L’Economia sociale di mercato: una visione liberale

Contributo al volume Un austriaco in Italia, saggi in onore di Dario Antiseri, 2010

1. La Soziale Marktwirtschaft ed il liberismo
La Soziale Marktwirtschaft rappresentò la spina dorsale della politica economica della Repubblica Federale Tedesca sin dagli anni dell’immediato secondo dopoguerra. Infatti, le politiche economiche messe in atto da politici come Konrad Adenauer e Ludwig Erhard erano esplicitamente guidate dalle idee elaborate da un gruppo di eminenti economisti e pensatori sociali, tra i quali vi erano Alfred Mueller-Armack, Wilhelm Roepke, Vera Lutz, Walter Eucken, e lo stesso Erhard. Questo fatto di per sé è del tutto notevole, perché è un esempio della verità di quanto credevano due pensatori di diverso e quasi opposto sentire come John Maynard Keynes e Friedrich von Hayek, ovvero che a guidare veramente le vicende umane siano le idee.
Quella che venne chiamata ESM è il risultato della elaborazione teorica di due gruppi di intellettuali. Il primo di essi è noto come “Scuola di Friburgo”, e le sue figure principali furono quelle di Eucken, Franz Boehm, Lutz, e Fritz Meyer. Essi erano noti anche come “neo-liberali”. Un secondo gruppo è rappresentato da Mueller-Armack, Alexander Rustow, e Wilhelm Roepke. Roepke esercitò una notevole influenza anche su diverse componenti del pensiero cattolico e del pensiero liberale italiano degli anni cinquanta. L’espressione Soziale Marktwirtschaft fu coniata da Mueller-Armack nel 1946.
Il fatto di dover costruire istituzioni politiche ed economiche del tutto nuove dopo il totalitarismo nazista ebbe senz’altro una influenza notevole sulla maniera in cui i pensatori della ESM concepirono la questione della “spontaneità” delle istituzioni dell’economia di mercato. Un tema, questo, che da sempre costituisce un discrimine fondamentale tra le diverse visioni del liberalismo.
Una delle linee fondamentali del pensiero economico liberale anglosassone ritiene che il mercato si caratterizzi per il suo carattere “spontaneo”, in un duplice senso. In primo luogo, perché la tendenza alla cooperazione ed allo scambio è una caratteristica naturale dell’uomo. In secondo luogo, perché le sole situazioni efficienti sono quelle che risultano dal libero gioco dell’offerta e della domanda. Qualsiasi intervento legislativo che alteri questo gioco equivale ad una distorsione del mercato. Il solo ruolo attribuibile allo Stato è quello di garante dei diritti di proprietà, e la sola attività legislativa utile all’economia di mercato è la rimozione dei privilegi di cui godono certi gruppi, e delle barriere tariffarie.
Nei confronti del liberismo tradizionale, l’ESM avanza in effetti tre ordini di critiche.
In primo luogo, che un sistema economico e monetario senza regolamentazioni può rivelarsi instabile. Questo comporta la necessità dell’intervento dello Stato nella regolamentazione della moneta e del credito. Tuttavia i pensatori dell’ESM differivano tra loro riguardo alla questione se questa funzione dello Stato dovesse estendersi alle politiche anticicliche. Eucken, ad esempio, fu sempre un avversario delle politiche economiche discrezionali.
In secondo luogo, che il mercato lasciato a se stesso può appunto generare monopoli e cartelli, i quali sono altrettanto dannosi per la libertà del controllo diretto dello Stato sull’economia. Dall’esperienza della cartellizzazione dell’economia tedesca dell’anteguerra i pensatori della ESM ricavarono la conseguenza che non vi è soltanto il potere dello Stato che deve venire contenuto per avere un mercato effettivamente libero. Vi è anche un potere economico esercitato dai privati, che va egualmente contenuto. Di qui la grande rilevanza data alla politica della concorrenza, come vedremo più avanti.
In terzo luogo, che un puro laissez faire può condurre ad una situazione che non è accettabile dal punto di vista della giustizia sociale, e ciò in un duplice senso. Primariamente, che la remunerazione del lavoro salariato in funzione della produttività marginale può non essere giusta nei confronti di specifici individui, e secondariamente che la distribuzione complessiva del reddito può essere inaccettabile dal punto di vista sociale.
Prese in sé, queste critiche sembrerebbero condurre la ESM su di un percorso coincidente con le classiche visioni socialdemocratiche e redistribuzioniste. Tuttavia la situazione è decisamente diversa. La critica del laissez faire di stampo ottocentesco non conduce affatto i pensatori della ESM ad un “terza via” tra capitalismo e socialismo, come spesso si è affermato. Il loro scopo è invece quello di produrre una visione che riassorba all’interno del liberalismo economico la dimensione morale e sociale.
Probabilmente la migliore caratterizzazione di quale sia l’ordine economico ideale dal punto di vista della ESM venne data da Eucken[1].

