La Filantropia: un affare per lo stato

1. Come tutti sanno, il sistema di finanziamento delle istituzioni culturali italiane – dalle accademie alle università, dai teatri ai musei – si svolge per la massima parte attraverso un unico canale: lo Stato ed il suo bilancio. In termini sostanzialmente limitati nel finanziamento sono coinvolti anche gli enti locali, anzitutto i comuni. I finanziamenti privati hanno un ruolo marginale, con qualche eccezione, come ad es. per le fondazioni bancarie. La legge tributaria italiana dà un messaggio molto significativo a questo proposito: da qualche anno ai cittadini è data la possibilità di destinare un risibile 0,005 del loro reddito ad enti di cui sia riconosciuta la rilevanza sociale, le Organizzazioni non lucrative di utilità sociale, ONLUS. Il loro numero è tale, che il contributo che giunge a ciascuna è, in media, modestissimo.

Questo fenomeno è molto singolare. Nei secoli scorsi le donazioni private hanno avuto un peso grandissimo nella vita sociale. Prima beneficiaria è stata certamente la Chiesa, sia come istituzione centrale, sia nelle sue strutture territoriali; ma grandi risorse sono state destinate anche a quelle che un tempo si chiamavano opere pie, e comprendevano ospedali, orfanotrofi, scuole, case per anziani, etc. Lo strumento di elezione per erogare questi “contributi” era il testamento: continuamente accadeva che qualche ente benefico e/o culturale venisse istituito erede o fosse destinatario di lasciti; non infrequenti erano le donazioni di famiglie facoltose, come tante lapidi testimoniano.

Tutto ciò si è praticamente perso.

2. Non è facile individuare le ragioni di questo esaurimento della filantropia privata in favore di istituzioni in senso lato pubbliche. Sono molteplici, di diversi ordini. Qui è sufficiente fissarne due, che hanno specifico rilievo per il tema che si va discutendo.

La prima è la disciplina civilistica delle donazioni. Chi ha guadagnato nel corso degli anni è solo limitatamente libero di disporre del suo patrimonio. Può acquistare qualsiasi cosa, lanciarsi in viaggi ed avventure costosissimi, bruciare insomma i suoi averi senza che nessuno possa protestare ovvero, in concreto, impedirglielo. Ciò che non può fare è donare liberamente, perché i suoi eredi diretti (i legittimari) potrebbero pretendere dal donatario il conferimento dei beni eccedenti la quota c.d. disponibile. Come è palese, questo induce una pesante componente di incertezza in qualsiasi donazione di rilievo che il filantropo voglia fare.

A questo si aggiunge una componente di vanità. Capitano circostanze favorevoli in cui non ci sono legittimari che paralizzano la volontà del filantropo. L’esperienza mostra che tra i donanti prevale una tentazione: anziché contribuire al funzionamento di entità esistenti – e quindi cadere in qualche modo nell’anonimato – crearne una nuova, con il nome proprio o della famiglia. Sempre l’esperienza insegna che questo è un errore gravissimo, perché molto difficilmente la volontà del donante, maturata e formalizzata nello statuto nell’anno di costituzione della fondazione (o in un vincolo di destinazione imposto per l’uso dei cespiti patrimoniali donati ad un ente preesistente), continuerà ad essere attuale 25 o 50 anni dopo.

3. Ma le istituzioni non profit, come si dice, non possono vivere solo di donazioni imponenti. Hanno bisogno di un continuo sostegno per le spese correnti, oltre che per organizzare manifestazioni significative legate alle loro finalità. Qui sta il problema, perché in linea di fatto i finanziamenti sono oggi quasi esclusivamente statali e, in un periodo di croniche difficoltà di bilancio, vengono erogati con il contagocce. I privati non hanno alcuna propensione ed alcun interesse a sostenere enti ed istituzioni, cui pure sono culturalmente vicini. La ragione di fondo, cui si affianca un mutamento di costumi che essa ha indotto, è che le donazioni sono possibili solo sul reddito al netto delle imposte: cioè, assumendo per comodità un’aliquota del 50%, sulla metà del reddito lordo.

