Economia e diritto delle infrastrutture

1. La questione
La inadeguatezza delle infrastrutture fisiche si incrocia perversamente, da noi, con la inadeguatezza della cornice amministrativa, giuridica, istituzionale. Nell’economia italiana la produttività ristagna, da un quindicennio, anche per questa ragione oltre che per la onerosità della tassazione, la inefficienza del settore pubblico, le debolezze interne al tessuto produttivo, lo scemare delle sollecitazioni concorrenziali sulle imprese[1].
Le carenze nei trasporti, nelle comunicazioni, nelle utilities, nelle reti appesantiscono i costi del produrre. Ciò che è più grave, la mancata messa in sicurezza espone un territorio fragilissimo a terremoti, eruzioni, precipitazioni, alluvioni, frane, voragini, crolli. Disastri naturali di ogni tipo – specie nelle aree più densamente popolate e sovraccariche di edifici vetusti o inutili e mal situati come spesso sono le seconde case – colpiscono il patrimonio e il reddito dei cittadini. Soprattutto ne minacciano la serenità, l’incolumità, la stessa vita. Il sisma che ha distrutto L’Aquila – antica, splendida città – è solo uno degli ultimi, devastanti episodi: 300 morti, monumenti sbriciolati, l’economia di una provincia sconvolta, resa per anni improduttiva. Come i cedimenti di Pompei dimostrano, sono insufficientemente protetti un patrimonio d’arte e un paesaggio agrario e urbano nazionali tra i più preziosi al mondo.
Gli investimenti costituiscono lo strumento basilare per manutenere e ammodernare le infrastrutture fisiche. I privati possono concorrere attraverso forme, rese convenienti, di finanza di progetto. Ma si richiedono, in primo luogo e in prevalenza, danari pubblici.
Tra il 1992 e il 2009 gli investimenti fissi lordi delle pubbliche amministrazioni sono stati mediamente pari al 2,3 per cento del Pil: a malapena sufficienti all’ammortamento e al mantenimento dell’esistente, insufficienti al suo potenziamento, ad adeguare le infrastrutture alle esigenze del sistema produttivo. Rispetto al 3,4 per cento del Pil su cui si erano mediamente attestati nel 1982-91 (decennio nel corso del quale pure erano diminuiti, dal 3,7 per cento del 1981 al 3,1 del 1991) hanno quindi subito un vero e proprio crollo: un punto percentuale in meno, oltre 15 miliardi di euro all’anno, quasi 300 miliardi di mancata accumulazione di capitale (ai prezzi di oggi) lungo l’arco di poco meno di un ventennio.

