Partecipazione e ambiente: la convenzione di Aarhus

Intervento alla Tavola Rotonda “La partecipazione dei cittadini e delle associazioni al procedimento decisionale in materia ambientale”, Università di Roma La Sapienza, 16 aprile 2010

1. La partecipazione come strumento di perequazione 2. La Convenzione di Aarhus e il suo contenuto innovativo 3. Effettività ed ineffettività della Convenzione 4. I garanti della Convenzione

1. Parlare oggi di partecipazione e ambiente vuol dire evocare la tensione verso un nuovo modello di governo del settore fondato sul principio di trasparenza, sulla ricerca del consenso, sulla distribuzione del potere decisionale tra i diversi soggetti istituzionali e sociali coinvolti, sulla creazione di condizioni favorevoli all’accettazione delle decisioni pubbliche quale alternativa alla loro autoritativa imposizione.
Sul piano del lessico il termine governance esprime tale evoluzione che, al fondo, si lega all’idea di una progressiva democratizzazione dei processi decisionali pubblici. È questa una tendenza generale, non riferibile solo al settore ambientale, che supera sia il tradizionale principio di autoritatività sia le più moderne tendenze ispirate all’efficienza e al risultato quali valori prioritari dell’azione pubblica.
Nel settore ambientale però tale tendenza si manifesta in modo più deciso che in altri ambiti per la particolare importanza dell’oggetto e per il suo afferire ad un bene comune, l’ambiente.
La partecipazione restituisce infatti alla decisione ambientale la sua pluridimensionalità: crea una stanza di compensazione in cui le responsabilità vengono, almeno tendenzialmente, condivise; genera consapevolezza e condivisione in relazione a beni fondamentali; e con tali beni si interseca indissolubilmente al punto da assurgere essa stessa a diritto umano, come ritenuto dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo. Essa è pertanto fattore essenziale di democraticità e di legalità delle decisioni ambientali.
Se l’opzione in favore di un modello di governance partecipata dell’ambiente deve senz’altro essere salutata con favore per tutte le sue evidenti implicazioni positive, non si può tuttavia non considerare che la realtà effettiva del modello mostra una serie di limiti che rivelano come la partecipazione non possa essere la sola risposta alle esigenze di condivisione e di accettazione delle scelte pubbliche.
Innanzitutto la partecipazione spesso assume nei fatti un carattere pletorico: fatto che stride con l’esaltazione teorica dei modelli partecipativi e che, al fondo, rischia di vanificarne il ruolo e il senso. Tale pericolo è peraltro amplificato nel settore ambientale caratterizzato da scelte tecnicamente complesse e assunte, per lo più, in contesti di rischio, vale a dire di incertezza scientifica, e in una non sempre chiara dialettica tra tecnica e politica (si pensi, ad es., all’estesa partecipazione prevista dal d.lgs. n. 31/2010 in materia di localizzazioni di centrali nucleari e alle barriere scientifiche che possono nei fatti vanificarne la praticabilità o comunque ridurne il peso).
La partecipazione poi, secondo l’analisi economica del diritto, rappresenta un costo che, oltre un certo limite, non è più compensato dai benefici che essa è in grado di produrre. Soprattutto, oltre un certo limite, la ricerca del consenso e della condivisione non solo può condurre alla paralisi delle scelte ma conduce a scelte che, politicamente condizionate dall’audience, “non fanno tendenza”, perdono cioè di forza innovativa.
É inoltre evidente che all’esigenza di condivisione delle scelte ambientali talvolta non sono sufficienti le forme della partecipazione. Di fronte all’impossibilità di trovare una soluzione che soddisfi tutte le parti riemerge quindi la decisione autoritativa e, con essa, l’inevitabile difficoltà di attuarla: lo dimostrano le recenti esperienze dei rifiuti in Campania o dell’alta velocità nella Val Susa.
