L’avvocatura di fronte ai diritti umani

Sommario: 1. I “nuovi diritti”, il potere e la tecnica. – 2. Nuovi diritti, giurisprudenza e multilevel: ombre e luci. – 3. I diritti umani nel contesto europeo: dalla CEDU alla Carta di Nizza. – 4. Il ruolo dell’avvocatura, di fronte ai nuovi diritti.  – 5. Le conseguenze: responsabilità sociale, giusto processo, deontologia, formazione professionale.

1. Il dibattito – politico, culturale, etico–sociale, non meno che giuridico – sui nuovi diritti umani fondamentali, propone un duplice tentativo: un ampliamento frenetico del loro catalogo; l’affermazione e la protezione dei nuovi diritti per via giurisprudenziale, prima ed a prescindere da un loro riconoscimento normativo. Da questa linea di tendenza deriva per gli avvocati un impegno nuovo e importante, nella difesa di quei diritti: un impegno che assume un rilievo centrale e qualificante per il significato della professione forense, della sua dignità, della sua responsabilità.
E’ un impegno delineato – in tutti i suoi profili di principio e concreti – dal documento di lavoro congressuale, sul quale intendo proporre tre riflessioni: le “novità” in tema di diritti umani; il contesto europeo della loro tutela; le conseguenze che ne discendono per l’avvocatura.
La nostra Costituzione e la coetanea Dichiarazione universale – originate dal «crogiolo ardente e universale» di una guerra (Dossetti), che aveva sfigurato la faccia della Terra – abitano oggi un mondo «totalmente altro», nel quale il rapporto tra diritto, potere e diritti fondamentali ha subito un’autentica mutazione genetica.
Esiste, oggi, una sorta di frenesia nell’aggiornamento dei diritti fondamentali, che si esprime in molteplici e originali primizie giuridiche: i diritti alla qualità della vita, alla pace, alla diversità, alla sicurezza, allo sviluppo, alla democrazia, all’efficienza; senza considerare le categorie per fasce antropologiche (i diritti degli anziani, dei bambini, delle generazioni future, degli utenti) o quelli cosiddetti naturali (i diritti degli animali).
Si sarebbe tentati di minimizzare il fenomeno; di considerarlo solo un’euforia o un’enfasi nello sfogo della modernità, una ricerca ansiosa di nuovi enunciati più che di nuovi princìpi. Ma in questa domanda un po’ disordinata di “nuovi diritti” troviamo anche quelli da prendere davvero «sul serio» (Dworkin): le unioni tra persone dello stesso genere, l’inizio e la fine della vita, il testamento biologico, il trattamento terapeutico (a sua volta dagli incerti confini) per malati terminali o incoscienti. Eludere le domande relative al fondamento ed all’estensione delle nuove situazioni giuridiche significa delegare le risposte, caso per caso, agli organi giurisdizionali, talvolta privi di precisi referenti normativi, com’è avvenuto nella drammatica vicenda di Eluana Englaro.
Perché questa sorta di assedio dei nuovi diritti (veri o presunti)?
La risposta richiede una riflessione più generale. Il costituzionalismo moderno colloca il diritto al cuore del rapporto politico, quale strumento di legittimazione del potere; ma configura il potere quale concreto strumento di riconoscimento dei diritti. Il potere ha bisogno del diritto, dal quale riceve la propria legittimazione; e i diritti (fondamentali) hanno bisogno del potere per potersi affermare. Nel 1964 Bobbio scriveva che il problema dei diritti dell’uomo non è quello di fondarli, ma quello di proteggerli e di garantirne l’effettività; ciò che può avvenire solo attraverso l’uso (legale) del potere.
Questo rapporto si è notevolmente alterato negli ultimi decenni: sono mutati la percezione del collegamento genetico tra diritti e potere e il “fondamento” stesso dei diritti fondamentali. Si è tentato un “radicamento ultrapositivo” dei diritti, ancorandoli non più al riconoscimento positivo, bensì alla «coscienza storico–sociale dei popoli». I valori supremi vengono in tal modo considerati come dati immodificabili dai poteri soggettivi dell’ordinamento; questi ultimi possono solo concretizzare, attuare e definire quei diritti nei loro specifici contorni, mai rinnegarli.