2. Maggiori risorse
La condizione finanziaria della P.A. è nota. Lo squilibrio si riassume in due cifre: un indebitamento netto e uno stock del debito rispettivamente pari al 5 e al 118 per cento del Pil. Tuttavia, almeno sulla carta sono configurabili le linee di fondo del risanamento dei conti pubblici che l’economia italiana, i mercati finanziari interni e internazionali, l’Europa da anni attendono. Va disegnato e attuato un programma che nel quinquennio 2011-2015 tagli la spesa corrente di 5-6 punti percentuali, non in assoluto ma rispetto al Pil. Di questi, 3 punti andrebbero devoluti all’azzeramento del disavanzo strutturale del bilancio (gli altri 2 punti di deficit venendo riassorbiti, con la ripresa e poi sperabilmente con la crescita dell’economia, dalla riduzione dell’attuale scarto fra prodotto potenziale e prodotto effettivo); 2 punti (0,7 all’anno già nel primo triennio) verrebbero volti ad avviare l’attenuazione della pressione tributaria, da perequare anche attraverso la lotta alla evasione; infine, un punto (15 miliardi l’anno) si renderebbe disponibile per maggiori investimenti in opere pubbliche.
L’azzeramento del disavanzo dovrebbe concentrarsi, non sui sistemi pensionistico e sanitario – pilastri della coesione sociale – ma su tre altri aggregati di spesa: trasferimenti a vario titolo alle imprese, acquisti di beni e servizi e prestazioni sociali in natura, costo del personale. Nella media del periodo le tre voci potrebbero scendere, rispetto a un Pil in espansione, nelle seguenti proporzioni: i trasferimenti alle imprese dal 4 al 2 per cento; gli acquisti di beni e servizi e le prestazioni in natura – attraverso economie e ricontrattazioni di prezzi, quantità e qualità con i fornitori – dall’8 al 5 per cento; la spesa per il personale – soprattutto attraverso un graduato turnover – dall’11 al 10 per cento. Se, nel quinquennio, il Pil reale crescesse del 2 per cento, o più, all’anno e l’inflazione si attestasse sul 2 per cento l’anno, la crescita cumulativa del Pil nominale avvicinerebbe il 30 per cento. Le tre voci di spesa, qualora venissero nell’insieme bloccate in termini nominali, si ridurrebbero di poco più del 10 per cento in termini reali e del desiderato 5-6 per cento rispetto al Pil (dall’attuale 23 al 18 per cento circa).
Il risanamento della finanza pubblica imperniato sul freno della spesa corrente ha mancato sinora di attuarsi. I governi che si sono succeduti hanno anzi permesso che il peso delle tre voci rispetto al Pil salisse, dal 20,8 per cento del 2000 al 23,4 per cento del 2009. Lo hanno permesso forse per conservare alla classe politica la gestione di grandi flussi di danaro pubblico, ovvero perché hanno avuto meno timore di ricercare il contenimento del deficit e del debito attraverso la generale imposizione tributaria e contributiva che non attraverso il taglio di specifiche uscite. La pressione fiscale è salita, nello stesso decennio 2000-2009, dal 41,6 al 43,2 per cento del Pil, concorrendo a distorcere l’allocazione delle risorse e a provocare il tendenziale ristagno dell’economia.
Ai timori di perdita del consenso si è tuttavia unito un difetto di analisi economica: la incomprensione, o quanto meno la sottovalutazione, della natura ultima e della gravità del problema economico italiano come problema di crescita, della produzione e soprattutto della produttività. Lo spessore di questo problema – segnalato per tempo nelle analisi della Banca d’Italia[2] – dovrebbe essere ormai divenuto di piena evidenza: la dinamica della produttività di trend resta nulla, se non negativa, la capacità produttiva è largamente inutilizzata, la disoccupazione alta e crescente. Di fronte a tale evidenza, i timori di perdita del consenso politico dovrebbero appuntarsi sull’impoverimento della popolazione e sulle tensioni sociali che ne seguirebbero, prima ancora che sulla impopolarità di contenere determinate spese pubbliche.
Prescindendo dall’accettazione politica, le linee che abbiamo richiamato prospettano lo spazio di bilancio per un punto percentuale di Pil in più all’anno in investimenti pubblici: il recupero del punto perduto nell’ultimo decennio. Sembra, questo, il massimo ammontare di risorse per migliori infrastrutture estraibile da un rigoroso indirizzo di risanamento dei conti pubblici dal lato della spesa, nell’orizzonte di un quinquennio e oltre.

