Il c.d. federalismo demaniale: la devoluzione del patrimonio statale vista come misura di “semplificazione”

1. Premessa
Il c.d. federalismo demaniale cui si è dato avvio con il decreto legislativo che qui si commenta costituisce una significativa appendice delle recenti disposizioni normative che hanno dato attuazione nel nostro Paese al federalismo fiscale. Il riferimento è alle previsioni dell’art. 119 Cost. e della legge 5 maggio 2009, n. 42, recante «Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione».
La legge 5 maggio 2009, n. 42 attribuiva infatti al Governo la facoltà di esercitare la delega mediante decreti legislativi delegati distinti, ispirati a principi e criteri direttivi comuni (art. 2), ai quali si aggiungevano principi e criteri direttivi specifici. Uno di questi principi specifici era da ravvisarsi appunto nel c.d. federalismo demaniale. Si è parlato non a torto di principio patrimoniale del federalismo fiscale[1].
L’art. 19 della legge di delega imponeva, in primo luogo, al legislatore delegato di provvedere all’attribuzione a titolo non oneroso ad ogni livello di governo di distinte tipologie di beni, commisurate alle dimensioni territoriali, alle capacità finanziarie ed alle competenze e funzioni effettivamente svolte o esercitate dalle diverse regioni ed enti locali, fatta salva la determinazione da parte dello Stato di apposite liste che individuino nell’ambito delle citate tipologie i singoli beni da attribuire.
Tale attribuzione, secondo le previsioni della legge di delega, avrebbe dovuto esser regolata dal criterio di territorialità, ma al contempo facendo ricorso alla concertazione in sede di Conferenza unificata, ai fini dell’attribuzione dei beni a comuni, province, città metropolitane e regioni.
Tale devoluzione dei beni demaniali e del patrimonio indisponibile dello Stato, doveva consentire, secondo le previsioni della legge di delega la individuazione di tipologie di beni di rilevanza nazionale che non potessero essere trasferiti, beni tra cui sono ricompresi ed anzi spiccano quelli appartenenti al patrimonio culturale nazionale.
Lo Schema di decreto legislativo sul federalismo demaniale è stato predisposto nel dicembre 2009, ed è stato poi oggetto di discussione in Conferenza Stato-Città ed autonomie locali. Dopo una significativa – per non dire integrale – revisione dello Schema operata in occasione del Consiglio dei ministri del 12 marzo 2010, l’articolato è stato presentato alle Camere per l’espressione dei pareri previsti dalla legge delega. Ed infine ha visto la luce.

