, peggio, ad attribuire una funzionalità specifica ad apparati che ne hanno assunta di fatto un’altra.
Il fenomeno più grave di costruzione concettuale presa per realtà è probabilmente quello delle situazioni giuridiche soggettive. Tutta l’esperienza può essere letta nella prospettiva della posizione che il soggetto ha in una data vicenda. Il diritto di abitare in una casa può avere vari titoli (proprietà, locazione, usufrutto, comodato, coniugio, filiazione, etc.); è un “diritto”, è una “situazione giuridica soggettiva”, diversa dal desiderio di starvi. Basta ricordarsi che se il diritto di abitare in una casa è una situazione giuridica soggettiva, non è vero l’inverso. Provare per credere.
Con l’idea che esistessero rapporti e vicende in cui l’esercizio della funzione amministrativa doveva essere esente dalla minaccia e dal pericolo di azioni per il risarcimento del danno da parte dei cittadini lesi, la dottrina, e soprattutto la giurisprudenza, pretesero di ridurre tutti i rapporti tra cittadini ed amministrazione entro due classi o categorie di “figure giuridiche soggettive”: diritti soggettivi e interessi legittimi, asseritamente più tutelati e risarcibili i primi, del pari asseritamente meno tutelati ed irrisarcibili i secondi. La scelta della casella in cui collocare le vicende concrete della vita era pressoché arbitraria: come si può predeterminare un criterio per misurare l’ “intensità” di un amore, di una collera, di una tutela? Comunque dal 1890 ci fu un giudice per ciascun tipo di situazione giuridica soggettiva: il giudice ordinario per i diritti, il giudice amministrativo per gli interessi legittimi.
L’irrisarcibilità degli interessi legittimi si protrasse fino al 1999, quando la Cassazione cambiò giurisprudenza e li ritenne risarcibili. Tutta la diatriba sul giudice competente a decidere una controversia con la pubblica amministrazione sarebbe dovuta cessare istantaneamente: era venuta meno la ragione della separazione delle giurisdizioni. Continua invece, come nulla fosse. Si continua a litigare su quale giudice debba avere giurisdizione su “situazioni giuridiche soggettive” che hanno perso la loro identità.
L’altro fenomeno su cui merita richiamare l’attenzione è quello del diritto penale. L’astratto desiderio di punire i reprobi ha generato un numero sterminato di norme penali. Il diritto penale viene così gestito come se ci fossero centomila giudici dedicati all’accertamento ed alla punizione dei reati. La realtà è che sono circa quattromila. Il risultato è che il 95% dei reati resta impunito. La dilatazione del diritto penale ha avuto l’effetto di vanificarne drammaticamente l’efficacia.

Si potrebbe continuare a lungo. Le pagine di Lunghini dicono che bisogna stare molto attenti a quanto si dice e si fa. Prima di parlare, scrivere, legiferare è indispensabile chiedersi perché lo si fa, con quali scopi, con quale rapporto con la realtà. Solo così si evitano non soltanto le parole al vento, ma anche autentici disastri.

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Note

1.  Sulla dogmatica giuridica la letteratura è vastissima. Il riferimento essenziale è Orestano, Introduzione allo studio storico del diritto romano, 1963. V. anche, in termini più generali, Paresce, Dogmatica giuridica, in Enciclopedia del diritto, XXXIII, 1964, p. 678 ss e Piano Mortari, Dogmatica giuridica (storia), ibidem, p. 671 ss.