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Infrastrutture fra Governo e Proprietà

di - 26 Marzo 2011
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La proprietà degli impianti e delle infrastrutture asservite a pubblico servizio può rimanere pubblica o privata (purché siano garantite la libertà d’accesso e l’assenza di vantaggi competitivi al cessare della validità delle concessioni), ma la loro gestione dev’essere presidiata da regole coerenti al sistema di priorità che si intende perseguire.
E, al di sopra di tutti gli attori e figuranti della scena, dev’essere considerato il ruolo di un regolatore che possa manovrare, in modo uniforme nei confronti di tutto il mercato, per il raggiungimento degli obiettivi assegnati.
Non starebbero insieme, la gestione pubblica delle reti, le finalità sociali e quelle di sviluppo, l’organizzazione societaria della gestione e la relativa pretesa di autonomo equilibrio economico-finanziario delle gestioni stesse. Mentre potrebbero convivere le istanze di tutela delle fasce socialmente più deboli, l’alleggerimento della finanza pubblica e lo sviluppo infrastrutturale sotto un regolatore che avesse da un lato una posizione di effettiva terzietà rispetto sia agli impianti che ai soggetti preposti a gestirli e, dall’altro lato, una chiara visione, e forse anche una capacità di determinazione, degli obiettivi gestionali, da dosare ed adattare alla luce della contingenza.
La società per azioni di interesse nazionale, quella in cui la prevalente partecipazione dello Stato o di enti pubblici consente la nomina diretta dell’organo amministrativo e quella in cui l’interesse generale comprime il fine lucrativo dovranno essere rilette in questa prospettiva: come il Legislatore sembra aver già iniziato a fare, fors’anche inconsapevolmente, con la riforma dell’art. 2449 c.c., che – dal 2008 – ha iniziato a prendere cura degli interessi dei terzi almeno con riferimento alle società, bensì partecipate dallo Stato, che facciano ricorso al mercato del capitale di rischio. Ed ha, conseguentemente ricondotto alla categoria dell’agire iure privatorum le manifestazioni di imperio precedentemente previste.
Anche l’art. 2451, nell’estendere alle società di interesse nazionale la disciplina codicistica dettata per la società commerciale nel suo complesso, conferma l’istanza liberista applicata all’intervento (verrebbe da dire: all’uscita) dello Stato nell’economia. E, coerentemente, rende talune conseguenze immediatamente estraibili dal riconoscimento di specifici privilegi; così, anche il regime di cui all’art. 2497 ss. (sulla responsabilità per eterodirezione ed eterocoordinamento) deve trovare cittadinanza, e, se lo Stato forza le caratteristiche dell’istituto societario alle proprie prerogative, si trova a risponderne verso (gli altri) soci “per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione”.
Altro che compressione delle finalità lucrative a vantaggio dell’interesse generale!
Dovrà ripensarsi il profilo della responsabilità erariale degli amministratori e dipendenti di società miste, ancorché incaricate di pubblico servizio, e ricondurla nell’ambito della ordinaria responsabilità per il rispetto degli interessi sociali.
Insomma, electa una via, non datur recursus ad alteram: anche in tema di organizzazione e gestione del sistema infrastrutturale.
Ne conseguiranno benefici in termini di accesso al credito, di sviluppo, di tutela del patrimonio ambientale, di ricadute occupazionali.
Il dilemma infrastrutturale, insomma, si esaurisce in questo: la costituzione di una vera entità di governo degli obiettivi e dei mezzi disponibili per il loro raggiungimento, nel contesto di una visione finalmente organica della questione. Il dibattito sulla forma proprietaria, sull’assetto organizzativo e, in generale, sulla quantità di intervento pubblico richiesto, distorce la prospettiva, senza contribuire al progresso della materia.

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