2. I principi della devoluzione del patrimonio statale
Secondo le previsioni dell’art. 2 del d.lgs. in esame, lo Stato (previa intesa conclusa in sede di Conferenza unificata), individua i beni da attribuire a titolo non oneroso a comuni, province, città metropolitane e regioni, secondo una serie di criteri e di principi confusamente affastellati nel primo comma[2].
Il legislatore mette insieme il criterio di territorialità con il principio di sussidiarietà, il principio di adeguatezza e le esigenze di semplificazione, la misura della capacità finanziaria dei singoli enti e l’esigenza di una bilanciata correlazione tra titolarità dei beni e competenze e funzioni assegnate, infine esigenze di valorizzazione ambientale.
E’ solo al quinto comma dell’art. 2 che si dà conto dei diversi principi e criteri e del loro impiego al fine di procedere alla devoluzione (il legislatore parla di “attribuzione”) del patrimonio statale.
Ed il primo principio che sovviene è quello della gratuità del trasferimento. Anche se il legislatore usa singolarmente l’espressione “a titolo non oneroso”, quasi per dissimulare l’inevitabile depauperamento del patrimonio dello Stato, il cardine della disciplina che si sta commentando consiste appunto nello smembramento del patrimonio dell’Ente pubblico Stato in favore di una frammentazione del demanio o, se si vuole, in una declinazione al plurale dei demani della Repubblica.
Segue poi il richiamo all’applicazione contestuale di tre principi non sempre convergenti: la sussidiarietà, l’adeguatezza e la territorialità.
Come ben precisa il legislatore, se il criterio principale della devoluzione è quello della territorialità, considerando cioè il loro radicamento sul territorio, con trasferimento quindi in favore dei comuni, tale regola trova una giustificata eccezione laddove «per l’entità o tipologia del singolo bene o del gruppo di beni, esigenze di carattere unitario richiedano l’attribuzione a province, città metropolitane o regioni quali livelli di governo maggiormente idonei a soddisfare le esigenze di tutela, gestione e valorizzazione». Il criterio della territorialità quindi è opportunamente bilanciato dal corollario più importante del principio di sussidiarietà, e cioè l’adeguatezza del trasferimento in favore del comune «tenendo conto del rapporto che deve esistere tra beni trasferiti e funzioni di ciascun livello istituzionale», con particolare riferimento alla idoneità dell’Ente comunale ad assicurare le esigenze di tutela, gestione e valorizzazione dei beni trasferiti (cfr. lett. g).
Una valorizzazione che, nelle ottimistiche aspettative del legislatore, non si limiti alla sola valorizzazione intrinseca del bene oggetto di trasferimento, ma si estenda alla “valorizzazione ambientale”, intesa come azione volta allo «sviluppo del territorio e la salvaguardia dei valori ambientali», «avendo riguardo alle caratteristiche fisiche, morfologiche, ambientali, paesaggistiche, culturali e sociali dei beni trasferiti».
L’adeguatezza, infine, deve essere apprezzata anche considerando le capacità finanziarie dei comuni, e cioè la autosufficienza finanziaria dell’ente territoriale necessaria a soddisfare quelle esigenze di tutela, gestione e valorizzazione dei beni di cui si è detto.