3. Le nuove opere, oggi
Gli aspetti programmatici, procedurali, gestionali della progettazione, dell’affidamento, della realizzazione, della supervisione e del collaudo di nuove opere pubbliche sono stati più volte approfonditi sul piano fattuale e dello ius conditum. Da ultimo, lo sono stati in ricerche dovute ad analisti della Banca d’Italia, che riassumono utilmente la materia[3].
Una prima considerazione deve riguardare gli ordini di grandezza. I 15 miliardi che si rendessero spendibili in ogni anno vanno letti alla luce del costo delle opere pubbliche a cui rivolgerli. L’alta velocità ferroviaria Firenze-Roma-Napoli è costata oltre 8 miliardi. L’eventuale ponte sullo stretto fra Calabria e Sicilia (3 Km) impegnerebbe più di 6 miliardi. Una nuova centrale nucleare richiederebbe almeno 4,5 miliardi. Per la ricostruzione e la messa in sicurezza delle zone devastate dall’alluvione in prossimità di Messina nell’ottobre del 2009 occorrerebbero circa 500 milioni, per l’Aquila 15-20 miliardi. La edificazione con tecniche antisismiche innalzerebbe di circa un terzo il costo dei nuovi edifici. Per far fronte al solo dissesto idrogeologico del territorio è stata stimata la occorrenza di 40 miliardi. L’Italia, inoltre, condivide il rischio ambientale – dai rifiuti al surriscaldamento – dell’intero pianeta. Dovrebbe quindi pro-quota concorrere agli investimenti pubblici e privati necessari a minimizzare quel rischio, stimati in 1-2 punti del Pil mondiale in ciascun anno per un quarantennio[4].
Ma i 15 miliardi appaiono cifra ragguardevole e al tempo stesso esigua soprattutto alla luce dei tempi, degli imprevisti, dei costi, della incertezza nelle priorità che da noi affliggono il settore delle infrastrutture.
Per le infrastrutture di importo elevato il tempo medio intercorso fra il progetto preliminare e il collaudo conclusivo è stato sinora di 9 anni nelle opere tra 10 e 50 milioni di euro, di 11 anni e 6 mesi nelle opere al disopra di 50 milioni. La progettazione ha richiesto mediamente metà dell’intero arco temporale, le procedure di gara d’appalto il 13 per cento, la realizzazione dell’infrastruttura il restante 37 per cento (7-10 per cento per ritardi dovuti alle imprese). Inoltre, i tempi finali spesso hanno ecceduto anche di molto quelli inizialmente programmati. Il raccordo di Genova, la variante di valico Firenze-Bologna, l’ampliamento e il risanamento della Salerno-Reggio Calabria costituiscono lo scandalo di opere ancora in corso concepite negli anni Ottanta … del Novecento. L’Eurotunnel della Manica è stato invece realizzato in soli 13 anni, il ponte di Shangai (il più lungo al mondo, 30 Km) in 5 anni, il ponte di Lisbona (18 Km) in 3 anni. Due lotti (136 Km) di metropolitana a Madrid sono stati prodotti in poco più di due anni. Un’opera di medio importo richiede solo tre anni in Gran Bretagna. In Francia, autostrade comprese fra i 20 e i 44 Km si sono realizzate in due anni. Il programma di autostrade per unire le due Germanie dopo il 1989 (1.100 Km) è stato completato in dodici anni.
Riguardo ai costi, l’autostrada Erfurt-Scheinfurt (quattro corsie, 96 Km, molti ponti, 14 Km in gallerie una delle quali di 8,4 Km), aperta nel 2005, è costata 13,3 milioni di euro al Km. Da noi, si prevedono costi chilometrici di oltre 20 milioni per le progettate autostrade Milano-Brescia e Pedemontana Veneta. Per km il costo della linea ferroviaria Firenze-Roma-Napoli è risultato di tre volte superiore a quello delle analoghe tratte veloci di Francia e Spagna. Per le infrastrutture di qualsivoglia tipo e importo, il 44 per cento delle opere ha sopportato aggravi di costo superiori al 5 per cento rispetto al preventivato. L’11 per cento di esse ha visto lievitare gli oneri di un quinto o più. Mediamente, gli interventi che hanno subito aggravi sono costati il 10 per cento oltre il previsto. Fra i casi più gravi, la già evocata alta velocità ferroviaria doveva costare 3 miliardi, non 8,5.
L’orografia della Penisola è certamente penalizzante, almeno nel confronto con il territorio di altri grandi paesi europei. E tuttavia politica, istituzioni, ordinamento dovrebbero far meglio. Lo confermano le difficoltà nell’appaltare, la frequenza delle sospensioni dei lavori, il ritardo nei pagamenti e nei collaudi, la stessa diversità di esiti fra le diverse regioni del Paese.
Nelle gare d’appalto, ditte qualificate e competitive sono state escluse solo perché avevano commesso un errore nelle innumerevoli certificazioni da presentare, di volta in volta e in originale, per il concorso. Di queste certificazioni le ditte rivali hanno facoltà di prendere totale e immediata visione. Orientate come sono al rent seeking e attrezzate come sono sul piano legale, non è difficile per loro rinvenire errori anche meramente formali su cui fondare il ricorso.
Nel 2002-2006 il 25 per cento dei lavori appaltati dai Provveditorati interrregionali alle opere pubbliche che sono stati scrutinati dall’Ispettorato generale di Finanza ha subito sospensioni. Ciò è avvenuto soprattutto per perizie di varianti al progetto iniziale, a propria volta dovute per lo più a errori di progettazione e a sopravvenuta insufficienza dei fondi pubblici. Lo stesso collaudo delle opere avviene mediamente dopo due-tre anni, non entro i sei mesi dal completamento dei lavori previsti dalla legge. Anche la lista delle opere incompiute non è breve, a cominciare dal collegamento delle fogne al depuratore di Napoli, o dalla diga e connesso acquedotto presso Palermo.
La varianza fra le aree del Paese nei tempi che intercorrono tra la progettazione (esterna) delle opere e la loro assegnazione alle imprese è elevata. Nel 2000-2007 gli estremi sono rappresentati dai 600 giorni nel Nord-Ovest e i 1400 giorni nelle Isole. I tempi si allungano passando dal Nord-Ovest al Nord-Est, al Centro, alle Isole. Quasi ovunque gli stessi tempi si sono dilatati fra il 2000 e il 2007, segnatamente nella procedura più laboriosa, la progettazione. Nel 2007 i tempi minimi si sono registrati in Lombardia (meno di 600 giorni), i massimi in Val d’Aosta (1300 giorni) e in Sicilia (oltre 1600 giorni) Anche i tempi di realizzazione delle opere e i casi di contenzioso (per lo più ricorsi avverso l’esito delle gare) sono, rispettivamente, più lunghi e più frequenti nel Meridione.