L’ambiente è poi, come tale, un bene comune che tende a giustapporsi al mercato e a logiche individualistiche; ma è anche al tempo stesso un mercato. Nella corrispondente arena pubblica si confrontano quindi diversi gruppi di pressione e diversi interessi: associazioni, imprese e, voce più debole, i cittadini. Le vicende della privatizzazione del servizio idrico oggi sembrano dimostrarlo, così come quelle relative alla (illegittima) semplificazione da parte dei legislatori regionali dei procedimenti per l’installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili recentemente sanzionata dalla Corte Costituzionale (v. C. Cost. n. 119/2010).
Sicché la partecipazione diventa stanza di compensazione di interessi tra loro contrapposti. E i portatori dell’interesse recessivo, pur avendo partecipato, saranno chiamati a subire gli effetti pregiudizievoli di decisioni che producono vantaggi verso terzi o verso la collettività in generale: basti pensare alla localizzazione di una discarica o di altre opere infrastrutturali.
In queste situazioni la partecipazione non può ritenersi la sola risposta alle difficoltà di condivisione e di attuazione pratica delle decisioni ambientali: essa appare una risposta solo formale. Ciò sia detto non per svalutare l’importanza del modello partecipativo, ma per adottare rispetto ad esso un approccio realistico: partecipazione non equivale a correttezza sostanziale nella scelta. E, soprattutto, rispetto a scelte che dispensano in modo disuguale vantaggi e svantaggi talvolta in relazione a beni fondamentali quali la salute, la partecipazione non equivale ad equità.
Ed è solo l’equità della scelta, senz’altro aiutata ma non risolta dal modello partecipativo, che può rendere la scelta medesima razionale e, per questo, accettabile e attuabile.
La partecipazione deve dunque coniugarsi alla perequazione degli interessi in gioco. Diversi sono i segnali che vanno in questa direzione: innanzitutto in materia di valutazione di impatto ambientale la direttiva 85/337/CEE, come modificata da ultimo dalla direttiva n. 2003/35/CE, nel prevedere procedure partecipative rafforzate prevede che accanto ad esse si tentino misure per evitare, ridurre e se possibile compensare i più rilevanti effetti negativi della decisione. Un altro importante esempio è costituito dal d.lgs. n. 31/2010 in materia di energia nucleare che, in relazione al problema delle localizzazioni degli impianti, non si limita a prevedere ampie misure partecipative ma prevede anche misure compensative.
Questa nuova frontiera della partecipazione “sostanziale”, non fine a se stessa ma preordinata al riequilibrio degli interessi in gioco, costituisce oggi un imperativo cui il diritto ambientale non sembra più potersi sottrarre.

2. In questo scenario occorre prestare attenzione alla Convenzione di Aarhus che introduce in via generale, per tutti i procedimenti ambientali, un nuovo modello di governance, fondato sull’informazione e sulla partecipazione non intesi in senso tradizionale ma arricchiti di contenuti e significati più ampi.
Sono noti i tre pilastri della Convenzione: l’accesso all’informazione ambientale, la partecipazione ai procedimenti e l’accesso alla giustizia. Sembrerebbe trattarsi di istituti tradizionali, già metabolizzati nel nostro ordinamento. Ma non è così.
Se, ad esempio, si considera l’accesso all’informazione ambientale, per quanto già configurato nel nostro ordinamento con particolare ampiezza dall’art. 14 l. n. 349/86, emerge immediatamente la portata innovativa della Convenzione: l’accesso non è più solo un dovere che pone l’amministrazione nella posizione passiva di essere tenuta a mettere a disposizione documenti e informazioni su istanza di parte ma le impone di farsi parte attiva e predisporre un’attività informativa rivolta al pubblico.
Venendo poi alla partecipazione, innovativo ne è innanzitutto l’ambito oggettivo: la partecipazione non è disposta solo nei confronti di procedimenti rivolti all’adozione di provvedimenti puntuali ma, a differenza di quanto previsto dall’art.13 l. n. 241/90, è prevista anche nella predisposizione di piani e programmi e in relazione a strumenti normativi.