3. Il principio della “semplificazione”… delle dismissioni
Accanto ai principi più nobili della valorizzazione dei beni e dell’adeguatezza del trasferimento in ragione dell’obiettivo della valorizzazione, l’art. 2 fa riferimento ad un apparentemente innocuo principio di “semplificazione”. Si badi, non si tratta del noto principio che – con una certa dose di demagogia – è apparso nel novero dei principi ispiratori della troppo lunga stagione delle riforme amministrative avviata nel nostro Paese sul finire degli anni Novanta dello scorso secolo.
In realtà, a leggere bene il c. 5 dell’art. 2, si comprende sin troppo bene che laddove è scritto “semplificazione” si deve leggere facoltà di dismissione. La norma infatti precisa che «in applicazione di tale criterio, i beni possono essere inseriti dalle regioni e dagli enti locali in processi di alienazione e dismissione secondo le procedure di cui all’art. 58 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. A tal fine, per assicurare la massima valorizzazione dei beni trasferiti, la deliberazione da parte dell’ente territoriale di approvazione del piano delle alienazioni e valorizzazioni è trasmessa ad un’apposita Conferenza di servizi, che opera ai sensi degli artt. 14, 14-bis, 14-ter e 14-quater della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, a cui partecipano il comune, la provincia, la città metropolitana e la regione interessati, volta ad acquisire le autorizzazioni, gli assensi e le approvazioni comunque denominati necessari alla variazione di destinazione urbanistica».
A leggere bene questa previsione, l’intervento legislativo assume tutta altra colorazione e sembra costituire l’ultimo importante capitolo della rinnovata attenzione ai beni pubblici dell’ultimo decennio, una attenzione che si è concretata eminentemente in interventi legislativi volti alla “depubblicizzazione” del patrimonio immobiliare ed alla dismissione come significativa misura di risanamento finanziario[3].
Nel nostro ordinamento, la politica di alienazione dei beni pubblici può dirsi iniziata già con la legge 21 agosto 1862, n. 793. Ma, in epoca recente, il primo provvedimento che ha avviato un secondo processo di alienazioni impostato secondo modelli normativi del tutto nuovi, è costituito dal decreto-legge 5 dicembre 1991, n. 386, convertito con legge 29 gennaio 1992, n. 35, il cui art. 2 prevedeva l’alienazione (eventualmente previa valorizzazione) e la gestione economico produttiva dei beni. Con la disciplina positiva successiva si è sancita l’alienabilità dei beni pubblici, tra i quali anche quelli afferenti agli artt. 822 e ss. c.c., a condizione che ciò non pregiudichi la tutela di interessi ambientali, culturali, ovvero la tutela di interessi alla conservazione e fruizione collettiva.
Visti gli scarsi risultati raggiunti, si è fatto ricorso ai privati con il decreto legislativo 16 febbraio 1996, n. 104 che ha infatti previsto l’affidamento della gestione a società specializzate; l’alienazione dei beni; il conferimento degli immobili a fondi comuni di investimento immobiliare; il conferimento degli immobili a società immobiliari partecipate da fondi pensione.
L’art. 19 della l. n. 448/1997 ha previsto, peraltro, forme di project financing per l’affidamento di beni, soprattutto quelli suscettibili di sfruttamento a fini turistici, a soggetti in grado di procedere alla loro valorizzazione e successiva utilizzazione dietro pagamento di un congruo canone. Le disposizioni contenute nel citato art. 19 della l. n. 448/1997 sono state poi modificate dalla l. n. 136/2001 che ha disciplinato tre ulteriori procedure per la valorizzazione e utilizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato, volte, in particolare, a favorire il coinvolgimento degli enti locali che utilizzino il bene o nel cui territorio siano localizzati tali beni immobili.
Sono state altresì dettate disposizioni particolari (v. il d.P.R. 7 settembre 2000, n. 283) per le alienazioni dei beni di proprietà dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni costituenti il demanio artistico e storico.
I modelli di privatizzazione del patrimonio pubblico oscillano dunque tra l’alienazione diretta ad opera dell’amministrazione statale, talvolta con l’ausilio di società di consulenza per la determinazione del valore e di società per la gestione della dismissione, e quella mediante società per azioni sia in mano pubblica che in mano privata, cui è affidata la gestione dei fondi istituiti con apporto di beni immobili.
Le leggi cui si deve far cenno per comprendere tali ultimi modelli di dismissione del patrimonio pubblico sono sostanzialmente quattro: la legge 30 aprile 1999, n. 130 che ha dettato una disciplina generale in materia di cartolarizzazione dei crediti, la legge 23 novembre 2001, n. 410 di conversione del decreto legge 25 settembre 2001, n. 351 che ha dettato disposizioni in materia di ricognizione, privatizzazione e cessione del patrimonio immobiliare pubblico, la legge 15 giugno 2002, n. 112 di conversione del decreto legge 15 aprile 2002, n. 63 che ha istituito la Patrimonio dello Stato s.p.a per la valorizzazione, gestione ed alienazione del patrimonio dello Stato e la Infrastrutture s.p.a per il finanziamento delle infrastrutture, nonché la legge dicembre 2002, n. 289 (finanziaria 2003) che ha esteso la disciplina prevista dalla l. n. 410/2001 alle regioni, agli enti locali e agli enti pubblici strumentali degli enti territoriali che ne abbiano fatto richiesta all’ente territoriale di riferimento, nonché alle aziende sanitarie locali e alle aziende ospedaliere.