Per Eucken il sistema economico deve essere guidato da principi che egli distingueva in “formativi” e “regolativi”.
I principi formativi erano i seguenti:
1. Il primato della politica monetaria. La moneta doveva essere mantenuta stabile, ed isolata dall’influenza politica. Fu questa filosofia dell’ESM ad ispirare direttamente la struttura e gli scopi della Bundesbank, che sono spesso considerati – ed a ragione – come il più importante contributo dato dalla ESM tanto alla teoria della politica economica quanto alla prosperità della Germania.
2. L’apertura del mercato, il cui accesso doveva essere tenuto libero da ogni tipo di restrizioni imposte tanto dallo Stato quanto dai privati.
3. Un efficace sistema di diritti di proprietà. La proprietà privata adeguatamente protetta è la condizione necessaria di un ordine competitivo, e costituisce il legame tra decisioni economiche e responsabilità.
4. La libertà di contratto. L’esistenza della libertà di contratto è la dimostrazione dell’esistenza della competizione economica, della quale è un prerequisito. Questa libertà non si estende ai contratti che restringono la concorrenza, i quali non sono una espressione della libertà medesima ma ne sono una perversione.
5. La sincronizzazione tra controllo delle imprese e responsabilità giuridica. Per Eucken questo principio si giustificava sia in base all’equità, sia in quanto prerequisito del funzionamento di un efficiente sistema concorrenziale. Secondo una tradizione solidamente radicata nel pensiero liberale, egli era fortemente critico del processo generale che conduceva al prevalere del principio della responsabilità limitata. Per quanto riguardava in particolare le imprese pubbliche, che di fatto erano controllate dal management, egli riteneva che fosse essenziale attribuire al management medesimo una diretta responsabilità giuridica personale.
6. La costanza della politica economica. La continuatività della politica economica era un prerequisito affinché gli individui fossero in grado di prendere decisioni economiche razionali, ed affinché li si potesse ritenere legittimamente responsabili delle loro azioni.
A questi principi “formativi” Eucken aggiungeva quattro principi “regolativi”.
Il primo di essi riguardava soprattutto la questione – allora molto sentita – dei cosiddetti “monopoli naturali”. Egli riteneva che i monopoli naturali andassero gestiti da parte di una agenzia indipendente specializzata, che avrebbe dovuto agire in base a principi analoghi a quelli dei  mercati competitivi. Al di là di quelli naturali, i monopoli dovevano essere combattuti da una forte politica a favore della concorrenza.
Il secondo principio era la “politica dei redditi”. Qui Eucken era a favore di una redistribuzione del reddito da attuarsi con una imposta progressiva. La redistribuzione si giustificava sulla base della dimensione sociale del sistema economico. In questo aspetto la ESM si differenziava fortemente dalle posizioni coeve di grandi economisti liberali come Hayek e Milton Friedman, per i quali la progressività dell’imposta era contraria al principio giuridico fondamentale della Rule of Law, ed aveva effetti economici negativi, specialmente sulla accumulazione del capitale e sugli incentivi all’intrapresa ed all’innovazione.
Il terzo principio era quello di un “calcolo economico” che doveva essere effettuato dallo Stato. Non si trattava, ovviamente, della pianificazione socialista, e neanche della pianificazione economica come veniva condotta in quegli stessi anni in Francia, della quale tutti i pensatori della ESM (ed in particolare Roepke) erano fortemente critici. Il calcolo economico riguardava l’internalizzazione dei costi esterni, compresi quelli ambientali. In effetti la preoccupazione che lo sviluppo economico avvenisse in condizioni di rispetto dell’ambiente fu sempre molto forte tra i pensatori della ESM.
Infine, il quarto principio regolativo riguardava il mercato del lavoro. Per Eucken il mercato del lavoro non poteva venire considerato come un sistema autenticamente competitivo. Egli accettava quindi l’esistenza di sindacati come fattore di ordine nel mercato del lavoro, a condizione che il loro comportamento si svolgesse all’interno delle regole dell’economia di mercato. In questo conteso egli accettava anche, come un “male necessario”, la fissazione di minimi salariali.
Lo scopo globale dei principi regolativi era di evitare che il sistema di mercato portasse alla propria autodistruzione. Lo Stato aveva lo scopo di intervenire per preservare la “forma” della struttura economica fondamentale, ma non doveva intervenire nel “processo” di mercato in quanto tale.