Innovativo è inoltre lo stesso contenuto della partecipazione, che non si esaurisce nell’aprire le porte del procedimento consentendo la partecipazione degli interessati, ma comprende doveri in capo all’amministrazione di “promuovere” la partecipazione stessa mediante la pubblicizzazione dell’avvio dei vari procedimenti ambientali. Ed è evidente che tali doveri non si esauriscano nella nostra comunicazione d’avvio del procedimento ma abbiano una consistenza diversa e più ampia. Innanzitutto la Convenzione modifica il senso e l’importanza della stessa comunicazione di avvio del procedimento escludendo che essa possa essere ridotta al ruolo di adempimento meramente formale anche ai fini della validità del provvedimento amministrativo ex art. 21 octies l. n. 241/90. Inoltre il dovere di pubblicizzazione dell’avvio dei procedimenti ambientali travalica il singolo procedimento per anticiparsi al momento della definizione della strategia, degli obiettivi in cui lo specifico procedimento si inserisce. Questo perché, nell’ottica della Convenzione, la partecipazione deve collocarsi in un momento in cui tutte le opzioni sono ancora possibili.
Radicale è poi l’incidenza della Convenzione in relazione ai procedimenti normativi; per i quali, siano essi di livello legislativo o regolamentare, nel nostro ordinamento non è attualmente previsto alcun dovere di pubblicità né di consentire la partecipazione.
Così anche radicale dovrebbe essere l’incidenza in materia di pianificazione, le cui fasi partecipative oggi si svolgono, di norma, una volta che i piani sono stati adottati, nell’interregno tra adozione del piano e sua approvazione: la partecipazione avviene dunque in un momento in cui le scelte, a livello di equilibri di fondo, sono state già assunte e hanno già dato luogo alla definizione dell’assetto del territorio, difficilmente scalfibile dalle osservazioni al piano, che, come dimostra la prassi dei procedimenti urbanistici, solo di rado trovano accoglimento.
Già da questi rapidi cenni emerge come i cambiamenti che reca con sè la Convenzione non si esauriscono nel rafforzamento di questa o quella pretesa partecipativa, ma toccano al fondo il modello di dialogo cittadini-decisore pubblico traducendolo in uno strumento di governance.

3. Di tali radicali mutamenti occorre verificare l’effettività. Sul piano formale è noto che la Convenzione è stata sottoscritta e ratificata nel nostro ordinamento con l. n. 108/2001 ed è entrata in vigore nell’ottobre del medesimo anno con il raggiungimento del numero minimo di ratifiche. La Convenzione è dunque in vigore in tutte le sue parti e, come tale, può essere invocata quale parametro di legittimità di atti amministrativi, singolari e generali e di atti normativi di rango primario e secondario. Tale dimensione, di giustiziabilità del modello, riveste un ruolo centrale. Non è infatti un caso se il c.d. terzo pilastro della Convenzione sia costituito proprio dall’accesso alla giustizia.
È tuttavia evidente che per la piena applicazione della nuova disciplina sia necessario un certo periodo di metabolizzazione: ma, anche considerati i fisiologici tempi di penetrazione e di adattamento degli ordinamenti, il quadro dell’effettività della Convenzione a quasi un decennio dalla sua entrata in vigore sembra ancora piuttosto deludente.
Senz’altro l’effettività della Convenzione è “stimolata” dalle direttive europee che ne hanno fatto applicazione.
Ricordiamo che a livello europeo la disciplina dell’accesso posta dalla Convenzione è stata recepita in maniera integrale con la direttiva n. 2003/4/CE che ha modificato la preesistente direttiva 90/313/CE.
