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L’ascesa dell’azionariato diffuso: il ruolo della legge e dello Stato nella separazione tra proprietà e controllo

di - 15 Dicembre 2010
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Certamente ci troviamo in un periodo di transizione, durante il quale la mentalità tradizionale fa fatica a calarsi nelle nuove regole. Non si può però ignorare il disegno del legislatore nelle modifiche al sistema della corporate governance: chiarire e rafforzare i poteri degli organi gestori, controbilanciandoli con un più stringente regime di responsabilità, ampliare gli ambiti dell’autonomia statutaria, mettendo a disposizione modelli societari più adeguati alle esigenze dell’impresa, favorire la nascita, la crescita e la competitività delle società attraverso l’accesso ai mercati internazionali dei capitali. Il Testo Unico del 1998 aveva segnato la strada maestra insistendo sulla necessità di rivedere alcuni principi base in materia di società quotate in mercati regolamentati: la predisposizione di mezzi più incisivi a tutela delle minoranze, una maggiore trasparenza, accessibilità e diffusione delle informazioni societarie, un più pervasivo sistema dei controlli interno ed esterno, soprattutto in relazione ai dati contabili.
L’analisi sin qui condotta consente di prendere atto che tra i due modelli, public companies e società controllata da pochi o da un solo azionista, nella realtà economica quello dominante e destinato a sopravvivere è il primo, che si accompagna allo sviluppo di mercati dei capitali liquidi ed affidabili.  Ma ciò non implica necessariamente che sia anche il sistema più efficiente. A prescindere dalle dispute sui fattori all’origine dell’azionariato diffuso, tutti gli Autori fin qui esaminati concordano nell’affermare il problema più spinoso di un modello societario simile è quello dei costi di agenzia, tanto più elevati tanto è maggiore la separazione tra la proprietà e il controllo della società.
Quando proprietà e controllo non coincidono, automaticamente si instaura tra la miriade di azionisti della public company (i principali) e gli amministratori della società (agenti) un rapporto di agenzia, in cui l’interesse delle due categorie di soggetti solo parzialmente coincide. Infatti, i piccoli investitori sono generalmente propensi al rischio, in quanto loro obiettivo primario è conseguire elevati profitti, mentre eventuali perdite possono essere tollerate grazie alla diversificazione nella speculazione in diversi settori; i managers sono invece avversi al rischio perché puntano a conservare la propria posizione e non sono disposti ad esporre ad eccessivi pericoli la società che è la loro unica fonte di reddito. Questo conflitto di interessi è aggravato dalla circostanza che mentre il manager è nella posizione migliore per assumere le scelte ottimali per la società, ma non sempre ha l’interesse a farlo, l’azionista non dispone agilmente né delle informazioni sull’andamento dell’impresa, né sulla qualità della gestione degli amministratori. Questi ultimi, pertanto, saranno più che tentati di gestire la società in vista della soddisfazione dei propri interessi, spesso a scapito del perseguimento dello scopo sociale e della redditività delle partecipazioni degli azionisti. La dispersione della proprietà rende difficile monitorare l’operato dei managers ed esercitare pressioni per spingerli alla gestione ottimale a causa della anzidetta asimmetria informativa, che impedisce anche di valutare quali possano essere le strategie vincenti. Inoltre non è facile che possa essere raggiunta l’aggregazione sufficiente ad esercitare un potere sugli amministratori in quanto nessun azionista vorrà esporsi in prima persona se poi potrà godere dell’iniziativa di controllo assunta da altri (problema del free rider).
Si è cercato di minimizzare tali costi con molti meccanismi, nessuno dei quali è stato però in grado di annullarli completamente. Si è fatto leva sul rafforzamento degli obblighi di disclosure per colmare l’asimmetria informativa tra outsiders (azionisti) ed insiders (amministratori), si sono adottate forme di corporate governance in cui si valorizzano organi di controllo interni e si impone o raccomanda la presenza di soggetti indipendenti e disinteressati, si è inasprita la disciplina del conflitto di interessi, si è agganciata la retribuzione degli amministratori all’andamento del titolo o agli utili risultanti dal bilancio, in modo da avvicinare il loro interesse a quello degli azionisti. Ovviamente qualcuno di questi rimedi si è rilevato efficiente, qualcun altro ha avuto successo finché non è intervenuto lo scandalo di turno che lo ha relegato nell’angolo della diffidenza. A tutt’oggi quindi la ricerca di incentivi per indurre gli agents a coltivare esclusivamente l’interesse della società prosegue incessante.
Ma questo non prova che un sistema societario in cui prevalga la concentrazione proprietaria non sia immune dai costi di agenzia solo perché l’azionista di controllo internalizza i costi e i benefici delle strategie imprenditoriali. Il rapporto principale-agente si viene similmente a riproporre tra azionista di maggioranza e di minoranza: chi detiene il controllo potrà indirizzare la gestione della società attraverso la scelta di amministratori di fiducia e se vorrà approfittarne potrà sottrarre risorse al patrimonio aziendale oppure svenderle ad altre società controllate. In Italia, in particolar modo, sono oltremodo diffuse le patologie dei gruppi piramidali, dove una holding arriva a controllore con quote a volte anche infinitesimali moltissime società a valle; tale organizzazione si presta assai bene ad operazioni poco limpide, in cui vengono sistematicamente defraudati gli azionisti di minoranza delle società a valle, incapaci di esercitare pressioni sui propri managers.
Dalla presenza dei costi d’agenzia in entrambi i modelli si può affermare che questi non possano costituire una valida discriminante per stabilire il sistema più efficiente. Dagli studi comparatistici emerge senza alcun dubbio una stretta correlazione tra livello di protezione degli azionisti di minoranza e diffusione dei titoli di partecipazione societari presso il pubblico. Nel modello anglosassone i piccoli risparmiatori godono di un grado protezione maggiore, sono incentivati ad investire perché le società hanno bisogno di raccogliere capitale e sono attirati dalla distribuzione degli utili e dalla possibilità di un rapido disinvestimento. In un sistema in cui l’azionariato è concentrato nelle mani di pochi, le minoranze, nel migliore dei casi, sono un impaccio per il controllante quando non sono considerata alla stregua di un innocuo fantasma, che non può nulla anche se rivendica molto; gli utili (quando vengono fatti comparire) vengono trattenuti il più possibile dalla società stessa per non essere elargiti alla platea degli azionisti.

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