Nel trattamento delle offerte anomale – prezzi particolarmente bassi – nelle gare d’appalto la normativa regionale post legge Merloni del 2003 (che prevedeva l’esclusione automatica di quelle offerte) si è mossa in opposte direzioni. Riflettendo anche le richieste delle imprese, nel respingere le offerte anomale gli enti pubblici del Centro-Nord hanno disposto di più ampi margini discrezionali, quelli del Sud di più rigidi automatismi.
Da una indagine campionaria della Banca d’Italia effettuata nel 2005 e ripetuta nel 2008 è risultato che oltre metà delle imprese edili impegnate in opere pubbliche lamentano carenze progettuali e ritardi di pagamento da parte delle pubbliche amministrazioni; il 37 per cento denuncia il contenzioso, i conflitti fra enti e i difetti nei procedimenti autorizzativi e amministrativi; il 23 per cento appunta i suoi rilievi sulla messa a disposizione delle aree e sui tempi delle verifiche ambientali. Illegalità e corruzione sono ammesse dal 20 per cento delle imprese impegnate in opere pubbliche da realizzare nel Centro-Nord, dal 35-50 per cento delle imprese dedite a lavori nel Mezzogiorno, dove la discrezionalità degli enti appaltanti è negativamente riguardata dalle imprese interessate. Le certificazioni SOA – delle Società Organismi di Attestazione della qualità delle imprese – sono considerate inefficaci dall’80 per cento delle aziende che le richiedono.
La capacità degli enti pubblici di programmare, progettare, sorvegliare i lavori lascia non poco a desiderare. Gli stessi enti lamentano perdita di competenze tecniche, carenza di personale, complessità della normativa, difficoltà di coordinamento tra pubbliche amministrazioni. A queste carenze non sono apparse in grado di supplire le stazioni uniche appaltanti istituite (ai sensi del Codice degli appalti del 2006) in regioni come il Piemonte, la Sicilia, la Calabria.