Il nuovo “giusnaturalismo storico”, tuttavia, incontra almeno due ordini di difficoltà. Per loro natura, i valori tendono a un’illimitata espansività, nella percezione soggettiva degli uomini: sia nel senso di una loro proliferazione smisurata; sia nel senso che ogni valore «tende ad erigersi a tiranno esclusivo (…) a spese di altri valori, anche di quelli che non gli sono materialmente contrapposti» (Hartmann).
Rinunciare alla mediazione formale del legislatore – affidandosi alla sola giurisprudenza e prescindendo dal diritto positivo – è ambizione assai complessa. E’ arduo evitare la «tirannia del valore» (Schmitt); ed è assai difficile, per tale via, individuare il «dato immodificabile della coscienza profonda del popolo»: così da mediare gli egoismi e gli impulsi della società civile, ora pacifisti, ora tecnocratici, ambientalisti, liberisti, solidaristi. Occorrono sintesi, armonizzazioni, bilanciamenti;  non è possibile delegarli interamente all’opera della giurisprudenza, le cui pronunce, oltretutto, sono tanto più disomogenee quanto più le norme sono incomplete o inesistenti.
Ai problemi posti dal “giusnaturalismo storico” si aggiungono quelli del “giustecnicismo”: la tecnica quale principio ordinatore e dominante, quale processo inevitabile e necessario. Si tratta di un rovesciamento logico, perché «lo sviluppo della tecnica assurge da materia regolata a principio regolatore, da oggetto a soggetto di normazione» (Irti). L’esempio delle manipolazioni genetiche evidenzia come «la normatività tradizionale, forte o debole che sia, debba arretrare e trasformarsi, di fronte alle capacità di trasformazione del mondo possedute dalla tecnica» (Severino).
In parole semplici, la tecnica sembra avere integralmente sostituito il potere nel rapporto con i diritti fondamentali. Questi ultimi hanno bisogno della tecnica per il loro riconoscimento e la loro tutela; peraltro, la minaccia ai diritti fondamentali proviene oggi non solo dal potere, ma anche (e forse più) dalle nuove (quasi) illimitate possibilità della tecnica, da cui deriva la proliferazione dei diritti.
Se, grazie alle tecniche di procreazione assistita, è oggi possibile far concepire chi non poteva farlo in passato (per età, patologie, assenza di partner), è del tutto “naturale” che questo nuovo interesse ambisca a diventare un diritto riconosciuto: il diritto alla procreazione.  D’altra parte, la tecnica consente di rendere selettiva la procreazione, realizzandola e portandola a compimento solo quando siano escluse patologie per il nascituro. E anche questo si struttura quale interesse per i genitori, per la società e per il nascituro, a veder nascere individui – se non integralmente sani – non irrimediabilmente invalidati: un interesse reclamato quale diritto, una volta divenuti adulti, al punto di portare i genitori in tribunale – è già accaduto – per vedere affermato il proprio diritto a non nascere.
Tuttavia, come il potere conosceva un rapporto di ambiguità con i diritti fondamentali – nel senso di esserne garanzia ma, al tempo stesso, potenziale aggressore – così la tecnica non si sottrae a queste contraddizioni; fino a determinare la violazione o la dissoluzione dei diritti. Si pensi agli strumenti di controllo a tappeto della libertà di movimento, di comunicazione, di corrispondenza; o alle manipolazioni informatiche dell’identità personale. Ancora: le terapie di prolungamento dell’esistenza in vita agli occhi di molti costituiscono una lesione della dignità umana, del “diritto a una morte dignitosa” e quindi a gestire le fasi finali della propria vita o propedeutiche della propria morte.

2. Di fronte a tale mutamento dello scenario, la Costituzione è stata modificata, dal 1963 al 2005, in ben trentaquattro articoli: ma nessuna delle modifiche ha riguardato i princìpi fondamentali o la prima parte, sui diritti e i doveri dei cittadini; e gli innesti significativi di “nuovi diritti”, nella seconda parte, sono stati davvero minimi. Eppure, nessuno negherebbe che i diritti fondamentali riconosciuti si siano implementati in quantità e qualità.
La contraddizione apparente si spiega con il ruolo della Corte costituzionale. A Costituzione sostanzialmente invariata nei diritti affermati, siamo oggettivamente più “ricchi” di situazioni giuridiche discendenti dai diritti fondamentali, grazie all’attività di “estrazione” svolta dalla giurisprudenza costituzionale. Essa spesso ha coniato il “nome” e creato il “linguaggio” dei diritti fondamentali; ne ha precisato contorni e contenuti.