A queste quattro leggi si sono poi aggiunti due provvedimenti normativi di grande rilievo sul versante procedurale. La l. n. 27/2003 di conversione del decreto-legge 24 dicembre 2002, n. 282 ed il d.P.R. 7 settembre 2000, n. 283. Si tratta di due provvedimenti, l’uno legislativo, l’altro regolamentare, che mirano a disciplinare l’alienazione dei beni pubblici secondo finalità sostanzialmente diverse. Nel caso della legge n. 27/2003 la ratio cui è informata tutta la legge è proprio quella di vendere in deroga alla normativa contabile vigente, e il ricorso alla trattativa privata trova una sua legittimazione soltanto nel fatto che la vendita deve avvenire secondo criteri e valori di mercato. A venire in rilievo nel caso di specie è il bene pubblico come risorsa per il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica e non il bene in quanto oggetto da valorizzare e tutelare. Nel regolamento n. 283/2000, viceversa, il fine è quello di tutelare il bene di interesse culturale, o meglio di disciplinarne l’alienazione e l’utilizzazione.
Non sempre queste misure hanno sortito gli effetti sperati, ed anzi molte correzioni sono state poste in essere, da ultimo con riferimento alla incorporazione della Infrastrutture S.p.a. in Cassa Depositi e Prestiti disposta dalla legge 31 dicembre 2005, n. 266. Ma ciò che più è mancato e che ancora manca nella disciplina legislativa del nostro Paese (e nella conseguente azione di indirizzo politico e di gestione amministrativa) non è tanto la efficienza delle procedure di dismissione quanto la consapevolezza del carattere solo accessorio e strumentale delle politiche di dismissione rispetto invece alla centralità delle politiche di conservazione e gestione del patrimonio che resta in mano pubblica[4].

4. Il trasferimento nel patrimonio disponibile: possibilità e forme di alienazione
Nonostante l’art. 2, al c. 4, enunci in modo quasi solenne che «l’ente territoriale, a seguito del trasferimento, dispone del bene nell’interesse della collettività rappresentata ed è tenuto a favorire la massima valorizzazione funzionale del bene attribuito, a vantaggio diretto o indiretto della medesima collettività territoriale rappresentata», ben si intuisce come il riferimento al “vantaggio indiretto” stia a significare quello che poi apparirà evidente nella disciplina di detti beni trasferiti: i comuni (e gli altri enti che se li vedranno attribuire a titolo gratuito) potranno (quasi liberamente) alienarli[5].
Ed infatti l’art. 4 del decreto legislativo in commento prevede, al primo comma, che «i beni, trasferiti con tutte le pertinenze, accessori, oneri e pesi, salvo quanto previsto dall’art. 111 c.p.c., entrano a far parte del patrimonio disponibile dei comuni, delle province, delle città metropolitane e delle regioni».
Quindi tutti questi beni rientrano nel patrimonio disponibile perché l’ente locale ne possa fare l’impiego che più ritenga utile, anche a mezzo di alienazione, e ciò è tanto evidente che da un lato, il legislatore non può far a meno di introdurre qualche deroga, dall’altro si preoccupa quantomeno di introdurre vincoli procedurali all’alienazione di questi beni.
Da un lato, all’art. 4, c. 1, si fanno salvi dalla sdemanializzazione i beni appartenenti al demanio marittimo, idrico e aeroportuale e, «ove ne ricorrano i presupposti», il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di attribuzione di beni demaniali diversi da quelli appartenenti al demanio marittimo, idrico e aeroportuale potrà «disporre motivatamente il mantenimento dei beni stessi nel demanio o l’inclusione nel patrimonio indisponibile».
Dall’altro, al terzo comma dell’art. 4, si prevede che «i beni trasferiti in attuazione del presente decreto che entrano a far parte del patrimonio disponibile dei comuni, delle province, delle città metropolitane e delle regioni possono essere alienati solo previa valorizzazione attraverso le procedure per l’adozione delle varianti allo strumento urbanistico, e a seguito di attestazione di congruità rilasciata, entro il termine di trenta giorni dalla relativa richiesta, da parte dell’Agenzia del demanio o dell’Agenzia del territorio, secondo le rispettive competenze».
E seguendo la linea evolutiva del legislatore in materia di dismissione dei beni pubblici, il decreto legislativo in esame prevede oltre che le più ordinarie modalità di dismissione, anche forme più avanzate di dismissione e di privatizzazione del patrimonio pubblico.
Il riferimento è allaprivatizzazione dei beni attraverso fondi comuni di investimento immobiliare.
L’art. 6, c.1, del decreto prevede che «al fine di … promuovere la capacità finanziaria degli enti territoriali, anche in attuazione del criterio di cui all’art. 2, c. 5, lett. c), i beni trasferiti agli enti territoriali possono, previa loro valorizzazione, attraverso le procedure per l’approvazione delle varianti allo strumento urbanistico di cui all’art. 2, c. 5, lett. b), essere conferiti ad uno o più fondi comuni di investimento immobiliare istituiti ai sensi dell’art. 37 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, ovvero dell’art. 14-bis della legge 25 gennaio 1994, n. 86».
Secondo il legislatore, quindi ciascun bene sarà «conferito, dopo la relativa valorizzazione attraverso le procedure per l’approvazione delle varianti allo strumento urbanistico, per un valore la cui congruità» sarà «attestata, entro il termine di trenta giorni dalla relativa richiesta, da parte dell’Agenzia del demanio o dell’Agenzia del territorio, secondo le rispettive competenze».
E seguendo le tendenze evolutive già richiamate si prevede in questo percorso la presenza di un soggetto “facilitatore” di queste modalità di dismissione. L’art. 6, c. 2, infatti, prevede che la Cassa depositi e prestiti, secondo le modalità di cui all’articolo 3, c. 4-bis, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, possa partecipare a tali fondi[6].

