Intervento alla Tavola Rotonda “L’ambiente tra diritto individuale e interesse collettivo”, Università di Roma La Sapienza, 21 gennaio 2010

Il problema dell’ambiente può essere filosoficamente affrontato in due modi.
Il primo modo è abbastanza tranquillizzante e coincide con la teoria dello sviluppo sostenibile; per esso i problemi ambientali si sono accentuati con l’industrialismo, con l’età della tecnica, con la pretesa della crescita illimitata legata allo sviluppo della vita cittadina ed alla moderna economia industriale capitalistica. In fondo, però, secondo questa visione, il rimedio rispetto ai possibili squilibri, sta nella stessa tecnica, che produrrà soluzioni come ne produce di continuo, per cui non c’è troppo da spaventarsi.
Tra l’altro in un mondo popolato da milioni di persone che hanno bisogno di un’economia in continua espansione per poter sopravvivere, ci sono ottimi segnali che ci inducono, secondo il modello dello sviluppo sostenibile, a non preoccuparci troppo della questione ambientale.
Questo è il primo modo di affrontare il problema, il quale fa affidamento su una sorta di logica della temperanza: non c’è bisogno di sconvolgere il nostro modo di vita, in quanto sicuramente il rapporto con la natura è stato profondamente modificato dalla società industriale, ma deve essere soltanto gestito.
C’è un’altra visione della tematica ambientale, invece, nella quale si colgono segnali di allarme, in quanto essa mette in luce la rottura profonda del legame fra uomo e natura, indotta dal modo di produzione capitalistico.
Questa visione ritiene che la riflessione sull’ambiente metta in crisi tutti i modi tradizionali di vedere il rapporto degli uomini fra loro, degli uomini con le cose e degli uomini con la natura, secondo un’impostazione non solo di carattere giuridico, ma anche fisico–filosofica.
Si ritiene che in fondo questo rapporto uomo/natura sia il motore dello sviluppo economico di tutte le società e della società capitalistica in particolare e che, con l’emersione delle criticità ambientali legate all’industralesimo, sia messo in crisi il concetto di società capitalistica.
Fra i primi scritti a sviluppare queste teorie critiche in modo compiuto vi sono quelli dei francofortesi, ad es. “Il principio di responsabilità” di Hans Jonas; nella filosofia continentale lo sbocco teorico di questa visione pessimistica critica il mito della crescita e dello sviluppo, inteso in termini puramente quantitativi. In Francia si è fatto portatore di una visione di questo genere un economista e filosofo, Serge Latouche, portavoce della teoria della decrescita economica (La scommessa della decrescita).
Altre impostazioni distinguono fra una visione di tipo antropocentrico che, nel rapporto uomo /natura, mette al centro l’uomo ed una visione di tipo ecocentrico, la quale mette al centro la natura.
In una visione di tipo antropocentrico l’ambiente va tutelato perché conviene all’uomo, serve per la sopravvivenza della vita umana; nella visione di tipo ecocentrico l’uomo viene invece visto come parte di un sistema biologico, col supporto delle scienze che dimostrano come ci siano base teoriche anche per i comportamenti più sofisticati dell’uomo.
Queste visioni teoriche cambiano impostazione a seconda che l’uomo sia inteso o meno come al centro del rapporto della natura, come parte di un sistema complesso, dove gli interventi che possono essere dettati per la protezione della natura abbiano un impatto più incisivo, proporzionato alla capacità dell’uomo di riconoscere come essenziale (dissolvendo la sua soggettività) l’importanza dell’ambiente circostante.
Addirittura si parla, in questa prospettiva, di nuova soggettività e di una nuova nozione di soggetto giuridico, per avvicinarle ai beni giuridici; questa nuova nozione di soggetto di diritto dovrebbe arrivare a tener conto ad es. degli animali come soggetti, visti quindi non come oggetto dei reati di maltrattamento, non come oggetto di protezione, ma come soggetti attivi perché esseri senzienti.
Dinanzi a queste visioni siamo un po’ perplessi, in quanto non riusciamo a pensare che picchiare un uomo sia la stessa cosa che picchiare un cane. Ma lo spaesamento può avere le sue ragioni.
In fondo il diritto ambientale è relativamente giovane, in realtà non ha che pochi decenni di vita.
