Della concorrenza: Adam Smith e Alessandro Giuliani

Il tramite della mia conoscenza con Alessandro Giuliani è stato Riccardo Orestano, la casa di campagna di Collevecchio il luogo di più di un piacevole incontro. Io lo rassicuravo su Don McCloskey e la sua Rhetoric of Economics[1]. Egli mi incoraggiava, con grande tatto, ad andare oltre la lettura della Ricchezza delle nazioni, verso lo Smith filosofo, giurista, storico, anche per meglio comprendere lo Smith padre dell’analisi economica.
Poi lo invitai a spiegare le radici romanistiche della concorrenza in un seminario della Banca d’Italia fra giuristi ed economisti. Pubblicammo il suo intervento nel 1997 sulla Rivista di Storia Economica. In quello stesso fatale anno, per la medesima Rivista, affidammo a Curzio Giannini – uno dei più intelligenti economisti del Servizio Studi, scomparso prematuramente – il commento a Giustizia ed ordine economico. Ne discussi a lungo con Giannini e del suo commento cercherò di tener conto.
Altri diranno del Giuliani filosofo e giurista. Io vorrei rendere testimonianza del significato che alcune sue sollecitazioni hanno assunto per un economista “pratico” come me.
Richiamerò due temi che preludono a un terzo, al quale dedicherei qualche riflessione personale in più. I tre temi sono nell’ordine: metodo e linguaggio dell’economia; “mano invisibile”, ovvero Stato e Mercato; concorrenza.

1. Metodo e linguaggio dell’economia
Giuliani sottolinea che l’economia è scienza sociale: dei rapporti di produzione e distribuzione fra gli uomini riuniti in società.
L’individuo allo stato di natura non esiste: né fanciullino, né homini lupus, né tampoco homo oeconomicus. Secondo un antropologo fra i miei preferiti – Marshall Sahlins – “siamo stati plasmati, corpo e anima, per una esistenza culturale (…) La cultura viene prima della natura”[2], e cultura vuol dire società.
Anche per la frazione degli economisti che nel tempo è divenuta minoritaria non si dovrebbe ridurre la scienza economica a una branca della prasseologia. Ciò, purtroppo, è avvenuto, lacerando la disciplina in due tronconi sempre meno comunicanti al punto da far pensare a due discipline diverse.
Era più che fondato il richiamo di Oskar Lange: “Al posto di una scienza che studia i rapporti economici tra gli uomini, ne è sorta una che ha per progetto il rapporto dell’uomo – Robinson Crusoe – e non le cose”[3].
Adam Smith era stato invece il fondatore di quella prima e diversa scienza, non a caso detta economia ‘politica’.
Smith affida la tenuta di una società olistica all’equilibrio, mediato dal diritto, fra etica ed economia, fra interesse personale e alterum non laedere. La stessa felicità individuale per lui sorge soprattutto dall’essere apprezzati nella società: “sympathy”, ovvero condivisione di sentimenti morali.
È la piena comprensione del grande illuminista scozzese che porta Giuliani a vedere tutta “l’insufficienza dell’homo eoconomicus[4]. “I have no great faith in political arithmetik”, scriveva Smith contro William Petty, e Giuliani pone questa citazione in testa alla III^ sezione del suo maggior libro. Anche nelle nostre conversazioni sul saggio di McCloskey emergeva netta la sua freddezza verso il modernismo degli economisti neoclassici. Per essi, il realismo degli assunti e il ‘peso’ degli argomenti conta assai meno della confutabilità statistica e della capacità previsiva delle teorie. Contro questo orientamento già negli anni Venti del Novecento aveva vanamente avvertito un neoclassico critico come Frank Knight: “Siamo spinti a essere ‘scientifici’ alla maniera delle scienze di laboratorio, a dedicarci alla osservazione di ‘fatti’ a guardarci dal generalizzare e da ogni proposizione che non si presti alla verifica empirica”[5].
L’invito di metodo di Giuliani, implicitamente esteso agli economisti, è chiaro: “Ad ogni forma di oggettivismo, scientismo, positivismo potremmo ancor oggi contrapporre lo smithismo, inteso come metodologia delle scienze sociali”[6]. Cuore dello smithismo è il distinguere per meglio ricollegare – non per separare – l’economia e le altre discipline dell’analisi sociale.
Giuliani, in questo senso, avrebbe salutato con favore almeno due sviluppi recenti dell’analisi economica[7]. Il nesso fra la teoria e la storia si è fatto più stretto. Inoltre, l’indagine sulla crescita economica – sulla ‘ricchezza delle nazioni’, la questione centrale, sollevata da Smith nel 1776 – si sforza sempre più di integrare la triade delle determinanti economiche della crescita – Risorse, Efficienza, Progresso tecnico – con un’altra triade – Istituzioni, Politica, Cultura – risalente allo strato più profondo del corpo sociale[8].
Si ripropone così, nel concreto della ricerca empirica e storica, la figura ideale di un pensatore come Smith: economista, anche perché filosofo, storico, giurista e, non ultimo, linguista.
Per Giuliani, come per Smith, il linguaggio dell’economia non può ridursi agli algoritmi – pur preziosi – della matematica e della statistica, alla ‘political arithmetik’. Un linguaggio vale nella misura in cui trasmette pensieri convincendo altri: i chierici, in primo luogo, i laici, se possibile. Le parole chiave sono due: conversazione e persuasione. Ha ragione Mark Perlman: “Gli economisti (…) sono, al fondo, dei persuasori”[9].