4. Cosa fare
Si impone quindi chiara scansione di responsabilità nella modulazione e nella sequenza dei progetti. Si impone altresì l’abbattimento di ostacoli in ciascuna delle tre fasi principali: progettazione, appalto, realizzazione dei lavori. Sotto il profilo strettamente economico l’attuale depressione ciclica chiama agli investimenti di più pronta spesa e massimo impatto moltiplicativo sulla occupazione e sulla domanda globale. Il ritorno della produttività su un trend di crescita sostenuta e sostenibile nel lungo periodo richiede le infrastrutture più strettamente complementari con l’attività delle imprese maggiormente efficienti e con lo sviluppo dei settori dotati di più alto potenziale d’innovazione.
Movendo dall’assunto che il risanamento dei conti della P.A. renda disponibili più ampie risorse, sembrano tre i fronti decisivi per realizzare gli investimenti infrastrutturali indispensabili al sostegno della domanda globale e al rilancio della produttività: le priorità, le capacità tecnico-amministrative, la normativa.

Priorità. Tempistica e rilevanza degli effetti su domanda globale e produttività del sistema delle imprese sono i criteri di scelta d’ordine economico da integrare più strettamente con quello del soddisfare le esigenze primarie dei cittadini: sicurezza, salute, qualità della vita.
Vi sono infrastrutture la cui predisposizione è capace di attivare domanda globale e occupazione con un “moltiplicatore” della spesa ampiamente superiore all’unità (1,5-1,8) e all’incirca triplo di quello delle uscite correnti delle P.A. Una maggior spesa in conto capitale contribuirebbe non poco al superamento dell’attuale, profondissima depressione. Altre infrastrutture, invece, sebbene attivino meno domanda e occupazione, sono più strettamente funzionali a consentire alle imprese di colmare il ritardo di competitività che la manifattura italiana ha accumulato negli ultimi lustri (25 per cento, in termini di costo del lavoro per unità di prodotto). Ancor più grave è lo scadimento della capacità/propensione delle imprese italiane a innovare e ad applicare il progresso tecnico. Secondo più di uno studio econometrico, la produttività totale dei fattori – il “residuo di Solow” – sarebbe addirittura diminuita negli ultimi lustri in più di un settore, e segnatamente nella industria manifatturiera[5]. Una spesa pubblica per R & D che superasse il modesto 0,5 per cento del Pil su cui è da troppo tempo attestata contribuirebbe a invertire questa preoccupante tendenza. Spetta allo Stato, e alle Università, la ricerca di base più impegnativa e rischiosa, quella su cui i privati non investono. Se è carente la ricerca di base, lo sarà anche la ricerca applicata alle attività produttive. Lo sarà sia da parte delle medie imprese e della “innovative entrepreneurship”, sia da parte delle grandi imprese (ormai poche, in Italia) e della “replicative entrepreneurship[6]. Occorrerà inoltre considerare che la domanda di alcune infrastrutture (trasporti, ad esempio) è oggi più pressante al Nord ma è più utile, in prospettiva, allo sviluppo di lungo periodo della produttività nel Mezzogiorno, la cui dotazione infrastrutturale è di oltre un terzo inferiore a quella del resto del Paese. Se non colmato, il divario di produttività costringerebbe l’industria a tagli dei salari nominali dolorosi, che soli consentirebbero di recuperare la competitività perduta in termini di costo del lavoro per unità di prodotto. Entro limiti, questo doppio criterio economico – domanda globale/produttività – può applicarsi anche alle infrastrutture da realizzare con priorità assoluta, perché urgenti ai fini della tutela dell’habitat da cui dipendono la salute, la sicurezza, la qualità del vivere dei cittadini.
È essenziale prendere le mosse dal portafogli dei progetti già avviati, accelerandone alcuni, rinviandone altri, aggiungendone di nuovi secondo “piani scorrevoli”. Se manovrabile, il portafoglio – stock – delle opere maggiori già deliberate sarebbe macroeconomicamente rilevante. Attualmente è pari al 7 per cento del Pil (opere deliberate dal CIPE per 116 miliardi di cui avviate per 20 miliardi)[7]. Ricomprende tuttavia per il 90 per cento trasporti (strade, ferrovie, porti, aeroporti) e solo per un quarto iniziative localizzate nel Mezzogiorno. Data la scarsità delle risorse, le priorità dovrebbero essere stabilite in modo più accentrato e meglio coordinato di quanto oggi non avvenga, almeno per gli investimenti che superino una determinata soglia.