Potremmo dire che è nato, nella sua età aurorale, per effetto di una serie di scoperte iniziali, ed anticipo che l’età aurorale o eroica del diritto ambientale e della filosofia che riflette sull’ambiente è ormai passata, in quanto ora siamo in un’età matura del diritto ambientale, in cui le sue regole si fanno estremamente complesse e sono pezzo del diritto dell’economia, così che è difficile distinguere i profili del diritto dell’economia dai profili del diritto dell’ambiente.
Il diritto ambientale nella sua fase aurorale si forma perché nasce una domanda sociale in relazione all’ambiente con riferimento agli inquinamenti; si risponde a questa domanda facendo uso degli strumenti giuridici di cui si disponeva quando essa è sorta, e gli strumenti iniziali di intervento sono essenzialmente derivati dai quattro codici, le prime controversie sono state sottoposte ai pretori negli anni 70/80.

Nota:
Trascrizione dell’intervento del Consigliere Giancarlo Montedoro al Master universitario di II livello in Diritto dell’Ambiente dell’Università La Sapienza di Roma in occasione della Tavola rotonda “L’ambiente tra diritto individuale e interesse collettivo”.

Già da una decina di anni si sentiva parlare di uso alternativo del diritto, e uno dei suoi campi era il diritto ambientale: uso alternativo era inteso in alcune sue frange come uso promozionale del diritto con espliciti obiettivi politici, ma in realtà si trattava di una sorta di metodo di riflessione della giurisprudenza su se stessa, di un incontro del giudice con alcuni articoli della carta costituzionale – l’art. 3, art. 9 (la tutela del paesaggio), l’art. 32 (il diritto alla salute) – finalizzato a dare tutela diretta a queste situazioni sul piano civile, sul piano penale.
Sul piano penale si è arrivati al concetto di colpa e di danneggiamento, muovendosi nell’ambito dell’art. 635, il che già dimostra una certa ristrettezza di prospettive e di approdi raggiungibili con l’armamentario di diritto comune: l’art. 635 tutela essenzialmente il patrimonio individuale; difficile piegarlo ad altri più generali usi.
La giurisprudenza ha tentato di applicare norme generali a singole fattispecie: ad esempio la norma sul furto aggravato ex art. 624 è stata applicata all’uccisione degli uccelli, visti come patrimonio dello Stato.
In questa fase il diritto ambientale è stato tutelato, tuttavia, non solo sul piano obiettivo, penalistico ma anche come diritto individuale, collegandolo direttamente agli artt. 32 della Costituzione e 2043 del codice civile.
Si è compiuta un’operazione abbastanza semplice: il codice civile, meglio del codice penale, contiene clausole generali, e l’art. 2043 è una di queste, in quanto clausola generale ancora in auge ed estremamente duttile (basti pensare a come funziona la responsabilità delle amministrazioni o il problema dei diritti della personalità; istituti giuridici sempre nuovi sono accolti e plasmati grazie a questa norma).
La valenza di questa norma, accompagnata dalle azioni inibitorie dell’art. 700 del c.p.c., fa capire come, quando negli anni 60 e 70 si faceva politica nucleare e si decidevano le localizzazioni delle centrali, il cittadino potesse insorgere, ovviamente avendo i requisiti della vicinitas rispetto agli impianti nucleari che erano stati localizzati in una sede piuttosto che in un’altra, e facendo valere non l’interesse legittimo ma certamente un diritto soggettivo.
Questa prima fase storica – aurorale – del diritto ambientale si costruisce attorno ad un paradigma di diritto soggettivo individuale, secondo cui spetta a tutti e a ciascuno il diritto ad una vita salubre; in sostanza il diritto all’ambiente è ricompreso nel diritto alla salute.
C’è stata poi una trasformazione messa in atto da un altro dei formanti dell’ordinamento: la legislazione.
Il legislatore è intervenuto infatti dopo un sonno piuttosto lungo, dandoci delle ottime leggi.
La prima è la legge Merli, che tutela le acque in modo efficace, stabilisce degli standard di ammissibilità-accettabilità delle sostanze che vengono immesse nelle acque, incarica le amministrazioni di controllare il rispetto degli standard a vari livelli, cataloga gli scarichi delle acque civili e di altro genere, impone la depurazione degli scarichi alle imprese.
