Profili di criticità dell’attuale disciplina ambientale

Master in Diritto dell’Ambiente dell’Università “La Sapienza”, trascrizione dell’intervento orale svolto in occasione della Tavola Rotonda del 3 febbraio 2011 sul tema “La questione ambientale”

Il diritto è, nel quadro della disciplina dell’ambiente, una delle forme di antropotecnica. Un tentativo dell’uomo di utilizzare alcune forme di disciplinamento, come l’esercizio fisico, per risolvere i problemi cruciali, che attengono alla sopravvivenza della specie. A “tecnologia costante” risultiamo una specie straordinariamente fortunata. La capacità umana di produrre tecniche è centro della stessa natura umana e base delle rivoluzioni economiche. Ha a che fare, inoltre, con il diritto. Non solo esso si tecnicizza, o esso stesso, forse, è tecnica (Irti, Severino). La tecnica, tuttavia, non ha fini e se li deve prendere da qualche altra parte. La tecnica ci permette di fare qualche cosa, ma non è detto che quello che si può fare, poi effettivamente ci serva, quando acquisiamo una vista più lunga di quella di cui, talvolta, siamo capaci. Nella crisi finanziaria, ad esempio, l’innovazione tecnologica ha prodotto enormi crescite quantitative dei mercati borsistici, poi queste si sono rivelate delle bolle. Adesso tutti pensiamo che dobbiamo avere una vista più lunga, per affrontare questi problemi e quindi introdurre un global legal standard. Il diritto ambientale, in fondo, ci parla di problemi simili. Mantenere un equilibrio fra uomo ed ambiente, confidare nelle tecnologie già sviluppate e costringere alle migliori pratiche, incentivare lo sviluppo di nuove tecnologie.
Come giuristi occorre avere una vista più lunga e il diritto ambientale sembra averne. Da giuristi possiamo ragionare sulla possibilità di utilizzare alcuni strumenti.
In virtù di queste premesse metodologiche, possiamo porci alcune domande. Come è costruito il diritto ambientale oggi? E’ adeguato, oppure no?
Possiamo manifestare nei suoi confronti un senso di fortissima insoddisfazione. Non tanto e non solo per la contingenza (fatta delle scelte politiche immediate), quanto per la struttura (determinata dalle scelte di più lungo periodo).
Sul versante della contingenza, è noto che è stata riscritta in questa legislatura gran parte del t.u. in materia ambientale. E’ qui che sorgono le prime insoddisfazioni. Per esempio, è introdotto il Sistri per monitorare i rifiuti; ma c’è una sfasatura tra l’abrogazione delle vecchie sanzioni e l’introduzione del nuovo sistema, sicché oggi c’è chi dice fra i giuristi che non ci sono sanzioni per l’omessa tracciabilità dei rifiuti. Un altro esempio: è stato introdotto un nuovo sistema di misurazione delle PM10 e di altre sostanze venefiche nell’atmosfera. Esso è un sistema certamente più accurato del passato che coinvolge tutti i livelli istituzionali. Nelle pieghe della normativa, però, il benzoapirene, un prodotto particolarmente nocivo, è stato liberalizzato fino al 2013, di questo c’è traccia nella mozione Zamparutti, discussa recentemente, e rigettata dai rami del nostro Parlamento. Ciò dimostra anche come, in genere, vi sia una costante pressione delle lobbies economiche sul modo in cui si fa diritto ambientale. Un diritto che rappresenta un pezzo del diritto dell’economia, è l’antropotecnica che ci serve a limitare gli effetti negativi del modo di produzione dell’economia capitalistica.
Relativamente alla struttura, si osserva come il paradigma su cui è costruito il diritto ambientale, ossia il principio dello sviluppo sostenibile, sia una chimera difficilmente realizzabile nella prassi. Esso richiederebbe la gestione di una quantità tale di dati e informazioni, sul modo e sugli effetti che sono prodotti da ciascuna attività economica, che ci costringerebbe a ricreare il nostro “meccano mentale” sul modo in cui tenere la contabilità delle imprese e delle pubbliche amministrazioni.