Ottimo matematico, teorico originale della probabilità, e al tempo stesso maestro della lingua inglese, Keynes nel 1931 riunì alcuni dei suoi scritti più controversi, eterodossi rispetto al pensiero dominante, come Essays in Persuasion. All’apice dell’impegno teorico, così motivò l’aver scelto di scrivere nella lingua madre, con minima matematica, il suo capolavoro, la General Theory del 1936 forse il più influente trattato d’economia dopo la Ricchezza delle nazioni: “Quando usiamo il linguaggio ordinario (“ordinary discourse”) non manipoliamo alla cieca; sappiamo in ogni momento cosa le parole significano; serbiamo nel retro della nostra mente le necessarie riserve e qualificazioni, e le integrazioni che apporteremo in un momento successivo (…) Una parte troppo grande della analisi economica recente, detta matematica, è solo un fritto misto (“concoction”)”[10].
Diversi anni fa, con l’aiuto di un’amica giornalista, raccolsi in una antologia saggi di economisti italiani. La scelta era basata anche sulla qualità della scrittura, dell’uso della lingua vagliato altresì da specialisti quali Cesare Cases e Tullio De Mauro[11]. I sei tratti che costituiscono la griglia stilistica proposta da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane[12]– Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità, Consistency – sono tutti presenti nelle pagine più belle degli economisti italiani. Sono quasi tutti riuniti nello scrittore migliore: per me, Umberto Ricci, per Cases “la grande sorpresa e novità di questa antologia”[13].
Per Smith, come per Giuliani, come per McCloskey è la retorica l’arte capace di ricondurre a rigore di metodo il consapevole uso dei linguaggi più persuasivi. Non la retorica – insiste Giuliani sin dal saggio sulle Belles Lettres di Smith – come “teoria della forma ornata”, ma come “stile piano e semplice”, “branca della dialettica logicamente impegnata”. Per Giuliani, “alla base della retorica classica vi era una logica dell’opinione, del verosimile, del probabile: un metodo di indagine nel settore dove non è possibile una conoscenza certa, ma bisogna accontentarsi di una ‘verità probabile’”. Il settore è quello della scienza sociale. Segnatamente, nel giuridico e nell’economico è raro poter ricavare una verità per mezzo di un’analisi di tipo matematico, alla maniera di Cartesio, del razionalismo di Hobbes, dei fisiocrati come Quesnay (dai quali ultimi Smith, al pari del nostro Giuliani, avendoli conosciuti, prese le distanze). Qui, secondo Giuliani, siamo nel mondo della opinio: “(dal punto di vista dialettico) un giudizio, che ha accettato un corno del dilemma dopo aver sottoposto a prova e confutazione una questione sempre posta in forma contraddittoria”.
Come l’ennesima, recente, grave, tuttora irrisolta crisi finanziaria conferma, e come sentenziava Mises, prevedere gli eventi economici “trascende il potere di ogni essere mortale[14]. Bene argomentando, possiamo però spiegare gli eventi economici, nel senso di persuaderci, e persuadere, che una interpretazione dei nessi causali è più di altre convincente e utile per tentare di governare quegli stessi eventi.

