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L’ascesa dell’azionariato diffuso: il ruolo della legge e dello Stato nella separazione tra proprietà e controllo

di - 15 Dicembre 2010
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In realtà tale tesi, seppur suggestiva, non regge alla prova storica. Enfatizzare il ruolo della legge positiva a tutela degli azionisti e il ceppo d’origine del sistema giuridico si scontra con l’oggettività di alcuni riscontri. In primo luogo, è altamente significativo che il primo mercato azionario nacque ad Amsterdam, ben prima di quello londinese, e l’Olanda non può certo classificarsi come un paese di common law. L’intuizione di LLS&V può essere salvata osservando che, seppur l’Olanda rientri a pieno titolo tra i paesi a diritto civile, moltissime sono le analogie con un paese a common law come la Gran Bretagna, ma da rintracciare, più che nel sistema positivo, nel grado di interventismo dello Stato sull’iniziativa economica privata. In secondo luogo, le public companies cominciarono a svilupparsi verso la fine dell’800, periodo in cui di garanzie legali per gli azionisti di minoranza negli Stati Uniti non v’era ancora traccia. A presidio degli investitori non era stata emanata nessuna legge federale, tant’è vero che la tutela degli azionisti risultava costosa e incerta se si sceglieva di adire gli organi di giustizia statali. Data l’ampia dislocazione sul territorio delle grandi società, accadeva di frequente che ci si rivolgesse a Corti di Stati diversi, le quali immancabilmente si pronunciavano in senso difforme, oppure si sceglieva direttamente di instaurare la causa nello Stato in cui poteva contarsi sul riguardo di un giudice corrotto. Proprio in conseguenza della scarsa ed inefficiente tutela apprestata dalla giustizia statale, si svilupparono, in questo periodo, accordi di autoregolamentazione e si ricorse ad arbitrati privati per risolvere le controversie: tali meccanismi, che lungo corso hanno avuto nella storia statunitense, testimoniano l’assenza di diritti per gli azionisti di derivazione statale e l’inospitalità del sistema di common law, almeno sotto questo punto di vista.
Un’altra teoria, elaborata da Lucian Bebchuk, sostiene che condizione per lo sviluppo dell’azionariato diffuso è che i benefici privati del controllo siano bassi: in sostanza, la proprietà concentrata è la regola, quella diffusa è l’eccezione. Ma un’analisi del genere non tiene in dovuta considerazione la realtà economica: la diffusione dell’azionariato presso il pubblico è la regola in mercati che pesano, quali quello statunitense o britannico, e nei paesi tradizionalmente più ancorati alla concentrazione della proprietà quest’ultima manifesta notevoli zone di erosione. Inoltre non si può semplicisticamente affermare che l’origine dell’azionariato diffuso dipenda dall’assenza di benefici del controllo: se ciò fosse vero, non si capirebbe allora l’obiettivo di chi cerca di acquisire il controllo di una società tramite una scalata e non si giustificherebbero le sempre più numerose operazioni di takeover.
Ancora, si può ricercare nella tradizione politica il mancato sviluppo di mercati azionari e obbligazionari in Europa. Mark Roe fonda l’atrofia dei mercati europei sullo sviluppo del c.d. Stato sociale, in cui la priorità non era la massimizzazione del profitto o l’aumento del volume degli scambi, bensì la tutela dei diritti sociali. Perciò, nei periodi di crisi, dovevano prevalere gli interessi dei lavoratori e di coloro il cui sostentamento dipendeva dalla società, più che quelli degli azionisti. Lo Stato tentava quindi di interferire nelle politiche societarie, garantendo protezione ai portatori di interessi che aveva selezionato come privilegiati: secondo la teoria di Roe, pochi azionisti di controllo sarebbero stati in grado di contrastare meglio queste indebite pressioni, piuttosto che un gruppo disomogeneo e disorganizzato di piccoli investitori.
Ma anche quest’opinione presta il fianco ad alcune critiche. La concentrazione della proprietà non è una caratteristica permanente dello Stato sociale, tant’è che nei paesi asiatici o in quelli africani in via si sviluppo, che assomigliano più a stati plutocratici e sono ben lontani da slanci assistenziali, la concentrazione raggiunge livelli altissimi, sintomo di ambigui scambi di favori tra controllanti e classe politica piuttosto che baluardo contro le sue ingerenze. Seguendo la linea argomentativa di Roe, inoltre, si può obiettare come sia assai agevole esercitare pressioni contro uno o comunque pochi azionisti di controllo e non lo sia invece per nulla agire su una massa anonima e disinteressata di piccoli investitori.
Ciò che però più profondamente mette in discussione l’assunto di Roe è l’incompatibilità dei tempi: lo Stato sociale si affermò in un periodo storico ben successivo al radicamento della concentrazione della proprietà azionaria nelle mani di pochi. Infatti, già sul finire del XIX secolo, in Francia e Germania l’assetto societario pendeva in modo incontrovertibile a favore di un azionariato non diffuso tra il pubblico; negli stessi anni, in Gran Bretagna, paradossalmente spuntavano i germogli di nuove politiche sociali ma ciò non valse comunque ad intaccare la liquidità dei mercati.
I tentativi di individuare una sola condizione (protezione legale delle minoranze, scarsi benefici privati del controllo, ascesa dello Stato sociale), come terreno fertile per la diffusione dell’azionariato presso il grande pubblico e per lo sviluppo di liquidi mercati dei capitali, falliscono. Né si può semplicisticamente affermare che tale fenomeno sia cresciuto nei soli paesi di common law, sia perché allora si sviluppò sulla falsariga di questi mercati anche quello olandese e sia perché oggi l’Europa continentale sta convergendo verso il modello anglosassone, senza aver manifestato alcuna intenzione di recepirne il sistema legale anglosassone.

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