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Le infrastrutture sullo scenario globale: profili geoeconomici

di - 17 Febbraio 2011
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1. Un percorso diverso
Visti da un’angolazione hegeliana, Oriente e Occidente corrispondono a concezioni del mondo totalmente dissonanti, l’una antitetica all’altra, con la civiltà che è essenzialmente civiltà occidentale (il mondo nuovo) e l’Oriente lontano dall’orbita della storia mondiale. L’idea di destino storico divergente elaborata da Hegel (anticipata dalle analisi di Smith sulla Cina e di Malthus, sviluppata poi da Marx, Weber e Schmitt), di Oriente etichettato come “altro” rispetto al quale definire la propria storia, è progressivamente divenuta complementare all’attribuzione alla sola Europa occidentale della capacità di produrre una trasformazione industriale degli apparati e dei modelli produttivi[1]. Qui differenti strategie di comportamento demografico ed economico attuate da parte di semplici contadini, artigiani e commercianti avrebbero dato vita a un sistema sociale che poteva mantenere una quota maggiore di non addetti all’agricoltura, dotare la mano dell’uomo di attrezzi efficienti e fare sì che la popolazione fosse meglio nutrita, più sana e più produttiva. Mentre altrove lo sviluppo sarebbe stato intralciato da uno stato o troppo forte e quindi ostile alla proprietà privata o troppo debole per proteggere lo spirito d’intrapresa dallo scontro con le resistenze delle tradizioni locali e dei poteri religiosi.
Tali assunzioni hanno finito però per rivelarsi troppo rigide e nuove analisi hanno evidenziato qualcosa di gran lunga più complesso e sfumato di una crepa profonda che separa realtà distanti anni luce. Grazie ad esse la creatività tecnologica necessaria alla rivoluzione industriale è apparsa non più appannaggio esclusivo dell’Europa ed è stato possibile rilevare il fenomeno di regioni diverse in posizione di punta o comunque paragonabile a quella di vari settori europei, in grado di progredire nei loro modelli di progresso e diffusione del sapere. A ciò si sono aggiunte altre acquisizioni di carattere macro, arrivando a calcolare che nell’Asia del 1800 il reddito pro capite risultava solo leggermente indietro rispetto ai paesi occidentali (con la Cina addirittura in vantaggio) e che probabilmente anche i mercati del lavoro, della terra e dei prodotti occidentali della fase preindustriale non dovevano essere nel complesso più lontani dal modello di mercato perfettamente competitivo di quanto non fossero per esempio quelli cinesi. Solo successivamente le due aree avrebbero seguito sentieri di sviluppo divergenti fino al punto del superamento dell’Estremo Oriente da parte dell’Europa. Di conseguenza – puntualizza Kuznets- è difficile pensare che l’orientamento dei paesi arretrati o a modernizzazione più tortuosa, i loro sistemi ideali, le loro scale di valore, si nutrano sempre e comunque di logiche in contraddizione con lo sviluppo o destinati a ostacolarlo. Quasi tutti i paesi meno sviluppati hanno avuto al loro interno gruppi che, benché piccoli, sono entrati a contatto con la civiltà europea, con il suo sistema formativo o il suo retaggio intellettuale e spirituale. Talché – conclude Kuznets quasi in assonanza con la teoria diffusionista di Kroeber – vi è stata una disseminazione e ricombinazione di idee e valori di matrice occidentale al di fuori dell’Occidente stesso[2]. Valga fra i tanti esempi possibili il caso di Bentham, parte in causa in merito alla riforma delle istituzioni indiane o dei filosofi del filone utilitarista che usarono l’India come banco di prova per sperimentare le loro idee, essendo fra l’altro sia James che John Stuart Mill funzionari influenti della Compagnia delle Indie Orientali[3]. A questo proposito in uno studio fondato sul metodo dei minimi quadrati a due stadi, sì è dimostrato persino che il reddito pro capite del 1995 è elevato in aree storicamente “accoglienti” verso i colonizzatori europei e che quelle stesse aree, con il passare del tempo, si sono dotate di istituzioni buone. In sostanza l’eredità coloniale porterebbe a effetti collaterali positivi non prestabiliti sia sulle strutture amministrative, sia sulla crescita[4].
Anche da un punto di vista più strettamente storico-genetico, di intelaiatura culturale profonda dentro la quale si sviluppano le economie e le società, una visione cristallizzata dell’Oriente ha rivelato vieppiù una sua intrinseca e non trascurabile astrattezza. Naturalmente non si vuole arrivare a sostenere che Occidente e Oriente siano “terre gemelle”, è un dato di fatto però che l’India diede i natali al sanscrito, il quale esercitò influssi duraturi su quasi tutte le lingue europee; per gli antichi greci era Oriente la Persia, la quale a sua volta era Occidente per i Cinesi. Le linee di frontiera hanno in questo un qualcosa di convenzionale e molto sovente dipendono dal punto di osservazione. Il cristianesimo fu considerato dai Romani una fra le tante religioni orientali e sotto Augusto la repubblica romana si trasformò in un impero che non aveva il carattere di stato tipicamente occidentale. Meno che mai il mondo della tarda antichità reca i segni di un’antitesi fra Oriente e Occidente. Quando Costantino trasferì la sede del governo da Roma al Bosforo, non ci fu una scissione. Anche dopo quell’atto politico sopravvisse una svariata pluralità di ordini giuridici e civiltà in cui Oriente e Occidente erano intimamente mescolati[5]. Non solo: vi è il problema della coesistenza di molti “Occidenti” e molti “Orienti”. Molti istituti giuridici musulmani sono di diretta derivazione bizantina o persiana: le piae causae divennero lo uakf, istituto considerato tipicamente musulmano e l’agoranomos fu trasformato nel muhtasib[6]. Quello che si considera Oriente a un’analisi approfondita appare frutto della stratificazione di almeno tre grandi civiltà, senza tener conto delle molteplici civiltà minori come quella thai, viet, khmer, tibetana. Parimenti l’Occidente è la risultante dell’apporto della civiltà greco-romana, di quella giudaico-cristiana, di quella islamica e di altre civiltà minori che da quella slava a quella celtica hanno contribuito a tale formazione.

Note

1.  Mi riferisco in primis a tutta una letteratura di matrice istituzionalista e a studi di scuola braudeliana.

2.  Cfr. S. Kuznets, Popolazione, tecnologia, sviluppo, Bologna, 1990, p. 285.

3.  Cfr. A. Maddison, L’economia mondiale. Una prospettiva millenaria, Milano, 2005, p. 178.

4.  D. Acemoglu, S. Johnson, J.A. Robinson, The colonial origins of comparative development: an empirical investigation, in “American economic review”, n. 91, pp. 1369-1401.

5.  Su questi punti vedasi in particolare: J. Huizinga, Lo scempio del mondo, Milano, 2004.

6.  Cfr. E. Ashtor, Storia economica e sociale del Vicino Oriente, Torino, 1982, p. 16.

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