Il passato che è in noi: beni culturali e “sostenibilità” della memoria

1. Problemi aperti e dilemmi risolti
La contemporaneità tende a rimuovere i suoi lontani  fondamenti? La questione è sicuramente molto dibattuta e taglia trasversalmente diversi ambiti teorici dando luogo a risposte sovente controverse e problematiche. Soprattutto controverse, considerato quanto  talvolta le posizioni tendano a divaricarsi, persino  al loro interno. Da un lato infatti sono emerse le prospettive di analisi del tipo delineato  da  Andreas Huyssen[1].  Tese ad associare il declino della storia e della coscienza storica  – avvenuto negli ultimi  quindici anni – a un simultaneo boom della memoria,  si collocano più o meno  alla stessa scala  delle ipotesi di Jacques Le Goff[2].  Lo storico francese ritiene infatti  che il grande pubblico è ormai così ossessionato dai  timori di un’amnesia collettiva  da aver reso la memoria uno tra gli “oggetti” più venduti della società dei consumi.
In alternativa, si è sedimentata una costellazione  di riflessioni  che registrano la crisi della memoria sociale e il distacco ineluttabile del moderno dalle impronte del passato. Uno dei riferimenti classici è per esempio  Lukács. Il suo  celebre saggio sulla reificazione contenuto in Storia e coscienza di classe del 1923 –  riprendendo Marx –  classifica l’amnesia come effetto negativo intrinseco all’espansione del processo di produzione capitalistica[3]. Dopo di lui Benjamin impiegherà quasi lo stesso argomento ritenendo che i mondi della memoria, per effetto delle accelerazioni imposte alla civiltà dal progresso tecnologico, vadano incontro a continue erosioni. Benjamin è in posizione tutt’altro che isolata nel panorama intellettuale del novecento. Nel 1931 sul problema del restringimento della memoria interviene anche Ernst R. Curtius. Il grande filologo tedesco parla di imbarbarimento, di un indebolimento crescente della disciplina intellettuale dovuto al misconoscimento della tradizione. Rispetto ad esso, replica Curtius, occorre volgere lo sguardo verso l’ orizzonte  che sta alle nostre spalle[4].
A metà anni ottanta, da tutt’altra sponda disciplinare, l’architetto Peter Eisenmann  pubblica un saggio dal titolo “La fine del classico”, incentrato sull’eclisse di un certo concetto  di presente – letto come corridoio di passaggio tra passato e futuro- sullo sfondo della società industriale[5].  Ancora più cruda la descrizione, data da Eric Hobsbawn, delle giovani generazioni cresciute in un presente permanente, privo di ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono[6]. Più recentemente  è stato Alexander Kluge a esprimersi in termini di attacco sferrato dal presente contro il resto del tempo e di una memoria culturale continuamente logorata.
A grandi linee, in base a queste tesi, la storia del XX secolo corrisponderebbe a quella di un gigantesco processo di rottamazione. Le norme sociali hanno imposto un’ organizzazione, un metabolismo di cicli sempre più rapidi tali che “l’intero sistema sociale contemporaneo ha cominciato a poco a poco a perdere la capacità di ricordare il proprio passato”[7]. In una età centrifuga, sintetica e in movimento come la nostra, sarebbe in atto un processo di liquefazione culturale in cui  la memoria non “giocherebbe” più con tutte le diverse facce del tempo.
La percezione della difficoltà di tenere insieme sincronia e storicità è quindi pressante e incombe da lungo tempo anche sul versante di saperi specialistici come l’economia o la teoria del diritto. Per limitarsi a uno dei casi più emblematici, già nel 1936 , dalle pagine della “Rivista di Storia economica”, Luigi Einaudi conclude uno scambio di idee con Gino Luzzatto, affermando che  si deve essere storici ed economisti a un tempo, per quanto arduo possa sembrare da dimostrare[8]. Molti anni dopo, nel 1984, è Charles Kindleberger a rilanciare la posta.  In occasione del convegno dell’American Economic Association di  Dallas si articola un dibattito che porta figure del peso di Robert E. Solow o Kenneth J. Arrow a concludere quanto siano preoccupanti sia l’ignoranza della storia, assai diffusa tra gli scienziati sociali, quanto l’indifferenza verso tale ignoranza[9].
Tuttavia questi specifici aspetti della debolezza della relazione con la storicità sono stati in parte definitivamente superati.  Nel 1993 l’assegnazione del premio Nobel per l’economia a Douglas C. North sancisce il riconoscimento ufficiale della rilevanza del sentiero tracciato dalle istituzioni dietro di noi[10]. Per cui è facile prevedere che in futuro la parola d’ordine “la storia conta” continuerà a essere applicata. Storia ed economia, chiarisce infatti Pierluigi Ciocca, sono state artificiosamente separate essendo in realtà una disciplina unica: sotto più di un profilo, non di riavvicinamento si tratta o di ricomposizione, bensì del ritorno a uno stato di naturale unitarietà[11].  Ritorno segnalato per esempio dalla pubblicazione nel 2001 prima e nel 2005 poi, da due rapporti della Banca Mondiale –  il primo sugli assetti istituzionali adatti a mercati efficienti, il secondo su giustizia sociale e sviluppo – ampiamente corredati di riferimenti storici. Così come i lavori di molti economisti[12] che si confrontano costantemente con le retrovie dei dati storici. In campo giuridico il filone realista che fa capo ad Alf Ross[13]– in antitesi al positivismo dell’ ita lex – richiama l’attenzione sul milieu culturale da cui  genera la norma. Il diritto è condizionato in molteplici modi da presupposti,  sotto forma di credenze, aspirazioni, modelli di comportamento esistenti nella tradizione culturale.

