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Infrastrutture fra Governo e Proprietà

di - 26 Marzo 2011
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La trasformazione in società di capitali delle aziende e degli enti pubblici che gestiscono i servizi non può risolversi in una mera operazione cosmetica. Fare S.p.A. significa fare impresa, rischiare, dunque, e produrre risultati. Significa disporre delle leve per governare il proprio assetto interno, per incidere nel contesto competitivo, per tenere in equilibrio i conti così da conseguire gli utili sperati.
Aprire il capitale a privati, ancor più richiedere la quotazione in borsa, significa sollecitare il coinvolgimento nella gestione del servizio pubblico di forze prive di natura pubblicistica ed alle quali non può e non deve essere addossata alcuna istanza pubblicistica. Si prospetta un business che avrà certamente una propria rigorosa disciplina, ma che è e deve rimanere un business. Al quale ciascun socio partecipa in ragione del capitale apportato, con piena pari facoltà rispetto agli altri.
Si vuole che la proprietà pubblica scenda entro tempi dati al di sotto di determinate soglie per mantenere in essere le concessioni assentite senza ricorso a procedure competitive, e quindi godere di una sanatoria rispetto al vulnus concorrenziale che tali affidamenti diretti comportano? Si vuole che per beneficiare il cliente/utente/ consumatore il comparto dei servizi pubblici sia fatto oggetto di liberalizzazione ed apertura della concorrenza?
Si voglia ciò che si vuole, ma con coerenza e consapevolezza. Si sappia che, in tale contesto, il ruolo pubblico si esplica nell’azione di governance del comparto, e non nella soddisfazione diretta di istanze sociali. Lo scenario liberalizzato, concorrenziale, efficiente, appartiene alla sfera dell’agire imprenditoriale, che è privatistico anche indipendentemente dalla natura dei soggetti cui la proprietà fa capo; dispone di strumenti ad esso peculiari, ed agisce, nel rispetto della legge, per finalità che sono proprie dell’azione imprenditoriale.
Si preferisce che l’obiettivo sia altro, di tutela delle fasce più deboli della popolazione, di politica tariffaria avulsa dalla dinamica economica dell’attività? Se ne deve conseguentemente far ricadere la struttura proprietaria ed organizzativa, ma anche regolamentare, nell’ambito pubblicistico.
La costante ricerca di compromessi, punti intermedi, soluzioni originali – come tali non riconducibili ad alcun patrimonio ideologico – non produce necessariamente buoni frutti. Più spesso essa dà vita a specie magari ben dotate, ma totalmente prive di spinta vitale, e destinate a soccombere.
Come nel caso proposto dal quesito referendario da cui si è partiti: che seduce l’elettore, vieppiù il meno attrezzato, con la pretesa di mantenere, o riportare, nella sfera pubblicistica la gestione delle acque, lasciando credere – senza dirlo – che “pubblico” significhi “gratis”, o comunque “a basso costo”. Per queste ragioni però anche lo tradisce: gli tace le ripercussioni sulla fiscalità generale e sulla qualità dello sviluppo infrastrutturale che inesorabilmente comporta il rientro nella finanza pubblica dell’equilibrio economico nello specifico del servizio idrico, ma  in generale di qualunque altro servizio pubblico.
Ma il quesito così com’è proposto, al di là di qualunque strumentalizzazione che possa farsene, tradisce ben più che l’elettore. Esso tradisce l’intera cultura del mercato, della tutela del consumatore, della regolazione indipendente.
Perché se il governo dell’infrastruttura e del servizio torna nella sfera pubblicistica, e vi torna sull’onda del risultato elettorale, la scelta è fatta: verso il riacquisto delle quote proprietarie oggi detenute dai privati (con quali fondi?); verso la totale sottrazione al confronto competitivo dei servizi offerti da tali gestori; verso la definitiva inutilità delle authority di settore.
E tale scelta non risolverebbe comunque il tema delle priorità da individuare nell’allocazione delle risorse (che restano scarse). Il totem demagogicamente eretto per vincere il confronto elettorale non potrebbe superare la necessità di realizzare investimenti per molte decine di miliardi di euro in acquedotti, fognature, impianti di depurazione, né potrebbe conciliare tali investimenti con una tariffa pretestuosamente sociale. Ne tacerebbe per un po’. Come tacerebbe delle incompatibilità che si verrebbero a determinare nelle società di gestione a capitale misto pubblico – privato.
Tanto, c’è già chi ha prodotto in laboratorio la società per azioni al cui interno si ha prevalenza dell’interesse generale, e quindi compressione del fine lucrativo, poiché svolgere un servizio pubblico non può non essere funzionale al perseguimento dell’ interesse generale.
Anni di attività normativa, elaborazione economica, proiezione industriale, svaniscono nel lampo di qualche sentenza che interpreta per tenere insieme i pezzi e di un risultato elettorale al cui profilarsi, per la verità, nessuna voce si oppone.
L’elaborazione da parte della pubblica autorità dei capitolati di oneri accessori alle concessioni di gestione dei servizi pubblici, oggi del resto evoluti in veri e propri contratti di servizio che stabiliscono precisi doveri e disciplinano diritti relativi alla gestione, la cristallizzazione di piani di sviluppo delle infrastrutture affidate, la determinazione dell’equilibrio tariffario, sono tutti strumenti dei quali avvalersi per contemperare le diverse istanze rappresentate dalla politica, cioè per esplicare l’azione di governo del pubblico servizio, senza trascinarlo in una economia di stampo feudale, senza sottrarsi al mercato ma – anzi – giovandosene, senza violentare le forme organizzative già adottate.

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