Rigida quando si voglia modificarla o integrarla, la Costituzione si è mostrata flessibile e presbite nel senso positivo di saper guardare lontano, di includere nell’ambito della sua efficacia – e della sua tutela – l’applicazione e le ricadute di nuovi strumenti o di nuove sensibilità: dalla libertà di espressione e di comunicazione alla tutela della privacy e dell’identità; a quella dell’ambiente come conseguenza della tutela del paesaggio; fino alla apertura all’ordinamento comunitario e al mercato.
Attraverso il cammino dal valore al principio, dal principio al precetto, la giurisprudenza costituzionale ha affermato, oltre al bilanciamento (si pensi al diritto alla vita, posto in relazione alla salute della donna gestante), anche la giustiziabilità dei diritti umani fin dalla sua prima sentenza, la n. 1 del 1956.
Nella prospettiva di tutela giurisprudenziale dei diritti fondamentali, oggi si inserisce il profilo del multilevel: la loro protezione attraverso il dialogo fra le Corti nazionali e sovranazionali, segnatamente la Corte Europea dei diritti dell’uomo e la Corte di giustizia dell’Unione Europea. Il fenomeno risponde ad una profonda e diffusa vocazione alla «universalizzazione del diritto»; genera un “circolo ermeneutico” virtuoso, in tema di diritti fondamentali; coinvolge le singole giurisdizioni nazionali: i giudici comuni e gli avvocati, loro interlocutori istituzionali.
Si assiste ad una proliferazione dei centri di tutela giurisdizionale, che assicura il continuo respiro, il dinamismo incessante, l’equilibrio precario sì, ma sempre spostato su un gradino di tutela più alto. Alla richiesta “dal basso” di più intense forme di tutela per taluni profili dei diritti fondamentali, storicamente in ombra, seguono risposte al “vertice”, dalle Corti costituzionale ed europee; i loro esiti decisori generano, a loro volta, ulteriori spunti per affinare ed estendere la protezione giudiziale dei diritti.
E’ un processo non immune da difficoltà o arresti. E’ illusorio credere che la dialettica tra le Corti e tra esse ed i giudici nazionali sia esente da frizioni, incomprensioni, gelosie di ordinamento; che l’integrazione – inseguita e tuttora lungi dall’essere realizzata in sede politica – trovi la strada spianata dall’armonico e quasi idilliaco rapporto tra giurisdizioni. Entrano in gioco tutte le giurisdizioni, di tutti i Paesi membri; con il rischio, tra gli altri, di una sorta di colonialismo giurisdizionale, in forza del quale la giurisdizione “politicamente” più forte orienta o addirittura impone la propria Weltanschauung. Ma l’elaborazione delle nuove frontiere per la protezione dei diritti fondamentali, di fatto, spetta oggi alle giurisdizioni; sia pure in via di supplenza, in attesa che – specie in Italia – la politica torni a decidere, a stabilire princìpi senza limitarsi “ad accertare l’esistente”, a scegliere i nuovi beni da proteggere.
Non si può essere del tutto soddisfatti dell’attuale fase di evoluzione dei diritti fondamentali. La rinuncia alla formalizzazione legislativa (dunque, alla proclamazione con fondamento positivo ed efficacia universale) è compensata dall’effettività giurisprudenziale; quest’ultima garantisce la concretezza della tutela, ma non la sua sistematicità e certezza (non tutti i diritti vengono in rilievo allo stesso modo e nella loro ampiezza).
Resta poi una domanda-chiave, che in genere si evita perfino di porre: «Perché a ricchi cataloghi di diritti fondamentali si contrappongono ristretti testi di doveri fondamentali?» ((Häberle).

3. Il ruolo dell’avvocatura si accresce fortemente in tale contesto, ancor più alla luce della peculiarità europea.
Nella difesa dei diritti umani l’Europa ha saputo realizzare – con lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia – l’unificazione che non è stata in grado di raggiungere nel campo politico, economico, fiscale. Lo ha fatto attraverso un percorso prima giurisdizionale e pretorio, attraverso le decisioni della Corte di giustizia e di quella CEDU; poi politico, attraverso l’articolo 6 del Trattato di Maastricht, la Carta di Nizza e la sua duplice proclamazione (nel 2000 a livello politico, nel 2007 a livello giuridico, con il Trattato di Lisbona).