2. Patologie da  presente “obeso”
Le cose si complicano dal punto di vista dei flussi culturali trasmessi e condivisi globalmente.  Nel moderno, con la creazione incessante di novità, aumenta anche ciò che invecchia. Ci fu un tempo in cui il passato disponibile era scarso. Nel Rinascimento gli studiosi riuscivano a memorizzare  immaginando di essere in un teatro. Raccoglievano i fatti in categorie rappresentate da un personaggio sul palcoscenico, come Apollo, che rappresentava l’astronomia e Nettuno la navigazione. Poi lo spettatore mentale inventava una storia costruita attorno ad Apollo e a Nettuno, per collegare i fatti relativi ai due ambiti[14].
Oggi il patrimonio culturale comincia semmai a presentare problemi di smaltimento. Un semplice iPod è in grado di memorizzare e riprodurre diecimila canzoni, ma è pressoché impossibile classificare le cinquecento ore di musica contenute nella scatolina bianca o ricordare diecimila canzoni per poter scegliere quale ascoltare in ogni preciso momento. Di conseguenza si fa strada il problema di cosa mettere da parte e di  trovare un equilibrio tra necessaria obsolescenza e tradizione. Giacchè il passato non può accogliere tutto, cosa scartare? Dobbiamo immagazzinare tutto? O conviene fare in modo che il passato sia passato rallegrandoci del fatto che si allontani fatalmente da noi ?
Per certi versi l’interrogativo da porsi nei confronti della memoria sociale ha molto in comune – mutatis mutandis – con le implicazioni del caso clinico  dell’  “uomo che ricordava tutto” studiato dal neuropsicologo Alexander R. Luria nella Russia degli anni venti.  Immagini, numeri, frasi  si fissavano con tale vivezza e così numerosi nella memoria di Solomon Shereshevskij che inesorabilmente non vi era più posto per cose nuove, finchè egli stesso non divenne capace di escogitare una serie di “manovre” che, agendo alla stregua di  una grande tela, gli nascondevano il superfluo. L’apprendimento consiste quindi in un’opera sistematica di potatura, di sfrondamento. Per le neuroscienze apprendere significa eliminare, la memoria ha certamente ragione ma l’oblio non ha sempre torto.
Nel 1940 è l’antropologo Evans-Pritchard  a occuparsi dei fenomeni di ipermnesia e con la pubblicazione del libro I Nuer mette sotto osservazione la capacità mnemonica dei componenti di una popolazione primitiva in grado di ricordare i loro antenati in un arco di tempo compreso fra le nove e le undici generazioni[15]. In realtà l’analisi mostra che tali popolazioni dimenticavano assai più di quanto ricordassero. Una grande quantità di cose venivano dimenticate e l’antropologo inglese si accorgeva che tutto ciò non avveniva casualmente ma attraverso una serie di passaggi mentali finalizzati al risparmio di energia cognitiva. Una comunità, argomentava Evans-Pritchard, funziona quando la “contabilità mnemonica” è correttamente bilanciata.