L’attenzione è partita, così, proprio dalle imprese.
Il problema, dal punto di vista economico e giuridico, è come noi calcoliamo i danni che gli economisti chiamano esternalità. Per farle diventare elementi del conto delle imprese occorrerebbe cambiare il modo di fare la contabilità (in diritto privato e pubblico). I bilanci dovrebbero essere costruiti diversamente, in maniera tale da tenere conto dello stock di risorse ambientali non riproducibili che vengono consumate ogni volta che c’è un’attività economica. Se così fosse, però, i prezzi dei prodotti crescerebbero a dismisura. Ci si avvede, dunque, come in realtà sia poco desiderabile – per ragioni economiche – una nuova impostazione della contabilità. E’ così spiegato il perché i bilanci non conteggino i costi ambientali. Forse si potrebbe pensare a cambiamenti graduali.
Per quanto riguarda le pubbliche amministrazioni, il governo Prodi fece un disegno di legge che proponeva l’introduzione per le p.a. di una contabilità ambientale; si voleva far iniziare il pubblico a fare questo conto. Ci si rese conto, poi, che ciò avrebbe significato che i costi delle opere pubbliche e i periodi di crisi fiscale sarebbero lievitati fortemente. Resisi conto della difficoltà di gestire questo problema i politici hanno rinunciato. In ogni caso, significherebbe un cambiamento considerevole.
Altro motivo di insoddisfazione attiene alla legislazione. Nonostante l’ambiente sia pacificamente ormai una problematica globale rimane prevalente l’intervento della legislazione nazionale.

Qui il giuoco degli interessi si fa forte. Fra le risposte globali, tuttavia, ci sono dei principi del diritto globale ambientale o europeo, che possono essere utilizzati da tutti gli interpreti, amministrazioni e giudici. Tali principi sono: 1) Sviluppo sostenibile, per quanto una chimera; 2) Precauzione: dato che le previsioni che possiamo fare sono a tecnologia costante, occorre essere più prudenti del normale; 3) Riduzione del danno alla fonte: prevenire il danno dove si verifica; 4) Chi inquina paga: un modo per tener conto delle esternalità. Esso consente, sia pure ex post, di monetizzare il danno ambientale, anche in assenza di una contabilità ambientale. 5) Gestione del rifiuto in via amministrativa o pubblica, di ciò che resta dell’atto di consumo: è un fatto di massimo interesse pubblico; 6) Responsabilità estesa del produttore: le singole imprese devono essere responsabilizzate; ci si è convinti del fatto che le strutture pubbliche da sole non ce la facciano a gestire il problema dei rifiuti in una società industriale, in parte, dunque, le singole imprese devono essere responsabilizzate. Tuttavia, i confini tra doveri delle amministrazioni e i doveri del produttore non sono affatto chiari e dipendono dalle singole legislazioni nazionali. Ovviamente, questa è una lotta tutta politica che si svolge tra chi ritiene che le imprese debbano essere sempre più responsabilizzate nelle varie filiere di gestione dei rifiuti e chi è a favore dell’intervento paternalistico della p.a..
Il fatto che la tutela dell’ambiente sia prevista dalla Costituzione, o quale principio fondamentale, in ogni caso, è importante, decisivo nell’orientare la legislazione e la prassi. Ad esempio il principio costituzionale implica la costruzione di un modello concreto di azione ambientalmente orientata, vero compito delle pubbliche amministrazioni, per la realizzazione del quale occorre comunque l’intervento della legislazione amministrativa, il coordinamento degli uffici, la considerazione dell’interesse ambientale sin dall’atto del sorgere di ogni politica. Ma c’è di più: la tutela ambientale dovrebbe essere un modello di costruzione dello stesso diritto privato.