L’art. 6 del Trattato di Lisbona, apre la via a nuove prospettive di tutela dei diritti fondamentali. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali di Nizza con lo stesso valore giuridico dei Trattati; e aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950. Soprattutto, si apre la via ad un nuovo equilibrio fra diritti e mercato: la Corte di Giustizia dell’Unione europea tende a divenire giudice dei diritti oltre che delle regole del mercato.
La peculiarità dell’esperienza europea non sta tanto e solo nel riferimento alla centralità dei diritti umani, presenti anche in altri contesti e non riconducibili soltanto ad una logica eurocentrica; quanto piuttosto nella effettività e nella concretezza della loro tutela. Quest’ultima è stata affidata a meccanismi giurisdizionali, che hanno contribuito alla formazione dell’ordinamento europeo; e si è sviluppata nel multilevel, attraverso il dialogo quando non lo scontro fra fonti e giudici, con la garanzia di uno standard comune e la ricchezza della diversità.
Il primo fondamentale contributo alla tutela dei diritti umani in sede europea è offerto dalla CEDU. Più che al contenuto dei diritti contemplati dalla Convenzione (solo taluni, come dice il preambolo, fra quelli civili e politici contenuti nella Dichiarazione universale), occorre guardare al sistema della loro tutela, così come esso si è assestato con il protocollo 11 del 1994: la previsione di un giudice internazionale (la Corte di Strasburgo); la possibilità del ricorso individuale ad esso da parte di chiunque; la condanna dello Stato a far cessare la violazione di quei diritti e ad una equa soddisfazione.

Si tratta di un meccanismo di tutela sussidiaria a quella statale, nel caso di diniego definitivo di quest’ultima. Non sono considerati i diritti sociali, per i quali la Carta sociale europea del 1961 prevede meccanismi non giurisdizionali di protezione, anche se senza “compartimenti stagni” fra essi e i diritti contemplati dalla CEDU. Né vi sono riferimenti alla eguaglianza e alla solidarietà; nella Convenzione il divieto di discriminazione non ha carattere generale, ma soltanto specifico per i diritti tutelati.
Il secondo contributo alla tutela dei diritti umani, altrettanto fondamentale, è rappresentato dal percorso dell’integrazione: certamente più lento e complesso, ma più completo di quello della CEDU; ed orientato a sottolineare più l’indivisibilità che non l’universalità dei diritti umani. Quel percorso muove dall’originario silenzio dei Trattati comunitari sui diritti fondamentali e si afferma progressivamente in via pretoria, da parte della Corte di Giustizia.
Le decisioni della Corte mirano sia a rispondere alle preoccupazioni delle Corti Costituzionali nazionali (soprattutto quella tedesca e italiana), in tema di controlimiti all’ordinamento comunitario (ora europeo); sia a legittimare il primato – funzionale, non gerarchico – dell’ordinamento comunitario su quelli nazionali.
All’affermazione giurisprudenziale segue il riconoscimento politico, attraverso il riferimento del Trattato di Maastricht ai principi derivanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri e dalla CEDU. Quanto più l’ordinamento comunitario espande le proprie competenze e gli ambiti del suo intervento rispetto alle libertà connesse e funzionali al mercato, tanto più esso si espande a tutti i diritti, compresi quelli sociali.
Il riconoscimento dei diritti fondamentali e della loro indivisibilità si evolve progressivamente dall’originaria loro mediazione con le libertà economiche e le esigenze del mercato, a una sorta di “corrispettivo” per l’esistenza e il primato funzionale dell’ordinamento comunitario. Il momento conclusivo di questo percorso è rappresentato dalla Carta di Nizza e dalla sua efficacia giuridica.
La Carta apre a sua volta una nuova fase: dall’universalità dei diritti, espressa dalla CEDU, alla loro indivisibilità, espressa attraverso il riferimento introduttivo della Carta alla dignità e grazie alla sistemazione dei diritti in sei aree: la dignità stessa, la libertà, l’eguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza e la giustizia.
Quel percorso è segnato dal contributo delle due Corti europee all’effettività nella tutela dei diritti. E’ segnato dal confronto e dalla sinergia che si instaura fra di loro e più ancora fra esse e le Corti nazionali. Si pensi all’esperienza italiana e alla sua evoluzione nei rapporti con la Corte CEDU (culminata nelle sentenze n. 348 e 349 del 2007) e con la Corte di Giustizia (culminata con l’accesso della Corte nazionale alla pregiudizialità comunitaria, nell’ordinanza n. 103 del 2008).