3. Meno in verticale
Se vivere nella civiltà della memoria potrebbe non essere un paradiso, l’oblio si manifesta come indispensabile strumento di razionalizzazione dell’esistenza e del sociale.  La rimozione va utilizzata per aprire la strada al nuovo e agli sfaldamenti della memoria, agli “spazi bianchi” occorre riconoscere i loro meriti.
Le buone pratiche di pubblico interesse, le arti di governo non sembrano sfuggire a questa concezione. Il legislatore si è dotato degli istituti dell’amnistia, della prescrizione e della grazia,  vere e proprie forme di oblio misericordioso calibrato  in modo da non oltrepassare  il limite invalicabile dei crimini e dei delitti perpetrati contro i diritti umani.
Purtroppo in materia di beni culturali l’Italia ha assistito  a un processo inverso rispetto all’uso intelligente del tasto “cancella”.  Si è così pervenuti  all’estensione del regime dei beni culturali a beni che tale natura non hanno.  Il passo fondamentale in questa direzione viene compiuto anni or sono con l’adozione del concetto di bene culturale proposta dalla commissione parlamentare Franceschini, finalizzato ad ampliare l’ambito di tutela, sostituendo il criterio estetico che aveva dominato la legislazione prebellica, con un criterio di taglio antropologico: secondo la proposta della commissione la categoria di bene culturale doveva essere riconosciuta a tutto ciò che costituisce una testimonianza materiale avente valore di civiltà. Successivamente, a partire dagli anni settanta, il dibattito politico-istituzionale ha contribuito a estenderne ulteriormente la portata. Ne è scaturita una dilatazione enorme dei confini – rendendoli nello stesso tempo incerti – della politica dei beni culturali  che presuppone una disponibilità di mezzi e strutture per questa tutela sempre più grandi e che ha portato a distorsioni e rischi da cui occorre guardarsi se si vuole pervenire a una visione più equilibrata. Si tratta perciò di mettere a punto una nuova sintesi, tale da implicare una visione circostanziata di bene e da arginare un’espansione troppo marcata del suo ruolo. Il passaggio deve avvenire nella direzione di una concezione per un verso a maglie meno larghe e per un verso più puntuale di patrimonio culturale, ferma restando la centralità delle interrelazioni esistenti fra tutela del bene, crescita economica e società.
Appare  quindi necessario tornare a interrogarsi sui termini della conservazione di segni e valori culturali e ambientali meritevoli di sopravvivenza e di conseguenza sugli interventi regolativi dell’attività di tutela che consistono nella limitazione della sfera d’azione dei proprietari e nell’attribuzione alle autorità di tutela del potere di apporre vincoli sui beni. La tutela è un valore incontrovertibile, ma l’idea  di una tutela passiva così com’è non può reggere.  Va invece affinata un’idea dinamica, viva di patrimonio, contro un’idea statica e puramente conservativa. In un momento come quello attuale il compito è distinguere coraggiosamente cosa conservare da cosa trasformare o addirittura demolire. Distinguere perché la vastità e la “pesantezza” del patrimonio non consentirebbe di considerarlo come tale se non intervenisse la volontà di “ridurlo” tramite uno sguardo selettivo che sceglie una cosa piuttosto che un’altra.