Anche la disciplina sulla partecipazione ai procedimenti amministrativi ha ricevuto un importante, anche se non pieno, accoglimento a livello europeo. Il riferimento è alla disciplina in materia di valutazione di impatto ambientale (dir. 85/337/CEE come modificata dalle dir. 97/11/CEE e 2003/35/CE), di valutazione ambientale di piani e programmi ambientali non sottoposti a valutazione ambientale strategica (dir. 2003/35/CE) e di autorizzazione integrata ambientale (dir. 2008/1/CE).
Ma, venendo al nostro ordinamento, dobbiamo constatare che anche negli ambiti coperti da norme comunitarie sono previste ampie deroghe.
Così un’importante e discussa deroga è prevista per le molte opere che ricadono nell’ambito della c.d. legge obiettivo (d.lgs. n. 190/2002, ma oggi v. art. 182 ss. d.lgs. n. 163/2006) in cui le fasi di partecipazione risultano fortemente compresse.
La Convenzione risulta inoltre inapplicata per tutti i procedimenti estranei all’ambito di applicazione della VIA a cui pur dovrebbe applicarsi. La Convenzione prevede infatti una clausola di chiusura: essa vale “nei confronti di tutte le attività che incidono in modo rilevante sull’ambiente”. Si tratta di un profilo della Convenzione di Aarhus ad oggi trascurato pur non riguardando solo i procedimenti relativi ad attività di minimo impatto sull’ambiente.
Sembrerebbero infatti restarne fuori anche i procedimenti propedeutici a scelte pianificatorie o programmatiche relative all’ambiente: per quanto infatti la direttiva comunitaria (dir. 2003/35/CE) preveda delle misure consonanti se non addirittura più rigorose di quelle previste dalla Convenzione, per l’informazione dell’avvio dei processi di pianificazione la medesima direttiva esclude testualmente dal suo ambito i procedimenti sottoposti a VAS, cioè i procedimenti pianificatori di maggior impatto ambientale che stando all’attuale disciplina si aprono alle procedure partecipative quando i piani sono sostanzialmente già definiti.

4. In questo quadro, che non può essere ulteriormente approfondito in questa sede, occorre accennare ad un’ultima questione fondamentale: chi controlla e chi garantisce l’effettività della Convenzione?
Sappiamo che è stata recepita nel nostro ordinamento, ha valore di legge e che i giudici sono chiamati ad applicarla. Ma se digitiamo la parola Aarhus, parola che non consente ovviamente equivoci, sulle banche dati della giurisprudenza italiana, risultano circa cinque sentenze del Consiglio di Stato e dieci dei TAR. Nessuna della Corte costituzionale.
Peraltro anche nelle nostre rare sentenze che fanno riferimento alla Convenzione rinveniamo una certa resistenza alla sua applicazione e comunque una lettura debole delle sue previsioni, interpretate in senso restrittivo, come accade per le ragioni della semplificazione nell’ambito della legalità relativa alle opere pubbliche cd. “emergenziali”, che vengono fatte prevalere sulle istanze partecipative, ovvero addirittura sottoposte alla regola dell’art. 21 octies ritenendo che “per potersi censurare l’omessa comunicazione di avvio del procedimento il soggetto che si ritenga non essere stato avvisato personalmente deve comunque provare che ove avesse potuto tempestivamente partecipare al procedimento avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni connotate dalla ragionevole possibilità di avere un’incidenza causale nel provvedimento terminale” (Cons. St. n. 1197/2010).
Di certo non possono poi ritenersi in linea con gli standard della Convenzione decisioni che legittimano la palese violazione delle regole di partecipazione, come in un recente caso deciso dal Tar Puglia che ha ritenuto legittimo il diniego all’accesso con riguardo ad un’intesa tra ente locale e gestore volta a regolare le modalità del servizio di raccolta dei rifiuti ritenendo apoditticamente che tali attività fossero prive di impatto ambientale (Tar Puglia, Lecce, I, n. 2286/2009).