E’ un percorso segnato dalla acquisita consapevolezza che non possono esistere né Unione, né mercato, né euro, né Europa, senza i diritti fondamentali. Ed è un percorso che innova e condiziona profondamente il ruolo dell’avvocato – prima italiano, ora europeo – nel suo impegno di salvaguardia dei diritti umani, già tradizionale e più che mai attuale, sottolineandone la componente di responsabilità sociale.

4. Oggi l’avvocatura deve sapersi confrontare con l’enfasi e con la crescita nell’affermazione dei diritti umani fondamentali; con l’effettività della loro tutela, per il tramite dell’elaborazione giurisprudenziale; ma anche, nella sostanza, con una realtà segnata sia dalla prevalenza della logica del mercato e del profitto, sia dal condizionamento di quei diritti ad opera del potere e della tecnica.
La prima e più immediata constatazione riguarda l’estensione “geografica” della difesa dei diritti: non più soltanto nell’ambito nazionale, ma altresì in quello sovranazionale ed europeo. Quanto all’ambito nazionale, i parametri della difesa sono legati innanzitutto al rispetto della Costituzione, quindi alla costante verifica ed attivazione del controllo di costituzionalità. Quanto all’ambito europeo, essi sono legati all’altrettanto attenta verifica sul rispetto della CEDU e del primato dell’ordinamento europeo su quello nazionale.
L’avvocatura non è certo nuova a questa prospettiva, se si pensa al contributo che – con i suoi ricorsi – essa ha dato alla creazione della giurisprudenza convenzionale ed all’arricchimento del contenuto dei diritti previsti dalla Convenzione, ad opera delle decisioni della Corte CEDU. E ciò, beninteso, senza pregiudizio o sottovalutazione delle ulteriori, ampie prospettive di espansione della difesa in giudizio, dinnanzi alle altre giurisdizioni internazionali che caratterizzano oggi il multilevel ed il ruolo sempre crescente dei giudici, dei tribunali e perciò degli avvocati, nel diritto internazionale (penso, per tutte, all’ipotesi della Corte Penale internazionale per i crimini contro l’umanità).
La complessità del multilevel impone all’avvocato di conoscere, dominare e interpretare sia il quadro normativo nazionale e sovranazionale, sia il dialogo (quando non lo scontro) e la sinergia tra le fonti giurisdizionali nazionali e sovranazionali. Inoltre, l’avvocato può e deve assumere un ruolo di protagonista della cultura dei diritti umani, in un’Europa che fonda su di essi il proprio DNA unitario; ed in cui invece prevale la logica del mercato e del profitto, alla stregua della crisi – prima finanziaria; poi economica e monetaria; infine politica e di valori –  che l’Europa sta attraversando.
L’ampliamento del ruolo dell’avvocato non riguarda soltanto l’estensione “geografica” della difesa, ma anche il suo contenuto. L’importanza della difesa tradizionale si accentua sempre più, a fronte del crescente ruolo del giudice nel riconoscimento di nuovi diritti; ed a fronte dell’indifferenza od ostilità sempre più diffuse per il loro rispetto.
La previsione costituzionale dell’inviolabilità del diritto di difesa, in uno con quella del diritto di accesso alla giustizia e alla rimozione di ostacoli per i non abbienti, rendono evidente il significato costituzionale e istituzionale dell’avvocatura: un pilastro insostituibile della funzione giurisdizionale. Non credo occorra invece esplicitare ulteriormente quel significato, attraverso una previsione costituzionale ad hoc, che potrebbe divenire la premessa per una funzionalizzazione eccessiva della professione; e sarebbe probabilmente inutile per il suo ruolo sociale, se non addirittura dannosa per la sua indipendenza.

