Economia e diritto delle infrastrutture
1. La questione
La inadeguatezza delle infrastrutture fisiche si incrocia perversamente, da noi, con la inadeguatezza della cornice amministrativa, giuridica, istituzionale. Nell’economia italiana la produttività ristagna, da un quindicennio, anche per questa ragione oltre che per la onerosità della tassazione, la inefficienza del settore pubblico, le debolezze interne al tessuto produttivo, lo scemare delle sollecitazioni concorrenziali sulle imprese[1].
Le carenze nei trasporti, nelle comunicazioni, nelle utilities, nelle reti appesantiscono i costi del produrre. Ciò che è più grave, la mancata messa in sicurezza espone un territorio fragilissimo a terremoti, eruzioni, precipitazioni, alluvioni, frane, voragini, crolli. Disastri naturali di ogni tipo – specie nelle aree più densamente popolate e sovraccariche di edifici vetusti o inutili e mal situati come spesso sono le seconde case – colpiscono il patrimonio e il reddito dei cittadini. Soprattutto ne minacciano la serenità, l’incolumità, la stessa vita. Il sisma che ha distrutto L’Aquila – antica, splendida città – è solo uno degli ultimi, devastanti episodi: 300 morti, monumenti sbriciolati, l’economia di una provincia sconvolta, resa per anni improduttiva. Come i cedimenti di Pompei dimostrano, sono insufficientemente protetti un patrimonio d’arte e un paesaggio agrario e urbano nazionali tra i più preziosi al mondo.
Gli investimenti costituiscono lo strumento basilare per manutenere e ammodernare le infrastrutture fisiche. I privati possono concorrere attraverso forme, rese convenienti, di finanza di progetto. Ma si richiedono, in primo luogo e in prevalenza, danari pubblici.
Tra il 1992 e il 2009 gli investimenti fissi lordi delle pubbliche amministrazioni sono stati mediamente pari al 2,3 per cento del Pil: a malapena sufficienti all’ammortamento e al mantenimento dell’esistente, insufficienti al suo potenziamento, ad adeguare le infrastrutture alle esigenze del sistema produttivo. Rispetto al 3,4 per cento del Pil su cui si erano mediamente attestati nel 1982-91 (decennio nel corso del quale pure erano diminuiti, dal 3,7 per cento del 1981 al 3,1 del 1991) hanno quindi subito un vero e proprio crollo: un punto percentuale in meno, oltre 15 miliardi di euro all’anno, quasi 300 miliardi di mancata accumulazione di capitale (ai prezzi di oggi) lungo l’arco di poco meno di un ventennio.
2. Maggiori risorse
La condizione finanziaria della P.A. è nota. Lo squilibrio si riassume in due cifre: un indebitamento netto e uno stock del debito rispettivamente pari al 5 e al 118 per cento del Pil. Tuttavia, almeno sulla carta sono configurabili le linee di fondo del risanamento dei conti pubblici che l’economia italiana, i mercati finanziari interni e internazionali, l’Europa da anni attendono. Va disegnato e attuato un programma che nel quinquennio 2011-2015 tagli la spesa corrente di 5-6 punti percentuali, non in assoluto ma rispetto al Pil. Di questi, 3 punti andrebbero devoluti all’azzeramento del disavanzo strutturale del bilancio (gli altri 2 punti di deficit venendo riassorbiti, con la ripresa e poi sperabilmente con la crescita dell’economia, dalla riduzione dell’attuale scarto fra prodotto potenziale e prodotto effettivo); 2 punti (0,7 all’anno già nel primo triennio) verrebbero volti ad avviare l’attenuazione della pressione tributaria, da perequare anche attraverso la lotta alla evasione; infine, un punto (15 miliardi l’anno) si renderebbe disponibile per maggiori investimenti in opere pubbliche.