Le Corbusier ha fatto proposte chiaramente eccessive e certamente paradossali. Ma quando disegna il piano per la Parigi del futuro, pensa a una rete di grattacieli tra i quali rimangono soltanto alcuni grandi monumenti. Il resto è raso al suolo diventando giardino punteggiato di strutture nuove e di quel che resta del preesistente. L’ipotesi di Le Corbusier  del superamento dell’idea di patrimonio come bene ereditato da mantenere immutato e da inventariare[16] la riprende in parte anche Michel Ecochard. Negli anni sessanta mette a punto il piano regolatore per la capitale siriana, prevede la liberazione dello spazio intorno alla cittadella di Saladino dando l’avvio alla demolizione dello storico mercato adiacente[17]. Al nocciolo delle posizione di entrambi gli architetti-urbanisti vi è  la convinzione che il passato  – non automaticamente  glorioso, bello e rilevante –  richieda un atteggiamento critico.  Ci sono cose che meritano di vivere ancora, altre non più in grado di parlare all’animo dei posteri. Le sensibilità sociali cambiano, nuovi interessi si depositano sopra gli antichi. La scelta da compiere è fra l’essere prigionieri dell’antico e il muoversi a passi sicuri verso il futuro. Come viene descritto dalla vicenda del cittadino Charles F. Kane, protagonista di Quarto potere di Orson Welles.  Kane è un collezionista maniacale di “beni culturali” che assembla pezzi unici e paccottiglia, oggetti banali,   souvenir, primo fra tutti il celebre slittino ricordato con il marchio di fabbrica: Rosebud. Il luogo della conservazione è uno spazio disordinato, senza forma e polveroso in cui si accumula di tutto.  Finito Kane si ristabilisce l’ordine tra ciò che deve essere veramente musealizzato e ciò che non conta e deve essere bruciato. Come accade allo slittino con la scritta Rosebud.

Note

1.  A. Huyssen, Twilight memories: making time in a culture of amnesia, New York, 1995.

2.  J. Le Goff, Storia e memoria, Torino, 1982.

3.  G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Milano, 1978.

4.  E. R. Curtius, L’abbandono della cultura, Torino, 2010.

5.  P. Eisenmann, The end of the classical, in “Perspectiva”, n. 21, 1984, pp. 17-24.

6.  Cfr. E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, 2000, pp. 14-15.

7.  F. Jameson, Postmodernism and consumer society, in H. Foster (a cura di), Postmodern culture, London-Sidney, 1985, p. 215.

8.  Cfr. P. Ciocca, Clio nella teoria economica, in Idem (a cura di), Le vie della storia nell’economia, Bologna, 2002, pp. 14-15.

9.  Per un quadro delle posizioni emerse a Dallas vedasi: W. Parker (a cura di), Economia e storia, Roma-Bari, 1988.

10.  D. C. North, Institutions, institutional change and economic performance, Cambridge, 1990.

11.  Ivi, p. 48.

12.  Tra gli altri: Peter Lindert, Ronald Findlay, Simon Johnson, Kevin O’Rourke, Jeffrey Williamson.

13.  A. Ross, Diritto e giustizia, Torino, 1965.

14.  L. Bolzoni, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino, 1995.

15.  E. Evans-Pritchard, The Nuer: a description of the modes of livelihood and political institutions of the nilotic people, Oxford, 1940. Trad. It. I Nuer. I modi di vita e le istituzioni politiche di un popolo nilotico, Milano, 1985.

16.  Le Corbusier, Maniera di pensare l’urbanistica, Roma-Bari, 1997.

17.  M. Haidar, Città e memoria. Beirut, Sarajevo, Berlino, Milano-Torino, 2006.