Accanto alla partecipazione alla funzione giurisdizionale, la difesa dei diritti fondamentali attraverso la professione si apre a prospettive nuove e ulteriori, in una società globalizzata come la nostra. L’avvocato, nel suo ruolo di consulenza – oggi sempre più in espansione – può contribuire al raccordo necessario della dimensione economica e di mercato con quella della società civile; deve essere consapevole che alla difesa specifica dei diritti del cliente si lega, inevitabilmente, quella delle libertà fondamentali e dei diritti civili, politici, economici e sociali di tutti; deve aver sempre presente la necessaria reciprocità fra i diritti fondamentali e i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
In altri termini, il contributo dell’avvocatura alla difesa dei diritti umani non può limitarsi a contribuire alla loro effettività nel caso specifico. Deve investire necessariamente anche la loro indivisibilità e universalità e farsi coinvolgere da esse, perché la dignità della persona non tollera alcuna area “scoperta” e priva di tutela.
Accanto alla estensione e al contenuto della difesa, si amplia il novero dei soggetti interessati ad essa. L’assistenza e difesa del singolo cliente costituiscono l’oggetto specifico del rapporto professionale; ma vengono in considerazione anche gli altri soggetti, su cui inevitabilmente ricadono le conseguenze e gli effetti di quell’assistenza e difesa. In parole semplici, occorre tener presenti anche i loro diritti umani fondamentali, oltre a quelli del proprio cliente: soprattutto quelli dei soggetti più deboli, quindi più esposti alle logiche di prevalenza del potere, della tecnica, del mercato e del profitto.
Infine, la indivisibilità e la universalità dei diritti umani propongono un ampliamento anche nel modo di esercitare la professione.
L’avvocato, attraverso la specifica domanda di tutela, nel caso singolo, ha storicamente offerto e può continuare ad offrire un contributo significativo alla “creazione” dei “nuovi” diritti umani, grazie ai meccanismi del multilevel e delle fonti giurisprudenziali.
Inoltre, l’avvocato e l’avvocatura hanno dato e possono e devono continuare a dare un contributo altrettanto importante alla formazione di una cultura dei diritti umani e, prima ancora, ad agevolare la loro conoscenza da parte dei titolari ignari, soprattutto quelli più deboli. Ed è appena il caso di ricordare quanto una simile cultura e conoscenza siano importanti oggi, in una società sempre più multietnica e multiculturale, ma sempre più intollerante.
Infine, la professione consente di valorizzare la mediazione – accanto alla difesa classica e alla consulenza preventiva – come via significativa per rendere effettivamente accessibili a tutti quei diritti, in un contesto che è certamente di rischio per i loro “titolari deboli”, di fronte ai vari poteri forti (da quelli politici a quelli economici, a quelli dell’informazione e così via). Ciò si traduce nell’esigenza di una concreta attenzione alle indicazioni del codice deontologico dell’avvocato europeo; così da riscoprire il ruolo tradizionale di una professione liberale come l’avvocatura, nella tutela dei diritti dell’uomo, e da renderlo attuale di fronte alle prevaricazioni di quei poteri.

6. La riflessione sull’ampliamento della professione – della sua estensione “geografica”, del suo contenuto, dei soggetti interessati ad essa e del suo modo di esercizio – apre la via ad una serie di conseguenze assai importanti a proposito della c.d. responsabilità sociale dell’avvocato, del “giusto processo”, della deontologia, della formazione professionale. Temi, questi – già approfonditi a livello nazionale ed europeo dalla parte più sensibile ed attenta dell’avvocatura – ai quali posso soltanto far cenno nella mia riflessione, rinviando al documento di lavoro congressuale.
La responsabilità sociale è parte integrante della professione, sul piano di principio e deontologico. L’impegno alla difesa dei diritti umani e il dovere che ne nasce verso la collettività si traducono in una responsabilità sociale verso gli altri, oltre che verso il cliente: il dovere di rispettare i diritti fondamentali anche di chi non è coinvolto nel rapporto professionale, ma ne subisce i riflessi (cfr. il preambolo del codice deontologico dell’avvocato europeo del CCBE, 1998).
Non è sufficiente – ancorché sia necessario e fondamentale – il rispetto delle regole e delle procedure, circoscritto al rapporto che ha ad oggetto la prestazione professionale. Occorre valutare le conseguenze delle scelte professionali tenendo conto che, accanto agli interessi del cliente, possono essere in gioco anche i principi e i diritti umani altrui. Ciò non vuol dire “funzionalizzare” al perseguimento di fini sociali la professione, che è e resta una, anzi la prima professione liberale; ma – al pari di quanto si verifica, mutatis mutandis, per la responsabilità sociale dell’impresa – significa valorizzare l’art. 41 Cost. anche a proposito della professione: rifiutando però decisamente qualsiasi pretesa, più o meno surrettizia, di trasformarla per tale via in un “servizio”, nella logica di impresa.