5. I beni trasferiti dal d.lgs. n. 85/2010
L’art. 3, c. 1, prevede che con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri siano trasferiti alle regioni, unitamente alle relative pertinenze, i beni del demanio marittimo di cui all’articolo ed i beni del demanio idrico. Alle province, unitamente alle relative pertinenze, saranno trasferiti invece i beni del demanio idrico limitatamente ai laghi chiusi privi di emissari di superficie che insistono sul territorio di una sola provincia, e le miniere che non comprendono i giacimenti petroliferi e di gas e le relative pertinenze nonché i siti di stoccaggio di gas naturale e le relative pertinenze.
L’art. 5 invece indica la tipologia di beni immobili statali (e i beni mobili statali in essi eventualmente presenti che ne costituiscono arredo o che sono posti al loro servizio) che sono trasferiti a comuni, province, città metropolitane e regioni. Oltre ai richiamati beni appartenenti al demanio marittimo ed al demanio idrico[7], sono richiamati gli aeroporti di interesse regionale o locale appartenenti al demanio aeronautico civile statale e le relative pertinenze, diversi da quelli di interesse nazionale, le miniere e le relative pertinenze ubicate su terraferma, gli altri beni immobili dello Stato, ad eccezione di quelli esclusi dal trasferimento.
E’ quindi dalle esclusioni che si comprende la vastità dell’attribuzione di cui stiamo discorrendo.