Circa il problema dei rifiuti, nasce una disciplina amministrativa negli anni 80: qualche anno dopo la prima disciplina amministrativa della fine degli anni 70, del 1976, interviene infatti il testo unico sui rifiuti con una normativa che gestisce i rifiuti in modo pubblicistico, ossia con un regime che prevede controlli di tipo amministrativo, abilitazioni per gli operatori che ritrattano i rifiuti e che si preoccupa anche della destinazione finale del rifiuto in discarica.
Un cambiamento avviene nel 1986 con la nascita del Ministero dell’Ambiente. Le cose cambiano innanzitutto perché la legge istitutiva del Ministero prevede una specifica disciplina del danno ambientale, il quale è la clausola generale a cui deve guardare il Ministero per tutelare il bene giuridico che gli è stato affidato.
In realtà il Ministero viene istituito perché dell’ambiente si inizia ad avere una concezione di tipo erariale: l’ambiente alla fine è considerato parte di un patrimonio pubblico, il danno ambientale un danno che si traduce in danno all’erario, addirittura si è pensato che dovesse agire la Procura della Corte dei Conti in tema di danno ambientale.
L’ambiente, invece di essere un bene che spetta a tutti e a ciascuno, direttamente attinente all’esercizio e alle vicende dei diritti soggettivi, viene devoluto alla prospettiva pubblicistica.
Si tentava così di rispondere alla crescente complessità della giustizia in materia ambientale e ad una certa incertezza dovuta alla centralità eccessiva della giurisprudenza.
Era necessario descrivere un quadro maggiormente ordinato di competenze: però questo quadro delle competenze si è tradotto in un lieve slittamento, quasi inconsapevole, dell’ordinamento dal momento privatistico a quello pubblicistico, senza che questo abbia mai comportato una regressione del ruolo delle competenze dell’autorità giudiziaria ordinaria in materia ambientale.
Il risultato è una tensione irrisolta fra il momento della scelta amministrativa e il momento del controllo giudiziario.
Tutta la legislazione ambientale è costruita sugli standard tecnici: in realtà il legislatore non è sempre veramente in grado di fare delle scelte che dicono come vada tutelato il bene ambiente e come attuare alcuni parametri generali e gli allegati tecnici, i quali possono essere più o meno precisi e spesso hanno bisogno di essere completati e concretizzati da scelte amministrative.

E’ noto ad es. che in relazione a scelte di trasformazione del territorio, il legislatore istituisce commissioni che valutano l’impatto sull’ambiente, demandando all’amministrazione il compito di concretizzare lo standard tecnico che fissa il grado di compatibilità delle scelte di trasformazione con l’esperienza della conservazione.
Il legislatore agisce generalmente in questo modo, demandando all’amministrazione poteri di prescrizione e controllo (la tecnica del c.d. command and control).
Ciò significa delega all’amministrazione del compito di individuare un punto di equilibrio fra uomo e natura.
In disparte le scelte che attengono alla protezione dell’ecologia profonda, fatte nella legislazione in modo radicale, ad esempio nella legislazione sui parchi, nella quale risiede l’idea di recuperare il contatto profondo fra uomo e natura: il parco è un’isola felice per ciò che rimane in esso della natura incontaminata, per cui il parco merita una protezione particolare ed è oggetto di una inibizione assoluta; filosoficamente è qualcosa che non consente all’uomo di esercitare un’attività di trasformazione. Nel parco ci si deve astenere dal fare. Qui i poteri dell’amministrazione sono ridotti.
Qui la trasformazione del territorio langue.
Ciò non significa che i parchi non possano produrre anche utilità economiche legate alla fruizione di valori estetici e paesaggistici e naturalistici.
Ma, a parte quest’ambito, è di norma l’amministrazione che decide il come e il quando delle trasformazioni del mondo, così che il legislatore fissa le coordinate e l’amministrazione valuta.
La valutazione dell’amministrazione è sempre contestabile, e lo è dinanzi ai giudici amministrativi, secondo il dettato dell’art. 113 della Costituzione, ma anche dinanzi ai giudici civili – se continua ad esser vero che l’ambiente è tutelabile anche come diritto ad un ambiente salubre – e anche dinanzi ai giudici penali perché spesso le legislazioni speciali di tipo amministrativo, per chiudere il cerchio, sono corredate da previsioni che consentono l’intervento del giudice penale.