2. La “mano invisibile”
Nonostante … Lehman Brothers, molti economisti pensano ancora che, se liberi e autoreferenziali, i mercati siano pressoché perfetti nel raccogliere, sintetizzare e trasmettere attraverso i prezzi – “una sorta di simbolo”, affermava Hayek[15] – l’informazione necessaria e sufficiente affinché la razionalità-ottimizzante degli homines oeconomici – produttori e consumatori – si esprima al meglio.
Altri economisti pensano, invece, che solo le regole e l’intervento pubblico possano attenuare ovvero compensare i fallimenti del mercato.
È la questione della “mano invisibile” di Smith.
Staccando l’espressione dal contesto dei suoi scritti, sempre più e troppo a lungo Smith è stato interpretato come il primo campione del liberismo, come un mercatista spinto.
Avendo studiato a fondo tutto Smith, Giuliani è stato invece tra i primi a sconsigliare una interpretazione siffatta, a vedere nella mano invisibile “una metafora da rivisitare”.
La rivisitazione più colta ci è stata offerta da Emma Rothschild in un bellissimo libro del 2001[16], di cui Giuliani non poté tener conto. Con scrupolo filologico la Rothschild ha chiarito che nell’arco di tutti i suoi scritti Smith usa l’espressione ‘mano invisibile’ soltanto tre volte. Lo fa senza attribuirvi soverchio rilievo. Secondo la Rothschild, Smith “si prende gioco dei politeisti che credevano nella mano invisibile di Giove nella History of Astronomy; nella Teoria dei sentimenti morali e nella Ricchezza delle nazioni si diverte a spese di individui guidati dalla mano invisibile (…) così come si diverte a spese di quei filologi che credono in un ordine divino”[17].
Al di là della fortunata ma incompresa metafora, Smith è tutt’altro che un negatore del ruolo economico dello Stato. Nella Ricchezza delle nazioni al Sovrano è dedicato il Libro Quinto, un quarto dell’intera opera. Vi si afferma, non la marginalità ma la centralità, crescente, dei doveri dello Stato. Quella di Smith non è la salomonica conclusione da sintesi neoclassica del più illustre economista contemporaneo, fino a pochi mesi fa vivo e attivo, Paul Samuelson: “Le due metà, mercato e Stato, sono indispensabili per il buon funzionamento del sistemaeconomico come economia mista”[18].