6. Esclusioni dal trasferimento
Il decreto individua tipologie di beni di rilevanza nazionale che non possono essere trasferite. Tra queste, in ogni caso, rientrano i beni costituenti la dotazione della Presidenza della Repubblica (art. 5, c. 5), e poi (così dispone l’art. 5, c. 2)  «gli immobili in uso per comprovate ed effettive finalità istituzionali alle amministrazioni dello Stato, anche a ordinamento autonomo, agli enti pubblici destinatari di beni immobili dello Stato in uso governativo e alle Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, e successive modificazioni; i porti e gli aeroporti di rilevanza economica nazionale e internazionale; i beni appartenenti al patrimonio culturale, salvo quanto previsto dalla normativa vigente; i beni oggetto di accordi o intese con gli enti territoriali per la razionalizzazione o la valorizzazione dei rispettivi patrimoni immobiliari sottoscritti alla data di entrata in vigore del presente decreto; le reti di interesse statale, ivi comprese quelle energetiche; le strade ferrate in uso».
Da questa disposizione emerge quindi innanzitutto che i beni appartenenti al patrimonio culturale sono stati esclusi dal trasferimento (interpretando in questo senso il disposto dell’ultimo periodo dell’art.19 della l. n. 42/2009 relativamente al “patrimonio culturale nazionale”), lasciando però salva la procedura prevista dal codice dei beni culturali, in particolare, l’art. 54 c. 3 che prevede che i beni elencati nei commi precedenti – e pertanto anche i «monumenti nazionali» – possano costituire «oggetto di trasferimento tra lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali».
Riguardo agli altri beni, quelli individuati nella categoria che fa riferimento agli immobili «in uso alle amministrazioni statali per comprovate ed effettive finalità istituzionali», il sopracitato disposto del decreto deve essere letto assieme al comma successivo che dispone: «Ai fini dell’esclusione di cui al comma 2, le amministrazioni statali e gli altri enti di cui al medesimo c. 2 comunicano, in modo adeguatamente motivato, alla Agenzia del Demanio entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo gli elenchi dei beni di cui richiedono l’esclusione. Entro i successivi trenta giorni, con provvedimento del direttore dell’Agenzia l’elenco complessivo dei beni esclusi dal trasferimento è redatto ed è reso pubblico, a fini notiziali, anche con l’indicazione delle motivazioni pervenute, sul sito internet dell’Agenzia».
In questo modo si avvia una sorta di censimento ragionato del patrimonio dello Stato, dal momento che le varie amministrazioni statali sono tenute a fornire le ragioni, motivandole adeguatamente, per cui ritengono che un determinato bene di proprietà dello Stato non possa essere oggetto di attribuzione agli enti territoriali. L’Agenzia del demanio, che è il soggetto individuato dallo schema di decreto legislativo come deputato a ricevere le suddette documentazioni, provvede poi a rendere pubblici sul proprio sito internet gli elenchi dei beni esclusi e le relative motivazioni pervenute. Si tratta di un’attività non discrezionale dell’Agenzia del demanio, che è funzionale a rendere trasparente le motivazioni che sono pervenute riguardo alla necessità di mantenere la proprietà del bene. Si avvia così anche un’operazione di accountabilty che impegna le singole amministrazioni a rendere pubblicamente conto delle ragioni per cui un determinato immobile viene trattenuto in proprietà.

7. Prime conclusioni
È solo dall’effettiva e puntuale attuazione che si darà alle disposizioni legislative esaminate che potrà darsi un giudizio avvertito sulla reale portata della riforma. Sin da ora si segnala l’assoluta carenza nel disegno legislativo di concreti strumenti che possano assicurare – pur in un contesto “federale”- la concreta valorizzazione del demanio e del patrimonio pubblico, al di là delle pompose enunciazioni contenute nei primi articoli del decreto.
Il timore che si avverte dal complesso delle disposizioni passate in rassegna è che gli enti locali vedano questa riforma più che come una storica occasione per l’assunzione di dirette responsabilità nella gestione dei beni pubblici ubicati nei rispettivi territori[8], come una occasione insperata di far cassa in un momento di eccezionale scarsità di risorse trasferite e di accresciute esigenze di assistenza sociale in ragione della non sopita crisi congiunturale. Una nuova tragedia dell’interesse comune per i beni pubblici[9].
Il timore, in sostanza, è che la possibilità di dismissione dei beni del demanio statale trasferiti rappresenti una non rinunciabile occasione di spesa per gli enti territoriali e ciò non tanto (o meglio non solo) per la spesso comprovata inadeguatezza delle Istituzioni locali nell’opera di valorizzazione dei beni che già sono nella loro diretta titolarità, ma per assai concrete esigenze di bilancio. Parafrasando le parole dantesche del Conte della Gherardesca: «Poscia più che l’onor poté il digiuno»[10].