Questo ha un triplice effetto negativo, sul quale ci si deve brevemente fermare.

a) Dal punto di vista del cittadino. Nessuno è mai particolarmente felice quando deve firmare il modello F24 e lasciar drenare il suo conto corrente per quanto manca a raggiungere l’aliquota fiscale media applicabile al complesso dei suoi redditi. Spesso – e malvolentieri – ne esce con le ossa rotte se non si sono fatti debiti accantonamenti nel corso  dell’anno. È molto difficile aver voglia di donare qualche cosa, salvo che si tratti di cifre insignificanti. In altre parole, limitare al reddito residuo dopo l’imposizione fiscale il reddito sul quale far gravare atti di filantropia ha l’effetto di dissuadere i contribuenti in maniera molto forte dal procedere a donazioni “ulteriori”, dopo il “regalo” fatto allo Stato con le imposte;

b) Dal punto di vista dello Stato. Non vi sono dubbi che lo Stato percepisca l’imposta calcolata sull’intero reddito imponibile. Se il reddito imponibile è pari a cento euro, incassa il 50%, dunque cinquanta. Ma con questo gettito fiscale deve finanziare le istituzioni culturali: supponiamo con il 10% dei tributi incassati. Poiché il 10% di cinquanta è cinque, dopo aver finanziato le istituzioni culturali allo Stato rimangono 45 euro.

È molto interessante vedere che cosa succederebbe se lo Stato avesse ammesso la detrazione delle donazioni in misura pari al 10% del reddito. Il reddito imponibile sarebbe 90 euro, che dunque darebbe un gettito di 45: identico a quello che gli rimane dopo aver finanziato le istituzioni culturali. Queste però avrebbero ricevuto 10 euro, anziché 5. E se lo Stato volesse fare concorrenza ai privati e dare alle istituzioni di cultura 10 euro, come fanno i filantropi, ahinoi, dovrebbe alzare al 20% la quota del gettito tributario da destinare alla cultura;

c) Dal punto di vista delle istituzioni di cultura. Ricevono dallo Stato 5 euro, anziché 10. Meglio di niente, come è ovvio. Ma sono soldi incerti, perché dipendono dal bilancio dello Stato e quindi come dall’andamento dell’economia, così dal complesso generale delle spese cui lo Stato va incontro. Sono soldi concessi, anno per anno, con tutto quel che questo concedere pubblico comporta.

Sennonché questo non basta. Il punto più insidioso e delicato è che le istituzioni di cultura non possono fare campagne di “fund raising”, come si dice. Non lo possono fare, per l’insuperabile ragione che nessuno vi ha vero interesse: una donazione costa il doppio dell’ammontare donato. Si possono fare certo piccole campagne, per raccogliere tante piccole donazioni. La convenienza è però dubbia, perché i costi lievitano, in misura più o meno inversamente proporzionale alla misura media della donazione cercata. Neppure ha un significato forte il rilancio dei programmi, perché per quanto vengano migliorati si scontrano sempre con l’ostacolo dell’indetraibilità fiscale delle donazioni.

4. La conclusione è relativamente semplice. È in gioco ormai la sopravvivenza di istituzioni di alta cultura, che dipendono finanziariamente quasi solo dallo Stato. È chiaro che in un periodo difficile come questo che stiamo vivendo la istituzioni di alta cultura sono l’anello debole della catena – ovvero, le più esposte al rischio di essere definanziate. Appare dunque necessario avviare un dibattito per riaffermare la dignità della nostra storica vocazione alla filantropia e farla rinascere, secondo lo spirito dei tempi. Occorre stimolare la concorrenza tra istituzioni nella ricerca del miglior prodotto da offrire sul mercato dei donatori; occorre far cadere il mito che lo Stato è l’unico soggetto titolato a distribuire risorse ad enti che producono beni difficilmente commerciabili come la ricerca e la cultura. Passo decisivo in questi sensi – concorrenza tra istituzioni, apertura del diritto a contribuire a chiunque abbia l’orgoglio di farlo – è introdurre il principio che le donazioni a favore di istituzioni di alta cultura sono fiscalmente detraibili.

Contributo collegato:

Una piccola, grande soddisfazione, di Filippo Satta –  mercoledì, 20 aprile 2011