Si tratta di raccogliere l’indicazione dell’art. 41 e prima ancora quella dell’art. 3 della Costituzione per la tutela della dignitˆ umana come limite in negativo, oltre che come obiettivo in positivo della professione. In una prospettiva nuova rispetto a quella tradizionale della deontologia forense, il riferimento alla pari dignità sociale è importante come espressione riassuntiva di tutti i valori costituzionali: dalla salvaguardia della dignità della professione (tradizionale), alla tutela della dignità del cliente, all’impegno per la pari dignità sociale di tutti.
Quanto al “giusto processo”, è evidente la sua centralità nel dibattito sul ruolo dell’avvocatura nella difesa dei diritti umani, dato che quest’ultima trova nella assistenza giudiziaria il suo momento più significativo e tradizionale, anche se non esaustivo (tanto meno oggi).

La difesa riveste un ruolo istituzionale e costituzionale nel processo (art. 24 Cost.) e l’avvocato è un protagonista fondamentale nell’amministrazione della giustizia. Perciò, di fronte alla crisi di quest’ultima e alle difficoltà per la sua soluzione, sono indispensabili la corresponsabilizzazione e il coinvolgimento dell’avvocatura, segnatamente attraverso le sue strutture istituzionali ed associative.
Il “giusto processo” – definito già dalla CEDU e ora dalla Costituzione – è un diritto fondamentale per tutti, come il diritto di accesso alla giustizia; ed è espressione dei valori di civiltà e di democrazia, sui quali si fondano, si attuano e si garantiscono i diritti umani. Esso presuppone un sistema giudiziario efficiente; richiede l’indipendenza ed imparzialitˆ effettive del giudice, il contraddittorio quale indefettibile espressione del diritto di difesa, la ragionevole durata del processo.
Ogni energia dell’avvocatura deve tendere all’effettività del “giusto processo”, che è la testata d’angolo della tutela di tutti gli altri diritti fondamentali: la loro “condizione di pensabilità”. Ma ciò richiede che il processo – proprio in quanto “giusto” – non si risolva in un rigido formalismo autoreferenziale o in una astratta garanzia di legalità, e persegua in termini di effettività il rispetto sostanziale dei diritti inviolabili di tutti (a questo proposito, per l’affermazione del principio di difendersi nel processo e non dal processo, cfr. Corte Costituzionale, ordinanza n. 16 del 2006).
La c.d. etica interna al processo si snoda secondo i parametri di correttezza e lealtà, cui devono ispirarsi tutti i suoi protagonisti, in vista del dovere e del risultato di verità cui il giusto processo deve tendere. Fermo restando – come già osservava Calamandrei – che l’ufficio del difensore non è la ricerca imparziale della verità, ma il mettere in evidenza le ragioni del cliente, cioé solo la porzione di verità che giova alla difesa; mentre all’altra porzione di verità devono pensarci l’avversario (nel civile) o il pubblico ministero (nel penale), nella logica del contraddittorio.
L’evoluzione del contesto di operatività della professione e più in generale della società; la necessità di guardare di più agli aspetti anche esterni al rapporto professionale; l’ampiezza e la molteplicità delle fonti normative; l’attenzione doverosa alla responsabilità sociale dell’avvocato; la centralità dei diritti umani e la sempre crescente valorizzazione del ruolo del’avvocato con riferimento ad essi, in un contesto di globalizzazione i cui effetti incidono pesantemente sulla persona (soprattutto sui più deboli): tutto ciò impone una riflessione profonda sulla deontologia professionale e sulla formazione professionale (sia quella iniziale, per l’accesso alla professione; sia quella continua, per il suo esercizio). Occorre che la deontologia e la professione sappiano aprirsi agli scenari attuali e futuri, nei termini che sono stati proposti dal documento di lavoro congressuale.
Solo così, nell’irrompere del moderno, potremo evitare di disperdere nel vento i valori profondi e millenari dell’avvocatura.

23 novembre 2010

* Giovanni Maria Flick: Avvocato, Presidente emerito della Corte Costituzionale
** L’avvocatura di fronte ai diritti umani: Relazione per il XXX Congresso Nazionale Forense di Genova – 25 novembre 2010 (il testo rielabora, in parte, precedenti riflessioni dell’A.)