Ogni scelta e determinazione amministrativa, che nasce nel sistema per dare certezza al mondo delle imprese circa il quantum di trasformabilità che esse possono operare, può essere così contestabile in almeno tre sedi: amministrativa, civile e penale.
Il giudice amministrativo sarà più portato a compatibilizzare l’interesse pubblico con l’interesse individuale – e a cercare un punto di mediazione, per la consuetudine ad uniformarsi con il diritto europeo che ormai ha accolto il concetto di sviluppo sostenibile, e per sforzarsi di interpretare il complesso normativo alla luce di questo canone.
Al giudice civile è affidato il compito diverso di accertare se la regola concreta, se lo standard fissato dalle amministrazioni, non abbia arrecato un danno alla persona; si veda il caso in cui, di fronte alla scelta dell’autorità amministrativa di uno standard, magari circa l’avvelenamento dell’ambiente, ritenuto legittimo dal giudice amministrativo, venga contestato davanti al giudice civile oppure penale che uno standard abbia comunque determinato una patologia grave. Si pensi all’Ilva di Taranto, azienda specializzata nella produzione dell’acciaio, che emette – come è noto – emissioni nocive, soprattutto di diossina; la nostra disciplina con gli standard tecnici aderenti alla disciplina internazionale ha previsto una tempistica che è stata rispettata dall’impresa; tuttavia, nonostante il rispetto degli standard o delle tempistiche di adeguamento a limiti di emissione via via più restrittivi per alcune sostanze ritenute tossiche, si possono verificare, anche in osservanza degli standard, dei danni alle persone.
Questi danni vengono spesso denunciati alle unità sanitarie locali in quanto, nonostante il rispetto dello standard tecnico sull’ emissione di sostanze nocive nell’atmosfera, non vi è mai la sicurezza che non vi sia un danno riconducibile ad un atto lecito dannoso.
Si tratta di quelle scelte tragiche che non fanno cadere necessariamente quanto avviene nell’irrilevante giuridico, perché vi è comunque una norma di tutela della persona, in quanto tutto il nostro ordinamento è basato sull’ habeas corpus.
C’è la possibilità di affermare che gli standard tecnici costituiscono una scriminante fino a quando si tratta di valutare la trasformabilità del mondo naturale, ma non sono più una scriminante quando si tratta di valutare la persona umana e il nesso tra persona e natura.
C’è poi il problema del nesso tra interesse collettivo e interesse individuale, di uno spazio nel quale l’amministrazione possa intervenire utilmente sulla decisione sull’ambiente inteso come habitat, come mondo circostante, che ad alcune condizioni è strumentale anche ai nostri diritti soggettivi, tipo la libertà d’impresa (art 41 Cost.); vi è però il forte limite che troviamo nella stessa Costituzione, all’art 41, comma 2, secondo cui la stessa libertà d’impresa deve assicurare la sicurezza dei lavoratori e secondo cui la trasformabilità dell’ambiente, pure se assentita in via amministrativa, non consente di poter essere certi dell’eliminazione di tutte le condotte che siano eventualmente lesive del bios dell’uomo.

È possibile un intervento in sede civile e penale che metta in discussione in qualche modo la scelta amministrativa, e ciò dà l’impressione di una continua incertezza del diritto.
Gli standard assicurano la prevedibilità del comportamento: infatti quando si interviene a tutela del bios umano il giudice, per la valenza costituzionale di queste interessi e la loro valenza quasi pregiuridica, è portato ad assumere una tutela di tipo giusnaturalistico.
A prescindere dall’urgenza dell’interesse, il giudice amministrativo, più di altri, è tenuto istituzionalmente a trovare il punto di intersezione tra l’interesse pubblico canonizzato in una norma d’azione e l’interesse concreto alla salute della società.
Quindi è più facile che il giudice amministrativo chiuda la sua vicenda realizzando la tutela, avendo già una norma di azione, mentre il giudice civile e penale tenderanno ad intervenire in chiave giusnaturalistica.
Si produce così una tensione irrisolta, che non è questa volta la tensione fra giudizio e legislazione, ma un pendolo continuo fra l’amministrazione e la giurisdizione: un pendolo nel quale l’amministrazione che dovrebbe tutelare tutti noi è il soggetto chiamato a cercare la soluzione equa che la legislazione non è stata capace di raggiungere, per la complessità della tematica.