2. Un caso esemplare: la politica antitrust
La questione delle politiche a favore della competizione merita qualche osservazione ulteriore, perché essa rappresenta il cuore della filosofia dell’ESM. Come ricordavamo sopra, i pensatori della ESM davano una importanza enorme a quanto era avvenuto nella Germania dell’anteguerra. La decisione della Corte Suprema tedesca del 1897 aveva riconosciuto che gli accordi di cartello erano giuridicamente leciti, e compatibili con la libertà di contratto.Questo significò che essi potevano venir fatti rispettare davanti ai tribunali. Nei decenni successivi la Germania diventò “il Paese dei cartelli”. Nella Grande Depressione i cartelli reagirono alla diminuzione della domanda mantenendo alti i prezzi e licenziando, determinando un alto tasso di disoccupazione che fu una delle cause principali della crisi politica tedesca.

Da quella esperienza i pensatori dell’ESM trassero la conclusione che la sola maniera per evitare che un sistema di mercato si trasformasse nel suo opposto, un sistema dominato da uno Stato intervenzionista (come fu la Repubblica di Weimar) nel quale i processi economici vengono piegati alle opportunità politiche è la presenza di una politica volta a mantenere una effettiva concorrenza. Ma proprio questo obbiettivo richiede che la politica della concorrenza non sia basata sulle decisioni discrezionali dei politici e dei burocrati. La protezione della concorrenza deve essere una parte della struttura giuridica fondamentale di una società. È un elemento essenziale dello Stato di diritto. Questa visione formò la base della costituzione dell’autorità antitrust tedesca, il Bundeskartellamt come agenzia federale indipendente, non soggetta a specifiche istruzioni da parte del governo, e non strutturata gerarchicamente.
È importante comprendere la differenza tra l’approccio alla tutela della concorrenza proprio della ESM, e l’approccio prevalente nella dottrina anglosassone. Come è noto, nel mondo anglosassone prevalgono due approcci diversi alla politica antitrust. Secondo il primo approccio l’economia capitalistica di mercato ha una tendenza innata alla cartellizzazione. Questa tendenza deve essere contrastata da politiche attive antitrust, il cui criterio ispiratore sia quello del raggiungimento della massima efficienza globale del sistema economico – o, in termini più astratti, la massimizzazione dell’utilità globale.
Per il secondo approccio è lo stesso processo di mercato che porta ad erodere le posizioni di monopolio, dominanti, ed i cartelli. Questi esistono ed esercitano la loro influenza negativa soltanto in tanto e per quanto lo Stato interviene a crearli e a proteggerli attraverso una legislazione che garantisce loro privilegi giuridici e sovvenzioni. L’efficienza di un mercato non è mai definibile in termini di quote di mercato, ma delle condizioni di accesso ad esso. Se non esistono restrizioni legali all’ingresso in un mercato, è irrilevante che un certo produttore ne detenga il 10 od il 90 per cento. Una grande quota del mercato significa semplicemente che quel produttore fornisce un bene o un servizio che la gran parte dei consumatori reputa migliori di quelli offerti dai concorrenti.
Questa argomentazione si basa su due considerazioni fondamentali. La prima è di carattere storico. Di fatto, la gran parte dei monopoli (o degli oligopoli) destinati a durare nel tempo sono stati il risultato della protezione legale garantita dallo Stato. Quando questa protezione non vi è stata, il monopolio ha avuto carattere temporaneo. La seconda considerazione è che l’evidenza storica mostra come le politiche antitrust non sono affatto “neutre”. Di fatto, la regolamentazione è sempre diretta a favore di quei gruppi economici e di interesse che sono in grado di esercitare una influenza decisiva sul processo legislativo e quasi-giudiziario. Poiché nessun economista e nessuna autorità è in grado di stabilire in maniera rigorosa quali siano le quote di mercato al di sopra delle quali vi è una posizione di monopolio, o quali siano le pratiche commerciali lesive della concorrenza, lo spazio per le decisioni discrezionali è ben ampio, come hanno d’altronde mostrato le ricerche della scuola di Public Choice.
Anche questo secondo approccio condivide l’assunto della posizione utilitarista. La questione del se, ed eventualmente quale politica antitrust adottare, viene ricondotta alla massimizzazione dell’utilità complessiva.
La posizione dell’ESM è diversa perché sono innanzitutto diversi i presupposti filosofici. La libertà economica di ogni singolo individuo viene infatti posta come un valore in sé, che è indipendente da ogni considerazione sulla massimizzazione della ricchezza. È la stessa visione utilitaristica dell’uomo che viene rifiutata. I pensatori della ESM assumono una prospettiva kantiana nel senso ampio del termine, per la quale gli individui hanno una finalità propria, e non possono essere trattati solo come strumenti per altri scopi. Di conseguenza, la libertà economica di un singolo rappresenta un diritto che deve venire fatto rispettare dallo Stato, e che non può venire conculcato in nome dell’efficienza generale del sistema, considerata nel suo complesso e vista nel lungo periodo.
Curiosamente – ma non troppo – la questione della politica antitrust mostra come la posizione della ESM riguardo i fondamenti della libertà economica sia non molto distante da quella dei libertarians antiutilitaristi! La diversità delle conseguenze deriva quindi da una diversità delle assunzioni empiriche al contorno.

