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Le infrastrutture sullo scenario globale: profili geoeconomici

di - 17 Febbraio 2011
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Il vantaggio competitivo è profondamente influenzato dal minor costo delle percorrenze e dall’accessibilità dei mercati. Inoltre le grandi imprese agiscono a livello mondiale o di grandi aree geografiche, ma selezionano la loro localizzazione sulla base della disponibilità di una catena del valore riconducibile sostanzialmente a: istruzione, costo del lavoro, sistemi di regole antimonopolistiche e non ultimo, buone infrastrutture. La mancanza di una risposta alla sfida economica lanciata da aree in cui l’insieme di questi fattori è omogeneo, compromette la formazione di un mercato globale mobile ed efficiente. Se si assume poi un livello di osservazione focalizzato in via esclusiva sull’ultimo dei quattro fattori appena indicati, si scopre che sono in atto iniziative di politica infrastrutturale chiuse all’interno delle frontiere statali nazionali non occidentali, antitetiche alla formazione di una “comunità civile internazionale” a elevato livello di integrazione e che possono spostare il baricentro del vantaggio competitivo verso una sola area del pianeta. Lo sottolineava implicitamente già 12 anni fa Alice Rivlin dall’osservatorio del Congressional Budget Office degli Stati Uniti. Secondo le sue stime, nei paesi Ocse la spesa pubblica in conto capitale e la spesa privata ad essa associata, riguardano sempre meno la realizzazione di infrastrutture con forti esternalità e interdipendenze per le attività produttive, sempre più invece la manutenzione straordinaria e l’ammodernamento del parco infrastrutturale esistente, oppure il collegamento e l’innalzamento degli standard per lotti o tratti di infrastrutture costruite nell’arco di decenni e con caratteristiche tecnico-economiche diverse. In Europa in particolare, mentre nei cento anni che vanno dal 1870 al 1970 la spesa pubblica – all’interno della quale è rubricata la voce infrastrutture – è quasi triplicata rispetto al pil salendo dall’11.8% al 33.7%, nel quarto di secolo che va dal 1970 al 1993 ha toccato il 57% di pil, per scendere progressivamente in seguito alle severe politiche di restrizione del disavanzo e del debito. Ciò significa che nel campo delle reti vi è bisogno di un nuovo sforzo di politica economica nazionale. Fermo restando il principio del rigore si tratta di meditare nuovamente sulla centralità del ruolo dello Stato, sulla capacità e la forza risolutiva della mano pubblica. Si consideri l’esempio di un progetto per il controllo delle inondazioni i cui benefici siano a vantaggio di un’intera regione. La spesa sostenuta contribuisce al benessere della società nel suo insieme. Ne beneficeranno tutti coloro che vivono in quel luogo particolare. Alcuni possono trarre benefici maggiori di altri, ma ciascuno sa che il proprio beneficio non dipenderà dal proprio contributo personale. Perciò, non potendo contare sul fatto che ciascuno contribuisca volontariamente, trattandosi di fattispecie in cui la valutazione del bene non deriva semplicemente dalla regola della sovranità del consumatore, lo stato deve entrare in gioco[8]. La teoria economica usa la nozione di “bene di merito”, per individuare quei servizi o beni – come le infrastrutture – che per la società e l’economia possono avere un valore superiore a quello che i privati potrebbero loro assegnare e che si pongono in una posizione trasversale rispetto alla tradizionale distinzione tra beni privati e beni pubblici[9].
Il G20 di Seoul ha lanciato un nuovo progetto – Seoul Development consensus for Shared Growth – che si propone di incentivare finanziamenti relativi a infrastrutture quali strade e impianti energetici. Tale obiettivo è coerente con gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio fissati dalle Nazioni Unite: aumentare la produzione agricola e creare infrastrutture nei paesi in via di sviluppo. Sempre nel corso del G20 di Seoul il primo ministro indiano Singh ha consigliato che i surplus dei G20 vadano incanalati in investimenti infrastrutturali nei paesi più poveri, meglio sicuramente, come fanno gli USA, che fare pressione su Cina, Germania, Giappone a altri paesi affinché incrementino i consumi e incentivino la domanda. Con l’obiettivo di finanziare urgenti investimenti infrastrutturali in paesi “terzi”, si rischia però di rimuovere degli squilibri e di crearne di nuovi. Pertanto il drenaggio di risorse pubbliche da parte dei paesi ricchi dell’area occidentale – corredato naturalmente di meccanismi che fanno uso del mercato come nelle circostanze in cui vale il teorema di Coase – deve concretizzarsi in interventi che traggono la loro motivazione proprio da una non più rinviabile esigenza di catching up di “beni di merito” (più che meri beni pubblici) resi disponibili nella quantità e qualità appropriata su base nazionale. La competitività nel mercato mondiale richiede un ambiente competitivo sul mercato interno. In un sistema economico complesso, tendenzialmente interdipendente, le varie componenti devono crescere in modo più o meno equilibrato. Se il mercato da solo non produce determinate categorie di beni, si devono predisporre adeguate strategie di intervento pubblico volte al riequilibrio. Sulla linea di un approccio volto al bilanciamento dell’offerta le proiezioni di Booz, Allen & Hamilton calcolano infatti 7800 miliardi di dollari ripartiti metà in Europa e USA e metà altrove, da spendere da qui al 2030 per il fabbisogno di strade e ferrovie delle grandi città del mondo. Resta una domanda. Se i governi seguissero tale agenda, quale sarebbe l’impatto della loro azione?
In base alle analisi del Centro di ricerca sui trasporti e le infrastrutture (Crmt), si calcola che soltanto in Italia per ogni chilometro di autostrada costruita in un’area urbanizzata si generano in 20 anni 660 nuovi posti di lavoro, mentre per ogni chilometro di nuova ferrovia se ne creano circa 450. Sempre su un medesimo arco temporale la realizzazione di un chilometro di autostrada genererebbe un incremento di circa 125 milioni di euro sul pil, equivalenti a circa 6 milioni di euro l’anno, mentre la realizzazione di 1 chilometro di ferrovia ne genererebbe circa 70.

Note

8.  Cfr. R. Musgrave, Finanza pubblica, equità, democrazia, Bologna, 1995, p. 176.

9.  R. Musgrave, The theory of public finance. A study in political economy, New York, 1959.

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