Capacità tecnico-amministrative. La manifesta esigenza di accentramento e coordinazione potrà essere soddisfatta solo con un più efficiente utilizzo delle capacità tecnico-amministrative delle P.A., unito a più incisive modifiche ordinamentali. Quello concernente le infrastrutture è uno degli aspetti cruciali della più generale riforma dell’amministrazione pubblica che il Paese attende.
Progettare, seguire, collaudare le opere infrastrutturali richiede una vasta gamma di professionalità tecniche e amministrative. Particolarmente delicata è la fase di progettazione. Solo una progettazione accurata, che consideri tutti gli eventi i quali hanno probabilità di influire sulla esecuzione dell’opera, può prevenire sospensioni dei lavori, varianti, spiacevoli sorprese idro-geologiche, ecc.
Non sempre al favor per l’affidamento di queste mansioni ai tecnici delle amministrazioni pubbliche corrispondono adeguate capacità. Tali capacità sono diseguali e spesso insufficienti, specie negli enti pubblici più piccoli.
La soluzione dell’affidare all’esterno quelle mansioni – pur opportune – spesso non viene confortata da strutture interne alle amministrazioni che corrispondano dialetticamente con le ditte private specializzate eventualmente chiamate a progettare, seguire, collaudare i lavori. Mancano propensione e incentivi al coordinamento e alla messa in comune delle scarse risorse amministrative esperte in ciascun settore. Contrastare la dispersione del loro utilizzo è assolutamente necessario.

Normativa. Nell’ultimo decennio il quadro giuridico delle opere infrastrutturali è stato sottoposto alla spinta contrastante dell’adeguamento alle regole comunitarie e del decentramento legislativo e amministrativo. Queste istanze si sono innestate su preesistenti normative di comparto, fra loro diverse (opere di trasporto, militari, idrauliche, edili, ambientali). Nonostante i pur apprezzabili correttivi apportati a un disordine risalente, ne sono derivate stratificazioni e contraddizioni di regole, sovrapposizione di competenze, difficoltà di coordinamento.
Con la riforma del 2001 il Titolo V della Parte II della Costituzione ha innovato sia nella potestà legislativa (art. 117) sia nelle funzioni amministrative (art. 118) di Stato ed enti locali. Fra Parlamento e Regioni la legislazione è concorrente – con la sola determinazione dei principi fondamentali riservata allo Stato – in materie quali il governo del territorio, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, l’energia. Spetta alle Regioni di legiferare in ogni altra materia non attribuita esplicitamente al Parlamento (è questo il caso della tutela dell’ambiente e dell’eco-sistema). Le competenze amministrative sono invece attribuite ai Comuni, subordinatamente al rispetto dei criteri di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza, volti ad assicurare l’esercizio unitario delle funzioni.
Sono attivi sul territorio oltre 12.000 centri di spesa infrastrutturale. Sia al livello legislativo sia al livello regolamentare la materia delle opere pubbliche interseca inoltre una serie di altre materie di competenza esclusiva dello Stato (concorrenza, ambiente, beni culturali) ovvero di competenza legislativa condivisa (governo del territorio).
È venuto meno il principio di unicità delle competenze. Si è ovviato solo in parte con la Legge obiettivo del 2001, che prevede l’accentramento di opere strategiche, e con il Codice dei contratti pubblici del 2006, che meglio definisce la ripartizione di competenze fra Stato e Regioni. Nonostante i chiarimenti ulteriori apportati dalla Corte Costituzionale di fronte ai ricorsi presentati sia dal Governo sia dalle Regioni, i problemi non sono risolti. Le intese o gli accordi di programma fra Stato e Regioni, le intese fra Regioni, gli accordi nella Conferenza Stato-Regioni, le Conferenze dei servizi, non superano il potere di veto di una delle parti, anche a causa dell’assenza di meccanismi che introducano un vincolo di risultato valido per tutti allorché l’intesa manca.
Nell’insieme, i centri decisionali, l’assegnazione delle competenze tecniche, il quadro giuridico potrebbero essere utilmente ripensati[8]. Dovrebbero esserlo, per ridurre ulteriormente – tenuto conto dei costi di transazione – i tre ordini di rischio connessi con i pubblici contratti: rischi di esecuzione, di prezzo, di corruzione[9]. Ma dovrebbero esserlo anche considerando gli investimenti in infrastrutture quale importante, strategico strumento della politica economica: anticiclica, cioè di sostegno alla domanda globale, e strutturale, per la promozione della produttività.