Abstract
Nel dare attuazione alla legge n. 42/2009, il Governo della Repubblica procede ad incastonare un ulteriore tassello del mosaico “federalista” disegnato dall’art. 119 Cost. Dopo l’avvio del c.d. federalismo fiscale, si è passati all’attribuzione agli enti territoriali diversi dallo Stato del patrimonio demaniale statale. L’obiettivo perseguito dal legislatore è evidente, assicurare una maggiore ed autonoma disponibilità di risorse alle Istituzioni del federalismo al fine di garantire ad esse i mezzi necessari per l’esercizio delle funzioni politico amministrative che il nuovo disegno costituzionale dell’art. 118 Cost. assegna – in un’ottica di sussidiarietà – agli enti più vicini ai cittadini.
Le disposizioni in esame danno l’avvio ad una vera e propria “devoluzione” del patrimonio dello Stato, ad una dissoluzione del demanio statale in favore dei diversi demani o patrimoni degli enti territoriali che compongono la Repubblica. Il trasferimento avviene a mezzo della intermediazione degli organi amministrativi statali che procederanno nel rispetto dei criteri fissati dal legislatore delegato ed in ogni caso nel rispetto del principio di sussidiarietà.
È solo dall’effettiva e puntuale attuazione che si darà alle disposizioni legislative che potrà darsi un giudizio avvertito sulla reale portata della riforma. Sin da ora si segnala l’assoluta carenza nel disegno legislativo di concreti strumenti che possano assicurare – pur in un contesto “federale” – la concreta valorizzazione del demanio e del patrimonio pubblico, al di là delle pompose enunciazioni di cui agli artt. 1 e 2, paiono preponderanti finalità di dismissione e privatizzazione di parti cospicue di quel patrimonio.

Note

1.  Così M. Antonioli, Il federalismo demaniale – il principio patrimoniale del federalismo fiscale, Padova, 2010.

2.  Non può quindi condividersi l’entusiasmo che proprio sui principi si è avuto modo di leggere in alcuni commenti a caldo, già con riferimento allo schema di decreto legislativo. L. Antonini, Cosa cambia col federalismo demaniale? in Il sussidiario.it, 21 dicembre 2009.

3.  È un timore avanzato ripetutamente e non a torto nei primi commenti al decreto legislativo in esame consegnati agli organi di stampa. Fra i molti si veda A. Zanardi, Federalismo demaniale à la carte, in lavoce.info, 2 febbraio 2010.
In generale su questa evoluzione dalla fine dello scorso secolo si veda il pregevole lavoro di M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, 2004 e, più di recente, Id., Beni pubblici, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, 2006.

4.  Per maggiori approfondimenti sia consentito rinviare al volume I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, Atti del Convegno (Roma, novembre 2006), a cura di A. Police, Collana della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma «Tor Vergata», Milano, 2008 e I beni pubblici tra regole di mercato e interessi generali, Atti del Convegno (Pisa, dicembre 2007), a cura di G. Colombini, Collana dell’Università di Pisa, Napoli, 2009.

5.  Fatta eccezione, a norma dell’art. 2, c. 2, per «Gli enti locali in stato di dissesto finanziario ai sensi dell’art. 244 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, fino a quando perdura lo stato di dissesto, non possono alienare i beni ad essi attribuiti, che possono essere utilizzati solo per finalità di carattere istituzionale».

6.  Sul ruolo di Cassa depositi e prestiti in questo contesto E. Bani, La Cassa depositi e prestiti in I beni pubblici tra regole di mercato e interessi generali, cit., 107 ss.

7.  Ad esclusione dei fiumi di ambito sovraregionale e dei laghi di ambito sovraregionale per i quali non intervenga un’intesa tra le Regioni interessate, ferma restando comunque la eventuale disciplina di livello internazionale.

8. > Si ricorda il bel lavoro di E. Reviglio, Valorizzare il patrimonio locale: ecco il vero federalismo demaniale, in Amm. civ., n. 4/5, 2008, 57.

9.  Il riferimento è allo studio di G. Napolitano, I beni pubblici e “le tragedie dell’interesse comune”, in Annuario Aipda 2006, Atti del Convegno (Venezia, ottobre 2006), Milano, 2007, 125.

10.  Dante Alighieri, La divina Commedia, Canto XXXIII, 73.