Se però ci spostiamo in altri ordinamenti superiori il quadro diventa più interessante. Così la Corte di Giustizia delle Comunità Europee si richiama alla Convenzione non solo per garantire l’attuazione delle direttive comunitarie che l’hanno recepita ma anche per offrirne una corretta interpretazione: ove la direttiva non sia chiara la Corte di Giustizia si riporta direttamente alla Convenzione di Aarhus. In una recente pronuncia, secondo questa linea interpretativa, pur nel silenzio della disciplina comunitaria, la Corte ha ritenuto che le norme di sbarramento previste nell’ordinamento svedese nei confronti delle associazioni ambientaliste con meno di duemila iscritti fossero contrarie alle direttive comunitarie come interpretate in senso conforme alla Convenzione (CGCE 15 ottobre 2009 n. 263).
Sempre in ambito sopranazionale l’effettività delle pretese partecipative in ambito ambientale vieno oggi assicurata anche attraverso la loro trasformazione in diritti dell’uomo suscettibili di essere fatti valere innanzi all’omonima Corte Europea. La chiave formale per far entrare queste pretese nell’ambito di applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è l’articolo 8, secondo cui ogni persona ha il diritto al rispetto della propria vita privata, familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza, e, aggiunge il secondo comma, nei quali ambiti non può esservi ingerenza dell’autorità pubblica. La CEDU ha ritenuto e ha chiamato in causa la Convenzione di Aarhus come norma interposta rispetto alla violazione dell’articolo 8: tale violazione è stata ad esempio rinvenuta nella mancata previsione di procedimenti di VIA da parte di alcuni Stati o nel mancato svolgimento di attività di preventiva informazione rispetto ad attività implicanti rischi ambientali. Così nel 2009 la Corte ha chiamato in causa proprio la Convenzione in merito alle immissioni di cianuro confluite nel Danubio nel noto disastro del 2000 (Sentenza Tatar contro Romania del 27.1.2009). In questa circostanza la Corte ha ritenuto che la Romania avesse violato l’articolo 8 della Carta perché erano stati violati gli obblighi di informazione preventiva rispetto allo stabilimento dal quale si era generato l’incidente.
Sempre a livello sopranazionale un ulteriore strumento di garanzia dell’effettività della Convenzione si riporta all’istituzionalizzazione della Convenzione, tramite la creazione, da parte della Convenzione stessa, di propri organi lato sensu di controllo e di una innovativa review of compliance aperta alle istanze di ogni privato: il cd. Compliance Committee un organo indirettamente nominato dai sottoscrittori della Convenzione, chiamato a valutare le infrazioni rispetto alla Convenzione medesima. La considerazione di tale livello è fondamentale per capire il grado di innovatività e di effettività della Convenzione, nonostante i dubbi circa la sua natura e portata giuridica; recentemente, ad es., attraverso il ricorso al Committee è stata sanzionata la violazione delle norme convenzionali da parte del Kazakhstan in un caso di estremo interesse in quanto relativo a procedimenti legislativi: una società partecipata da soggetti pubblici aveva effettuato una proposta per l’adozione di un atto legislativo che consentiva l’importazione e lo smaltimento di rifiuti stranieri sul territorio nazionale; un’associazione aveva tentato di accedere allo studio di fattibilità di questa proposta e le era stato negato l’accesso. Esperiti vanamente i rimedi nazionali il Commette, sollecitato dall’associazione, ha affermato il dovere di garantire l’accesso alle informazioni ambientali (per questa interessante vicenda v. M. Macchia, in Riv. trim. dir. pubbl., 2006, 639).
Nonostante le resistenze nazionali il modello innovativamente delineato dalla Convenzione di Aarhus sembra dunque destinato a trovare una sua dimensione di effettività. Di questa trasformazione dovrà pertanto cominciare a prendere atto il nostro Stato, nella sua dimensione di amministratore e di legislatore, ed il nostro giudice, amministrativo e costituzionale, ciò che costituisce presupposto indefettibile perché il nostro ordinamento possa riallinearsi con gli standard democratici che, di là di ogni altra considerazione, la nostra appartenenza al circuito europeo e globale ci impone.