Ad esempio il diritto di proprietà, che oggi è costituito come diritto assoluto, in modo, praticamente, ottocentesco, andrebbe ripensato secondo schemi che riecheggiano quelli degli usi civici, degli oneri reali. Ovvero degli schemi giuridici medioevali, travolti dallo sviluppo industriale. In un’epoca in cui fioriscono le autonomie locali, in cui fiorisce il diritto amministrativo che nasce dal basso, prodotto dalle autonomie gli usi civici potrebbero avere ancora qualcosa da dire.
Per gli amministrativisti il diritto ambientale è campo privilegiato, perché è un diritto in cui c’è ancora un provvedimento tradizionale che può autorizzare, ordinare etc…. Sembra quasi echeggiare la vecchia p.a. autoritativa, laddove oggi, nel resto del diritto amministrativo, l’amministrazione appare, piuttosto, consensuale.
Il modulo consensuale non pervade il diritto ambientale; in questo è principe la tecnica di costruzione delle fattispecie del command and control: prescrivi e poi controlla. Ma l’amministrazione che ha risorse limitate non ce la fa a controllare. Nasce allora il problema culturale: o c’è un’ampia condivisione da parte dei consociati dei precetti amministrativi o ci sono fenomeni di illegalità di massa. Il legislatore penale nell’ambiente vede un succedersi continuo di criminalizzazioni e frequenti depenalizzazioni perché ci si rende conto dei danni economici che avrebbero tali sanzioni penali, a livello sistemico insostenibili.
E’ stata introdotta una direttiva comunitaria nota come IPPC, che si propone la finalità di controllare l’impatto ambientale delle attività economiche non solo nel momento della loro creazione o progettazione (come con la VAS o con la VIA) ma nel momento della gestione di tutto il ciclo produttivo. Oggi tutto il ciclo produttivo è gestito ambientalmente in modo virtuoso, integrale. Questo avviene, non con prescrizioni puntuali, bensì con la canonizzazione di alcune best practices. Pertanto, tutto nostro il sistema industriale, per effetto di questa disciplina europea, deve attestarsi al livello delle migliori best practices europee.
Il problema è che questo richiederebbe degli investimenti, che il nostro sistema ha difficoltà a fare. Il sistema è un po’ vetusto, così capita spesso che non ce la faccia a superare i controlli dell’IPCC. Da qui una pericolosa dinamica: ogni volta che si presenta qualche problema, il nostro sistema incancrenito cerca di costruirsi una soluzione ad hoc, con le leggi provvedimento. Una dinamica di tal tipo, è chiaro, non va bene: ci vuole una rivoluzione culturale, con l’uso degli strumenti di diritto privato. Serve l’introduzione di disciplina dell’ecologia di mercato, di una logica dell’incentivazione, che lasci alle spalle, definitivamente, la logica sanzionatoria.
Un economista dell’ambiente, Herrman Daly, ha individuato il contenuto della nozione di sviluppo sostenibile:
1) il tasso di utilizzazione delle risorse rinnovabili non deve essere superiore al loro tasso di rigenerazione; 2) l’immissione di sostanze inquinanti e di scorie nell’ambiente non deve superare la capacità di carico dell’ambiente stesso; 3) lo stock di risorse non rinnovabili deve restare costante nel tempo.
Questi elementi dovrebbero essere resi misurabili e per far ciò è necessaria quella rivoluzione dei principi contabili delle p.a., di cui si parlava prima. Delle direttive tecnico-giuridiche sono ricavabili dal principio che non è criticabile in quanto generico, sembra però irrealistico. Non è forse più realistico puntare sulla decrescita serena per il fatto che, comunque, l’effetto che riusciamo ad ottenere è più sensibile in termini discreti? E’ più facilmente raggiungibile l’obiettivo di fermare la crescita, piuttosto che inseguirla cercando di misurarla.

Evento collegato: