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Intervento alla Tavola Rotonda “L’ambiente tra diritto individuale e interesse collettivo”, Università di Roma La Sapienza, 21 gennaio 2010

di - 30 Aprile 2010
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Già da una decina di anni si sentiva parlare di uso alternativo del diritto, e uno dei suoi campi era il diritto ambientale: uso alternativo era inteso in alcune sue frange come uso promozionale del diritto con espliciti obiettivi politici, ma in realtà si trattava di una sorta di metodo di riflessione della giurisprudenza su se stessa, di un incontro del giudice con alcuni articoli della carta costituzionale – l’art. 3, art. 9 (la tutela del paesaggio), l’art. 32 (il diritto alla salute) – finalizzato a dare tutela diretta a queste situazioni sul piano civile, sul piano penale.
Sul piano penale si è arrivati al concetto di colpa e di danneggiamento, muovendosi nell’ambito dell’art. 635, il che già dimostra una certa ristrettezza di prospettive e di approdi raggiungibili con l’armamentario di diritto comune: l’art. 635 tutela essenzialmente il patrimonio individuale; difficile piegarlo ad altri più generali usi.
La giurisprudenza ha tentato di applicare norme generali a singole fattispecie: ad esempio la norma sul furto aggravato ex art. 624 è stata applicata all’uccisione degli uccelli, visti come patrimonio dello Stato.
In questa fase il diritto ambientale è stato tutelato, tuttavia, non solo sul piano obiettivo, penalistico ma anche come diritto individuale, collegandolo direttamente agli artt. 32 della Costituzione e 2043 del codice civile.
Si è compiuta un’operazione abbastanza semplice: il codice civile, meglio del codice penale, contiene clausole generali, e l’art. 2043 è una di queste, in quanto clausola generale ancora in auge ed estremamente duttile (basti pensare a come funziona la responsabilità delle amministrazioni o il problema dei diritti della personalità; istituti giuridici sempre nuovi sono accolti e plasmati grazie a questa norma).
La valenza di questa norma, accompagnata dalle azioni inibitorie dell’art. 700 del c.p.c., fa capire come, quando negli anni 60 e 70 si faceva politica nucleare e si decidevano le localizzazioni delle centrali, il cittadino potesse insorgere, ovviamente avendo i requisiti della vicinitas rispetto agli impianti nucleari che erano stati localizzati in una sede piuttosto che in un’altra, e facendo valere non l’interesse legittimo ma certamente un diritto soggettivo.
Questa prima fase storica – aurorale – del diritto ambientale si costruisce attorno ad un paradigma di diritto soggettivo individuale, secondo cui spetta a tutti e a ciascuno il diritto ad una vita salubre; in sostanza il diritto all’ambiente è ricompreso nel diritto alla salute.
C’è stata poi una trasformazione messa in atto da un altro dei formanti dell’ordinamento: la legislazione.
Il legislatore è intervenuto infatti dopo un sonno piuttosto lungo, dandoci delle ottime leggi.
La prima è la legge Merli, che tutela le acque in modo efficace, stabilisce degli standard di ammissibilità-accettabilità delle sostanze che vengono immesse nelle acque, incarica le amministrazioni di controllare il rispetto degli standard a vari livelli, cataloga gli scarichi delle acque civili e di altro genere, impone la depurazione degli scarichi alle imprese.
Circa il problema dei rifiuti, nasce una disciplina amministrativa negli anni 80: qualche anno dopo la prima disciplina amministrativa della fine degli anni 70, del 1976, interviene infatti il testo unico sui rifiuti con una normativa che gestisce i rifiuti in modo pubblicistico, ossia con un regime che prevede controlli di tipo amministrativo, abilitazioni per gli operatori che ritrattano i rifiuti e che si preoccupa anche della destinazione finale del rifiuto in discarica.
Un cambiamento avviene nel 1986 con la nascita del Ministero dell’Ambiente. Le cose cambiano innanzitutto perché la legge istitutiva del Ministero prevede una specifica disciplina del danno ambientale, il quale è la clausola generale a cui deve guardare il Ministero per tutelare il bene giuridico che gli è stato affidato.
In realtà il Ministero viene istituito perché dell’ambiente si inizia ad avere una concezione di tipo erariale: l’ambiente alla fine è considerato parte di un patrimonio pubblico, il danno ambientale un danno che si traduce in danno all’erario, addirittura si è pensato che dovesse agire la Procura della Corte dei Conti in tema di danno ambientale.
L’ambiente, invece di essere un bene che spetta a tutti e a ciascuno, direttamente attinente all’esercizio e alle vicende dei diritti soggettivi, viene devoluto alla prospettiva pubblicistica.
Si tentava così di rispondere alla crescente complessità della giustizia in materia ambientale e ad una certa incertezza dovuta alla centralità eccessiva della giurisprudenza.
Era necessario descrivere un quadro maggiormente ordinato di competenze: però questo quadro delle competenze si è tradotto in un lieve slittamento, quasi inconsapevole, dell’ordinamento dal momento privatistico a quello pubblicistico, senza che questo abbia mai comportato una regressione del ruolo delle competenze dell’autorità giudiziaria ordinaria in materia ambientale.
Il risultato è una tensione irrisolta fra il momento della scelta amministrativa e il momento del controllo giudiziario.
Tutta la legislazione ambientale è costruita sugli standard tecnici: in realtà il legislatore non è sempre veramente in grado di fare delle scelte che dicono come vada tutelato il bene ambiente e come attuare alcuni parametri generali e gli allegati tecnici, i quali possono essere più o meno precisi e spesso hanno bisogno di essere completati e concretizzati da scelte amministrative.

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