Secondo Smith non si tratta solo di funzionamento, migliore o peggiore: senza Stato una economia di mercato, semplicemente, non può esistere. Ciò non solo e non tanto perché solo lo Stato può farsi carico della difesa verso l’esterno, delle grandi infrastrutture e dell’offerta di beni non rivali e non escludibili, “pubblici”. Dovere essenziale dello Stato è per Smith “proteggere, per quanto possibile, ogni membro della società dall’ingiustizia dall’oppressione di ogni altro membro della società stessa, cioè il dovere di instaurare una esatta amministrazione della giustizia”[19].
Lo Stato non deve interferire nei rapporti contrattuali in cui i cittadini volontariamente entrano. Non deve orientare gli usi privati delle risorse. Ma – interpreta Giuliani – spetta allo Stato la “giuridicizzazione della moralità dell’ordine economico, e dell’etica degli affari”[20]. Solo le istituzioni giudiziarie, solo il diritto, possono mediare il legame fra commerci e civiltà. Un giudice imparziale deve sancire l’adempimento delle obbligazioni e punire, financo con la pena di morte, l’immoralità della bancarotta.
La subordinazione del diritto all’economia era inconcepibile per Smith. È inaccettabile per Giuliani, nella misura in cui è avvenuta attraverso la moderna ‘analisi economica del diritto’, a mio avviso viziata anche dalla sua dipendenza da una teoria economica soltanto, quella marginalistica[21].
A Giuliani, Smith sembra conciliare il primato del common law, nella sua capacità flessibile di corrispondere al mondo degli affari, con la propensione del civil law ad “anteporre la trattazione del government a quella dei diritti individuali”[22].
La cultura giuridica contemporanea è divisa su questa ipotesi di riconciliazione di diritto comune e civile avanzata da Giuliani.
Indubitabile è che, per Smith, deve esservi un limite all’interesse individuale, che pure costituisce il presupposto della divisione del lavoro, dello scambio, del mercato e quindi della ricchezza delle nazioni: “Nella gara per la ricchezza (… un uomo) può correre più forte (…) per superare i suoi rivali. Ma se dovesse fare uno sgambetto o atterrare uno di loro (vi) sarebbe una violazione della competizione leale”[23]. Il diritto non lo permetterà perché “la società non può sussistere tra coloro che sono sempre pronti a ferirsi e offendersi l’un l’altro (…) La giustizia è il principale pilastro che sostiene l’intero edificio”[24].
Dubito che Amrtya Sen abbia letto Giuliani. Chi l’ha letto trova solo scontate conferme dell’analisi di Giuliani in una recentissima valutazione espressa da Sen: “L’interpretazione standard del pensiero smithiano (…) filtrata nella cosiddetta ‘politica della scelta razionale’ e nella corrente dominante dell’analisi economica del diritto è completamente fuori strada”[25].

3. L’etica della concorrenza
L’utile può coincidere con il giusto se, e solamente se, è rispettata la condizione che la libera concorrenza non ceda al monopolio. Smith e Giuliani pervengono a questa conclusione attraverso la filosofia negativa della giustizia basata sull’alterum non laedere.
Una tesi di Giuliani – da sottoporre a rinnovata verifica – è che la “dottrina dei fondamenti logici, etici e giuridici della libertà nella concorrenza” sia giunta a noi attraverso la recezione del diritto romano a partire dal XII secolo grazie alla scuola dei glossatori di Bologna[26].
La filosofia dell’umanesimo italiano mira a vedere nei monopolia una distorsione “che trascende la tutela della libertà economica del singolo, in quanto investe i valori giuridici (come la paritas e la aequitas) che sono costitutivi dell’ordine isonomico”, inteso, quest’ultimo, come eguaglianza fra governanti e governati.
Smith è solo un po’ più … economista di Giuliani sulla concorrenza. Vede in maggior misura concorrenza e monopolio come meccanismi – ideale il primo, perverso l’altro – del modus operandi di una economia di mercato[27]. La concorrenza favorisce, il monopolio ostacola, il prevalere tendenziale di un unico prezzo dei beni e di un unico saggio di profitto sul capitale. Il monopolio per Smith è “nemico della buona amministrazione, (…) nocivo per la popolazione”; è quindi causa di inefficienza e di iniquità; si giustifica, temporaneamente, solo “in base agli stessi principi con cui viene concesso all’inventore un analogo monopolio su una nuova macchina, e all’autore quello su un nuovo libro”[28].
Al di là delle riserve di merito che possono aversi su questa anticipazione schumpeteriana da parte di Smith, ribadisco due considerazioni personali in tema di concorrenza.
La prima è di sentirmi confortato da Alessandro Giuliani e dai suoi amati glossatori nel valorizzare i contenuti etici, isonomici, democratici del concetto di concorrenza. Ciò, sino a far coincidere il rifiuto del monopolio con il rifiuto delle vie facili al profitto, categoria a mio parere più ampia di quella di monopolio come mera forma di mercato. Ad esempio, dai primi anni Novanta all’attuale recessione le vie facili al profitto hanno contribuito ad abbattere l’innovazione produttiva in Italia. Il tasso di profitto si è mediamente innalzato rispetto agli anni Settanta e Ottanta, mentre la crescita della produzione e della produttività scemava, sino ad annullarsi.