L’azzeramento del disavanzo dovrebbe concentrarsi, non sui sistemi pensionistico e sanitario – pilastri della coesione sociale – ma su tre altri aggregati di spesa: trasferimenti a vario titolo alle imprese, acquisti di beni e servizi e prestazioni sociali in natura, costo del personale. Nella media del periodo le tre voci potrebbero scendere, rispetto a un Pil in espansione, nelle seguenti proporzioni: i trasferimenti alle imprese dal 4 al 2 per cento; gli acquisti di beni e servizi e le prestazioni in natura – attraverso economie e ricontrattazioni di prezzi, quantità e qualità con i fornitori – dall’8 al 5 per cento; la spesa per il personale – soprattutto attraverso un graduato turnover – dall’11 al 10 per cento. Se, nel quinquennio, il Pil reale crescesse del 2 per cento, o più, all’anno e l’inflazione si attestasse sul 2 per cento l’anno, la crescita cumulativa del Pil nominale avvicinerebbe il 30 per cento. Le tre voci di spesa, qualora venissero nell’insieme bloccate in termini nominali, si ridurrebbero di poco più del 10 per cento in termini reali e del desiderato 5-6 per cento rispetto al Pil (dall’attuale 23 al 18 per cento circa).
Il risanamento della finanza pubblica imperniato sul freno della spesa corrente ha mancato sinora di attuarsi. I governi che si sono succeduti hanno anzi permesso che il peso delle tre voci rispetto al Pil salisse, dal 20,8 per cento del 2000 al 23,4 per cento del 2009. Lo hanno permesso forse per conservare alla classe politica la gestione di grandi flussi di danaro pubblico, ovvero perché hanno avuto meno timore di ricercare il contenimento del deficit e del debito attraverso la generale imposizione tributaria e contributiva che non attraverso il taglio di specifiche uscite. La pressione fiscale è salita, nello stesso decennio 2000-2009, dal 41,6 al 43,2 per cento del Pil, concorrendo a distorcere l’allocazione delle risorse e a provocare il tendenziale ristagno dell’economia.
Ai timori di perdita del consenso si è tuttavia unito un difetto di analisi economica: la incomprensione, o quanto meno la sottovalutazione, della natura ultima e della gravità del problema economico italiano come problema di crescita, della produzione e soprattutto della produttività. Lo spessore di questo problema – segnalato per tempo nelle analisi della Banca d’Italia[2] – dovrebbe essere ormai divenuto di piena evidenza: la dinamica della produttività di trend resta nulla, se non negativa, la capacità produttiva è largamente inutilizzata, la disoccupazione alta e crescente. Di fronte a tale evidenza, i timori di perdita del consenso politico dovrebbero appuntarsi sull’impoverimento della popolazione e sulle tensioni sociali che ne seguirebbero, prima ancora che sulla impopolarità di contenere determinate spese pubbliche.
Prescindendo dall’accettazione politica, le linee che abbiamo richiamato prospettano lo spazio di bilancio per un punto percentuale di Pil in più all’anno in investimenti pubblici: il recupero del punto perduto nell’ultimo decennio. Sembra, questo, il massimo ammontare di risorse per migliori infrastrutture estraibile da un rigoroso indirizzo di risanamento dei conti pubblici dal lato della spesa, nell’orizzonte di un quinquennio e oltre.
Note
1. Per un inquadramento del vuoto infrastrutturale fra le cause del “problema di crescita” che l’economia italiana da tre lustri vive rinvio a Ciocca, P., Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Bollati Boringhieri, Torino, 2007 e Interpreting the Italian Economy in the Long Run, in “Rivista di Storia Economica”, 2008, pp. 241-246. Stime recenti confermano che la spesa per infrastrutture ha rilevanti effetti positivi di lungo periodo su produzione, accumulazione privata di capitale, occupazione e che essa al tempo stesso si configura come un investimento redditizio (cfr. Di Giacinto, V. – Mecucci, G. – Montanaro, P. Investire in infrastrutture: quali effetti sulla crescita del mezzogiorno, in “Rivista economica del mezzogiorno”, 2010, pp. 521-541).↑
2. Ciocca, P., La nuova finanza in Italia. Una difficile metamorfosi (1980-2000), Bollati Boringhieri, Torino, 2000 (spec. cap. 8 “Un’economia ristagnante”) e L’economia italiana: un problema di crescita, 44^ Riunione Scientifica dellaSocietà Italiana degli Economisti, Salerno 25 ottobre 2003.↑