Di qui azioni amministrative complesse ed incerte, lungaggini, sostanziali dinieghi di tutela come accade quando, anche attraverso tempi eccessivamente lunghi, non si riesce ad ottenere l’autorizzazione alla trasformazione dell’ambiente (via/vas e aia).
Qualche volta per l’attivismo delle associazioni ambientalistiche si verificano fenomeni patologici: si pensi al caso in cui una valutazione di impatto ambientale si trovi in istruttoria, debba essere ancora decisa, si sia aperto un procedimento amministrativo e nel contempo si apra un procedimento penale per tentato abuso d’ufficio in relazione allo stesso procedimento amministrativo.
Se rispetto ad una determinazione amministrativa ancora da assumere un’associazione ambientalista assume propriamente come unica opzione legittima la c.d. “opzione zero”, secondo cui l’opera non si deve fare e il codice dell’ambiente non la consente, se si parte quindi dall’idea che un determinato progetto sia irrealizzabile in tutto, il solo fatto della sua presentazione e della sua presa in considerazione può diventare dal punto di vista penalistico un tentativo di abuso d’ufficio.
E’ l’ipotesi in cui il problema non dovrebbe nemmeno essere posto con riferimento a un luogo, perché si tratta di un luogo sacro, ad. es. uno stadio in un parco, ed il progetto non dovrebbe essere nemmeno presentato.
È chiaro che se il pubblico ministero svolge una consulenza, il consulente conclude per l’opzione zero e la consulenza viene poi acquisita negli atti della commissione pubblica, l’autorità amministrativa, con uno stravolgimento del principio della divisione dei poteri, risulta sottoposta ad un esercizio del potere sotto dettatura, con esercizio del potere amministrativo da parte del potere giudiziario.
L’ambiente nella nostra società è purtroppo, come la religione, oggetto di conflitti o fondamentalismi.
Non necessariamente una causa ambientalistica è una causa buona, perché essa può essere strumentalizzata: si pensi al proprietario di un suolo acquistato a poco prezzo perché vicino ci sono delle stazioni radio-base che emanano onde elettromagnetiche nocive, il quale scateni poi le associazioni ambientaliste contro le stazioni radio-base per ottenerne la rimozione, allo scopo di fare una speculazione edilizia.
L’ambiente può associarsi agli interessi globali, può essere confliggente o associato agli interessi generali, può essere un gioco di specchi dell’economia capitalistica.
Nell’ambiente, come in qualsiasi altro interesse pubblico, è visibile il ruolo demoniaco del potere, di qualsiasi potere, non solo del Parlamento.
Di ciò siamo consapevoli. E non sarebbe difficile concordare sull’esigenza di esaminare i temi ambientali con freddo razionalismo.
Ciò nonostante non riusciamo ad affrontare questi temi senza un tasso di particolare conflittualità, se non di emotività (forse perché si tratta di gestire grandi rischi, paure, insicurezze legate allo sviluppo tecnologico), sicché possiamo dire che tra le determinazioni amministrative che sono più oggetto di contenzioso vi sono sicuramente le determinazioni in tema di ambiente.
E ciò spiega lo sfociare del tema e dell’interesse ambientale nelle gestioni emergenziali: le gestioni emergenziali si hanno quando la posizione degli interessi individuali si fa talmente forte da non riuscire più a far perseguire all’amministrazione l’interesse comune con linearità e con un minimo di ragionevolezza.

Percentualmente le discariche sono troppe rispetto ad altre modalità di smaltimento finale dei rifiuti. In Italia l’alternativa sono gli inceneritori, che sono una soluzione di transizione verso un modo estremamente complesso con cui, quando la tecnologia lo consentirà e se lo consentirà, le stesse imprese si faranno carico del destino finale del prodotto, esattamente dopo l’atto di consumo, e ci libereremo dello scarto del consumo.
Questo problema è stato assunto dal legislatore come meritevole di tutela e considerazione particolare a partire dal 1987, con il d.p.r. n. 915/1987, che amministrati vizza totalmente la materia di gestione dei rifiuti (“dalla culla alla tomba”), ma in tempi recenti è emerso con chiarezza (ad es. la crisi dei rifiuti in Campania) che l’amministrazione palesemente non ce la fa a gestire con i comuni, specie nel mezzogiorno, i prodotti di scarto della società industriale.