Altri contributi in tema di infrastrutture:

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Note

1.  Per un inquadramento del vuoto infrastrutturale fra le cause del “problema di crescita” che l’economia italiana da tre lustri vive rinvio a Ciocca, P., Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Bollati Boringhieri, Torino, 2007 e Interpreting the Italian Economy in the Long Run, in “Rivista di Storia Economica”, 2008, pp. 241-246. Stime recenti confermano che la spesa per infrastrutture ha rilevanti effetti positivi di lungo periodo su produzione, accumulazione privata di capitale, occupazione e che essa al tempo stesso si configura come un investimento redditizio (cfr. Di Giacinto, V. – Mecucci, G. – Montanaro, P. Investire in infrastrutture: quali effetti sulla crescita del mezzogiorno, in “Rivista economica del mezzogiorno”, 2010, pp. 521-541).

2.  Ciocca, P., La nuova finanza in Italia. Una difficile metamorfosi (1980-2000), Bollati Boringhieri, Torino, 2000 (spec. cap. 8 “Un’economia ristagnante”) e L’economia italiana: un problema di crescita, 44^ Riunione Scientifica dellaSocietà Italiana degli Economisti, Salerno 25 ottobre 2003.

3.  Bentivogli, C.-Casadio, P.-Cullino, R., I problemi nella realizzazione delle opere pubbliche: le specificità del Mezzogiorno, in “Rivista economica del Mezzogiorno”, 2010, pp. 21-62, con ampia bibliografia.

4.  Stern, N., Clima è vera emergenza, Brioschi, Milano, 2009.

5.  Chiorazzo, V. – Milani, C., Produttività totale dei fattori e condizioni di mercato nei principali settori dell’economia italiana: 1980-2006, in “Bancaria”, 2008, pp. 48-60.

6.  Uso concetti e termini sulla funzione imprenditoriale desunti da Baumol, W.J., The Microtheory of Innovative Entrepreneurship, Princeton University Press, Princeton, 2010.

7.  Senn, L., L’infrastrutturazione per lo sviluppo del paese: l’esempio paradigmatico della Brianza, in Ghiloni, M. (a cura di), Laboratorio Brianza, Il Sole 24 Ore, Milano, 2010.

8.  Satta F. – Romano A. Ridurre i tempi per le infrastrutture, di prossima pubblicazione su ApertaContrada.

9.  Prosperetti, L. – Merini, M., I contratti pubblici di lavori, servizi e forniture: una prospettiva economica, in Clarich, M. (a cura di), Commentario al Codice dei contratti pubblici, Giappichelli, Torino, 2010.