3. La dimensione morale
L’ESM non propugnava uno Stato esteso. Nella piena continuità con la visione tradizionale del liberalismo, il suo obiettivo è uno Stato forte ma limitato. I mutamenti della realtà economica e sociale rendevano impossibile riproporre lo Stato ottocentesco, semplice “guardiano notturno” a protezione dei diritti di proprietà e del mercato. Le funzioni dello Stato dovevano essere più estese. Ma allo stesso tempo lo Stato, secondo la visione del costituzionalismo liberale, doveva agire secondo regole e sotto vincoli precisi. Non vi sarà mai nessuna contiguità tra l’ESM ed un certo tipo di radicalismo inglese, incarnato da Keynes, secondo il quale la fine del laissez faire coincideva con il primato della discrezionalità del potere politico, tanto nella decisione delle sue sfere di competenza quanto nella decisione dei mezzi da usare per raggiungere gli obiettivi sociali ed economici.
Contrariamente all’ “immoralismo” di Lord Keynes, i protagonisti dell’ESM davano una importanza fondamentale alla dimensione morale.

Molti di essi erano credenti, sia cattolici che protestanti. Lo erano ad esempio Roepke e Erhard. Benché l’ESM, come sottolineò Mueller-Armack, non fosse derivata da un insieme specifico di convinzioni religiose, essa fu però fortemente influenzata dalla morale cristiana, sia dal lato del valore della singola persona che andava riconosciuto aldilà delle sue capacità economiche, sia dal lato del giudizio morale che l’etica cristiana doveva dare sul sistema economico nel suo complesso in quanto conforme o meno ai principi dell’etica sociale. Mueller-Armack, tuttavia, sottolineava come la società moderna sia una società pluralistica, nella quale convivono persone che seguono fedi diverse, e persone che non seguono alcuna fede. Ognuno di questi diversi gruppi ha la propria visione particolare su quale sia il buon ordine della società. Mueller-Armack riconosceva che l’ordine economico-sociale doveva essere tale da permettere a tutti i cristiani di riconoscersi in esso, in modo da assicurare che essi se ne sentissero responsabili. Tuttavia l’ordine economico-sociale non poteva essere costituito sulla base di specifiche dottrine teologiche[2].
Il rapporto tra mercato e valori è un punto particolarmente interessante della teoria dell’ESM. Secondo Mueller-Armack il mercato ha bisogno di valori: ma il mercato stesso non è produttore di valori sociali, né tende ad arricchirli. Quest’idea diventerà particolarmente discussa negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni Sessanta. Per i pessimisti, la società americana si trova sottoposta ad un duplice fenomeno distruttivo. Da un lato vi è la crescente anomia conseguente al processo di astrazione dell’economia capitalistica, a sua volta sempre più de-territorializzata. Dall’altro lato vi è la destrutturazione del tessuto politico tradizionale in logiche dell’appartenenza etnica o sociale. È il fenomeno del “multiculturalismo”, per il quale una parte importante della popolazione americana non si riconosce più né nei canoni culturali occidentali, né nei valori della tradizione cristiana.
A denunciare la pericolosità di questo fenomeno per la stabilità della società americana sono stati intellettuali sia conservatori che progressisti, ovviamente in modi diversi. Forse i primi a farlo sono stati i cosiddetti Neoconservatives americani, tra i quali le figure maggiori sono quelle di Irving Kristol e Norman Podhoretz. Per costoro – esattamente come per i  pensatori dell’ESM – il capitalismo è una forma economica e sociale che, per il suo funzionamento, ha bisogno che gli individui si conformino ad un insieme condiviso di valori morali. Questi valori sono quelli della tradizione giudaico-cristiana. Alle sue origini, il capitalismo ha potuto contare sull’esistenza di un consistente stock di valori. Ma essi erano il prodotto della società agricola pre-industriale, e delle sue forme sociali strettamente legate al predominio della religione. La società capitalistica non è in grado essa stessa di generare valori morali, perché si basa sulla logica utilitaristica del perseguimento dell’interesse individuale. La società capitalistica è quindi destinata al declino, un declino che evidentemente non avrebbe non potuto riguardare la società capitalistica per eccellenza. Su questo punto i Neoconservatives si opposero fortemente ad Hayek, e la sua idea della “Great society” nella quale gli individui hanno in comune le regole ma non i fini. I Neoconservatives vedevano negli Stati Uniti degli anni Settanta un Paese in crisi economica e politica perché in una crisi morale risultato del diffondersi dell’individualismo[3].
Indipendentemente dalle conclusioni che si possono trarre a proposito di una questione così complessa e controversa, è evidente come essa confermi la straordinaria rilevanza delle intuizioni e dei principi dei pensatori dell’ESM.