Il problema, come la Comunità Europea vede e progetta, può avviarsi a soluzione enfatizzando il concetto, derivato dal diritto privato, di responsabilità del produttore, che nella direttiva rifiuti è considerata responsabilità estesa del produttore, il quale è tenuto ad applicare la sua maggiore scienza, eventualmente consorziandosi con altri (e ciò dovrebbe essere favorito dal settore pubblico – amministrativo) per individuare modalità di smaltimento dei rifiuti che ne favoriscano il riciclo, il recupero, il riutilizzo.
L’amministrazione, nel frattempo, può operare per far sorgere degli inceneritori.
Nell’ambito di questo passaggio né semplice, né scontato, che richiede la mobilitazioni di molti saperi, non si può continuare ad aprire discariche, ma occorre costruire, medio tempore (fino all’epoca del recupero quasi integrale degli scarti), delle alternative: gli inceneritori.
Questi inceneritori sono stati costruiti in alcune regioni, in alcune regioni del Meridione invece no, non in Sicilia, in Puglia, non in Campania.
In Campania, in particolare, la situazione è collassata per una strutturale incapacità degli enti locali, che talvolta hanno società miste, in house, con dei punti di particolare debolezza sia per le infiltrazioni criminali sia per carenze gestionali: vi è stato un vero collasso del sistema della gestione, in mancanza di uno sbocco finale dei rifiuti e di investimenti finali chiaramente definiti.
Vi è la difficoltà di creare soluzione unitarie: l’ambiente non viene tutelato con una bacchetta magica, o attraverso un’impresa che si propone come solutore al problema, ma richiede una mobilitazione concorde di energie, uno spirito civico diffuso, una sensibilità che parta dal basso; altrimenti le imprese si scontrano con realtà sociali che non tollerano le scelte che vengono poste a monte su progetti ipotizzati per il migliore ciclo possibile di gestione dei rifiuti.
La gestione emergenziale della questione ambientale non deve non può diventare regola; bisogna evitare, anche laddove vi siano periodi di risorse scarse, che essa si trasformi in gestione ordinaria.
Questo avviene drammaticamente anche su un altro versante, che è quello della difesa del suolo, dai fenomeni sismici, dai terremoti; questi eventi luttuosi che si susseguono non sono esattamente solo effetto di sciagure, dovute al caso avverso o all’ira degli dei.
Le prime riflessioni sui terremoti risalgono al 700 (penso alla lettera di J.J. Rosseau a Voltaire sul disastro di Lisbona del 18 agosto 1756 in cui si afferma con chiarezza che la maggior parte dei mali naturali da cui siamo afflitti è opera nostra): sin da allora l’impressione è che l’uomo, quando accadono queste cose, spesso ci abbia messo lo zampino con la sua scarsa previdenza, con il modo con cui governa il territorio, con la concessione delle licenze; soprattutto con il modo in cui “non” vengono fatti degli investimenti per attuare i c.d. piani che le autorità di bacino hanno predisposto da lunghi anni per tutelare la sicurezza idrogeologica di un territorio, piani i quali richiedono di essere finanziati, piani non tutti urgentissimi ma che le crisi finanziarie dello Stato mettono da parte e che dovrebbero, invece, essere al centro delle politiche economiche e di qualsiasi politica rispettosa della sicurezza.
Noi avremo anche costruito un ottimo sistema di gestione delle emergenze, però la scarsità delle risorse e il malvezzo di considerare l’urbanistica come qualcosa di separato dalla giustizia, anche nelle aule dei tribunali, è un altro effetto della erarializzazione: si concentra la competenza in un unico luogo e quindi quello diventa il luogo dell’interdizione delle scelte.
Non si valuta l’ambiente al momento in cui la scelta sorge, dove sarebbe necessario, come sarebbe imposto dal principio secondo il quale la politica ambientale deve essere integrata nelle altre; la politica ambientale, anche nel momento in cui è intestata ad un ministero che ha una competenza specifica, è tutt’altro che integrata.
Personalmente ritengo che il Ministero dell’Ambiente dovrebbe essere un Ministero di coordinamento, non di spesa, la spesa dovrebbe essere lasciata agli Enti locali, perché l’ambiente va tutelato dal basso, e al Ministero dell’ambiente dovrebbero essere date funzioni simili a quelle della Presidenza del Consiglio e del Dipartimento degli Affari Regionali.