La mia seconda considerazione muove dalla prima. Attiene alla promozione della concorrenza e al valore della concorrenza nell’ordinamento italiano, nell’esperienza giuridica italiana.
La legge antitrust del 1990 evidentemente ha fallito, se la concorrenza è diminuita, come indica la coesistenza di più profitti e minore produttività. La legge va meglio applicata. Soprattutto, va riscritta, rispettando lo spirito, ma superando la lettera, del Trattato europeo.
L’azione antitrust va svolta secondo priorità. Non deve rispondere, demagogicamente, alle pressioni casuali e settoriali di gruppi di consumatori interessati al prezzo dei beni più a valle nella domanda finale. Dovrebbe assicurare concorrenza, primariamente nei settori strategici dell’economia: i settori che producono inputs “base”, quelli che entrano direttamente o indirettamente nella produzione di tutte le merci[29].
Quanto alla riscrittura della legge, la promozione della concorrenza – non può tutelarsi ciò che non esiste ancora! – dovrebbe riferirsi al complesso delle forze che, al di là delle forme di mercato, determinano la pressione competitiva esercitata sui produttori.
Bisogna minare ogni forma di difesa delle posizioni precostituite: monopoli, abusi di posizione dominante e intese (le sole fattispecie attualmente previste dalla legge), certamente, ma anche sussidi, protezioni, collusioni fra capitale e lavoro, intrecci fra industria e finanza, comportamenti opportunistici.
L’impegno contro le vie facili al profitto – Pantaleoni e Schumpeter parlavano di minaccia concorrenziale per l’impresa – deve aver presenti financo le determinanti macroeconomiche degli utili aziendali. Spesa pubblica larga e incontrollata, tasso di cambio lasco e cedevole, salario ristagnante gonfiano il profitto e dissuadono l’impresa dal perseguirlo attraverso le vie maestre della efficienza e della innovazione.
In ultima analisi, va contrastata l’etica della irresponsabilità. Concorrenza è piena assunzione di responsabilità da parte dell’impresa. Il valore della concorrenza – la sua etica – coincide con produttori che facciano conto solo su se stessi, escludano di ricercare scorciatoie al profitto, non pensino di trasferire ad altri le proprie perdite.
In questo spirito, sarebbe a mio avviso opportuno scolpire tali concetti – che non sono prescritti dal Trattato europeo – nella Costituzione repubblicana. Il primo comma dell’art. 41 – del quale tanto spesso si discute a sproposito – potrebbe utilmente recitare: “L’iniziativa economica privata è libera. Chi la intraprende ne è esclusivo responsabile. Deve svolgersi in condizioni di concorrenza”. O qualcosa di simile …
Suscita in me pratici pensieri come questi il contributo analitico di Alessandro Giuliani, e segnatamente il suo ultimo libro. “Un affascinante saggio interdisciplinare (…) sulle connessioni tra diritto, etica ed economia”, nella valutazione, che faccio mia, di Curzio Giannini.
Lo schianto della finanza anglosassone nel 2008-2009 ha forse incrinato la fede spesso acritica e totalizzante nella teoria economica neoclassica – anti-smithiana, anti-classica, anti-keynesiana – sinora dominante[30].
La lettura di Giuliani e la rilettura di Smith alla luce di Giuliani possono essere davvero d’ausilio agli economisti, in modo speciale nell’attuale fase di ripensamento che la loro disciplina attraversa.