4. L’ESM non è una visione neocorporativa
Come abbiamo visto, l’ESM mira a fornire una visione globale, nella quale il sistema economico non sia separato dal sistema sociale nel suo complesso. Tuttavia questa visione non coincide affatto con una concezione corporativistica dell’economia e della società, come si è spesso portati a credere seguendo l’uso che oggi viene fatto del concetto di Soziale Marktwirtschaft nella discussione politica in Germania e nell’Unione Europea. Lo scopo era esattamente opposto. Gli esponenti dell’ESM pensavano che vi dovesse essere una netta distinzione tra lo Stato da una parte, e la società dall’altra.
Lo espresse nel modo più chiaro Boehm, in esplicita polemica con Carl Schmitt, nella cui visione assolutistica si giungeva alla completa identità tra Stato e società. Per Boehm un ordine sociale funzionante presuppone invece la separazione tra Stato e società. Lo Stato è una organizzazione al servizio della società. I più importanti servizi che esso fornisce sono la difesa interna ed esterna, e l’amministrazione della giustizia. Esso deve essere un’organizzazione unificata in modo da renderlo esso stesso responsabile sul piano giuridico. La società come tale invece non agisce. La società è un insieme di relazioni complesse e mutevoli nel tempo tra individui portatori di diritti, regolate dal diritto privato. La complessità e l’interdipendenza di questo sistema di relazioni fa sì che sia sbagliato che lo Stato intervenga direttamente nel processo sociale. Per evitare che questo avvenga i poteri dello Stato devono essere definiti ed enumerati in maniera esaustiva. Tutto ciò che ricade aldifuori di questi poteri è dominio della società. Ma lo Stato ha un potere di azione incomparabilmente maggiore di quello della società. Di conseguenza è necessario un sistema di tipo democratico-costituzionale per far sì che esso rimanga dentro i confini che gli sono propri[4].