Sarebbe estremamente utile che si potessero convocare continue conferenze in materia di ambiente, promosse dalla politica nazionale, non solo per fare il calcolo delle risorse disponibili in chiave di sistema, a causa delle esigenze di risanamento dei conti pubblici che consigliano di agire di concerto per concentrare gli interventi, non solo sul modo di spendere i fondi che affluiscono sempre in modo esiguo, ma soprattutto in quanto ogni scelta politica, amministrativa nasce con a fianco delle valutazioni ambientali, che è bene siano fatte sin dall’inizio, prima che si arrivi all’emergenza ambientale, prima che il treno sia già partito e in corsa.
Gli effetti negativi dell’erarializzazione sono molti: il primo è l’attenuazione della tutela dei diritti soggettivi, il secondo è la tensione fra amministrazione e giustizia,questione irrisolta, il terzo è la separazione fra le politiche di settore dalle politiche ambientali.
Per non chiudere con una nota negativa , c’è da dire che tra le più moderne tecniche ci sono quelle per cui il diritto amministrativo simula il mercato: le tecniche dell’ecologia di mercato possono portare ad un ulteriore sviluppo verso l’obiettivo di una democrazia ecologica dal basso.
In primo luogo perché esse, pur concepite spesso a livello internazionale, richiedono un’attuazione locale.
In ciò si accompagnano ad uno sviluppo dell’amministrazione ambientale in senso federalista e decentrato o deconcentrato. E tale sviluppo è vitale per poter concepire una democrazia ecologica.
In secondo luogo perché esse appaiono ben consone all’economia di mercato ed agli interessi che si muovono nella società civile. E nessuna democrazia ecologica è possibile senza il coinvolgimento della società civile (che può fare ben più dell’amministrazione in tema di ambiente).
Certo, siamo lontani dai mutamenti che sarebbero necessari, mutamenti nei paradigmi concettuali del diritto privato, ancora troppo incentrato su un concetto egoistico/individualistico della proprietà che mette in ombra l’interesse ambientale.
L’ecologia di mercato è tuttavia già una realtà.
Sicuramente vi sono già dei meccanismi, per esempio nel trattato di Kyoto, che consentono lo sviluppo di mercati che hanno come scopo la protezione dell’ambiente. Si pensi al mercato del commercio dei c.d. “permessi ad inquinare”: si stabiliscono delle quote massime di emissioni nocive di CO2, responsabili dei cambiamenti climatici, e queste quote vengono ripartite fra gli Stati, che a loro volta le ripartiscono fra le imprese.
C’è un tetto di sopportabilità delle emissioni, che va specificato Stato per Stato e fra le imprese, ma il meccanismo non è rigido, l’assegnazione delle quote è mobile, ed i permessi ad inquinare talvolta sono legati ad investimenti che vengono fatti verso i Paesi in via di sviluppo o dell’ex Unione Sovietica, che valgono diritti ad inquinare: quindi i permessi sono collegati strettamente alla capacità dell’impresa di effettuare investimenti sostenibili.
Altro meccanismo molto simile è quello vigente in materia di certificati verdi, nel mercato delle energie rinnovabili; anche qui il presupposto di tutto è che le imprese per una certa quota hanno l’obbligo – che quindi è una sorta di limitazione alla libertà d’impresa – di produrre con energie rinnovabili.
Questo non vuol dire che tutte le imprese sono in grado di produrre energie rinnovabili, ma possono acquistare i c.d. certificati verdi dalle aziende che le producono e che a loro volta hanno un duplice vantaggio: produrre energie rinnovabili e vendere l’emissione del certificato verde. Ogni kW prodotto da energia rinnovabile dà diritto ad un certificato verde che viene scambiato nel mercato: dei certificati verdi si occupa la borsa elettrica, che è un mercato specializzato nell’energia.
Alla fine il diritto ambientale non è solo un diritto speciale nel mercato, nel diritto dell’economia, ma un pezzo importante di questo settore specialistico della produzione dell’energia, un pezzo importante del “diritto del mercato” e non solo un diritto da conoscere per chi vuole operare “nel mercato”.
Ciò ci dà l’idea di come siamo passati dalla fase aurorale alla fase matura del diritto ambientale.