Note

1.  McCloskey, D.N., Rhetoric of Economics, University of Wisconsin Press, Madison, 1985, seguito da Mc Closkey, D.N., Knowledge and Persuasion in Economics, Cambridge University Press, Cambridge, 1994.

2.  Sahlins, M., Un grosso sbaglio, Eleuthera, Milano, 2010, p. 120.

3.  Lange, O., Economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1962, p. 237.

4.  Giuliani, A., Giustizia ed ordine economico, Giuffrè, Milano, 1997, p. 71.

5.  Knight, F.H., The Ethics of Competition and other Essays, Harper, New York, 1935, p. 76.

6.  Giuliani, A., Le ‘Lectures on Rethoric and Belles Lettres’ di Adamo Smith, inRivista Critica di Storia della Filosofia”, 1962, p. 335.

7.  Ciocca, P., Un modo di produzione da salvare?, mimeo, Roma, 2010.

8.  Musu, I., Crescita economica, Il Mulino, Bologna, 2007.

9.  Perlman, M., Review of T. Hutchison’s Knowledge and Ignorance in Economics, in “Journal of Economic Literature”, 1978, p. 528.

10.  Keynes, J.M., The General Theory of Employment Interest and Money, Macmillan, London, 1936, pp. 297-298.

11.  Bocciarelli, R. – Ciocca, P. (a cura di), Scrittori italiani di economia, Laterza, Bari, 1994.

12.  Calvino, I., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano, 1988.

13.  Bocciarelli-Ciocca, Scrittori, cit., p. 403.

14.  Mises, L. von, Human Action, Yale University Press, New Haven, 1949, p. 867.

15.  Hayek, F.A. von, The Use of Knowledge in Society, in “American Economic Review”, 1945, p. 527.

16.  Rothschild, E., Economic Sentiments: Adam Smith, Condorcet and the Enlightment, Harvard University Press, Cambridge, 2001 (ed. italiana Il Mulino, 2003). Solo un brevissimo sunto del capitolo sulla “Mano invisibile e sanguinaria” era apparso in precedenza (“American Economic Review”, 1994, pp. 319-322). Si veda anche il dibattito sull’edizione italiana del libro fra Carlo Galli, Stefano Zamagni, Pierluigi Ciocca e la stessa autrice in “Rivista di Storia Economica”, 2004, pp. 217-252.

17.  Rothschild, op. cit. (ed. italiana), pp. 178-179.

18.  Samuelson, P.A. et al., Economia, XIX ed., Mc-Graw Hill, Milano, 2009, p. 38 (corsivo mio).

19.  Smith, A., La ricchezza delle nazioni, Newton Compton, Roma, 1995, p. 585.

20.  Giuliani, Giustizia, cit., p. 216.

21.  Ciocca, P. – Musu, I. (a cura di), Economica per il diritto, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.

22.  Giuliani, Giustizia, cit., p. 193.

23.  Smith, A., Teoria dei sentimenti morali, Rizzoli, Milano, 1995, p. 206.

24.  Ibidem, p. 211.

25.  Sen, A., Perché bisogna combattere gli stereotipi su Adam Smith, in“La Repubblica”, 27 maggio 2010, p. 42.

26.  Giuliani, A., Le radici romanistiche della dottrina italiana della concorrenza, in “Rivista di Storia Economica”, 1997, p. 107.

27.  Per una lettura in tal senso del pensiero di Smith sulla concorrenza cfr. Stigler, G.J., Essay in the History of Economics, Princeton University Press, Chicago, 1965, Cap. 8.

28.  Smith, La ricchezza, cit., p. 619.

29.  Sraffa, P., Produzione di merci a mezzo di merci, Einaudi, Torino, 1960, p. 10.

30.  Per un caso importante di “conversione” da parte di un cultore della law and economics, scuola di Chicago, si veda Posner, R.A., A Failure of Capitalism, Harvard University Press, Cambridge, 2009.