La visione dell’ESM non vuole quindi essere una versione del corporativismo. Essa si ricomprende invece totalmente all’interno del liberalismo. Questo è evidente dal ruolo fondamentale che essa attribuisce alla proprietà privata, ai suoi principi fortemente internazionalisti e liberoscambisti, al rifiuto di ogni logica di pianificazione, ed al fatto che la preservazione di un mercato efficiente viene posta come obiettivo o come vincolo di ogni politica. È evidente anche sul piano dei rapporti umani ed intellettuali che i maggiori esponenti dell’ESM ebbero con il mondo liberale anglosassone. Roepke, Mueller-Armack, Eucken, e molti altri ancora, furono tra i primi membri della Mont Pèlerin Society, l’associazione liberale fondata da Hayek nel 1947, insieme a Friedman, George Stigler, Frank Knight, e molti altri americani.
Confrontata sia con alcune correnti del liberalismo di stampo anglosassone, quali la Scuola di Chicago, sia con altre correnti del liberalismo continentale (come quello della Scuola Austriaca), le sue posizioni implicano senz’altro un maggior intervento della mano pubblica in economia. Il carattere liberale della ESM va però compreso valutando opportunamente due fatti fondamentali. In primo luogo che, al contrario di quanto è avvenuto per le visioni strettamente liberiste di questo secolo, l’ESM ed i suoi esponenti hanno avuto per più di un ventennio un ruolo attivo di primo piano nella formazione e nella gestione delle politiche pubbliche di un grande Paese come la Repubblica Federale Tedesca. In secondo luogo, che nello stesso periodo in Europa tutti i governi, che fossero di sinistra o di destra, seguivano esplicitamente obiettivi e politiche di stampo keynesiano, di pianificazione, di nazionalizzazione.
Non è azzardato affermare che, dal punto di vista più generale, mentre il liberalismo anglosassone (nelle sue versioni più nettamente liberiste) tende ad assumere che la libertà individuale è una condizione necessaria e sufficiente tanto per una economia efficiente e prospera quanto per un sistema politico libero e democratico, l’ESM ritiene che vi sono delle condizione “esterne” che devono essere realizzate se vogliamo che tutto questo avvenga.
Sul piano propriamente scientifico, la debolezza del liberalismo anglosassone è che finisce inevitabilmente per considerare tutto ciò che non è offerta e domanda di beni e servizi come un qualcosa di “esogeno” rispetto al mercato, e – soprattutto – come una “interferenza” nel suo funzionamento. Esso presuppone un’antropologia estremamente ristretta, per la quale l’individuo è visto nella esclusiva dimensione di massimizzatore di utilità attesa rispetto ad un insieme di preferenze date. In questo modo rimangono aldifuori del discorso economico sia il ruolo delle istituzioni e delle norme proprie di ogni specifica realtà sociale (e quindi di ogni specifico mercato), sia tutte le preferenze individuali ed aggregate che non corrispondono a specifici beni o servizi scambiabili nel mercato. Tipicamente, rimangono aldifuori del discorso economico tutte le preferenze per assetti distributivi del reddito o della ricchezza diversi da quelli che risultano dallo scambio di mercato effettuato sulla base dei diritti di proprietà esistenti ad una dato momento.
Forse non è errato affermare che la principale differenza tra l’ESM ed il liberalismo anglosassone non sta negli scopi che si vogliono ottenere, ma nei mezzi da mettere in pratica per ottenerli. Non va infatti dimenticato che le stesse forme di liberalismo anglosassone considerate più “estreme”, come quella propugnata da Friedman, sono a favore di politiche redistributive come l’imposta negativa sul reddito. Di per se stessa, l’imposta negativa sul reddito corrisponde perfettamente ai principi dell’ESM. Sicuramente essa è marktconform – concetto chiave dell’ESM per valutare ogni misura di politica economica – più di quanto non lo sia un sistema previdenziale a ripartizione. Ma proposte come quelle dell’imposta negativa sul reddito si pongono comunque nella logica di separare il sistema delle relazioni di mercato dalle altre relazioni sociali, una separazione che sul piano puramente fattuale non è mai esistita in nessuna società concreta.
L’ESM è invece una visione che sembra tenere più  adeguatamente conto del fatto che l’economia capitalistica ed il mercato non esistono mai in vacuo. Capitalismo e mercato esistono perché esistono degli individui, delle persone concrete, storicamente situate, che producono e scambiano beni e servizi. Un sistema economico che tenga adeguatamente conto delle esigenze delle persone, dall’istruzione alla protezione dai rischi di esclusione sociale, non sarà soltanto un sistema più giusto moralmente: sarà anche un sistema economicamente più efficace.
Davvero, la discussione tra la Soziale Marktwirtschaft ed il liberalismo anglosassone più legato all’utilitarismo liberista costituisce un argomento storicamente e teoricamente affascinante. Ma è una discussione che sta tutta dentro il liberalismo, e che ne conferma la straordinaria ricchezza.

Riferimenti bibliografici

Note

1. Cfr. W. Eucken, Grundsaetze der Wirtschaftspolitik, Tubinga, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 1968 (quarta edizione)

2. A. Mueller-Armack, The Principles of the Social Market Economy, “The German Economic Review”, 1965

3. A. M. Petroni, Comunitarismo e liberalismo, “Keiron”, 2001

4. F. Boehm, Freiheit und Ordnung in der Marktwirtschaft, Baden Baden, Nomos, 1980