Intervento alla Tavola Rotonda “La questione ambientale”, Università di Roma La Sapienza, 15 gennaio 2010

Intervento alla Tavola Rotonda “La questione ambientale”, Università di Roma La Sapienza, 15 gennaio 2010

Man mano che parlava chi mi ha preceduto, è cresciuta la preoccupazione da parte mia di trattare la parte giuridica, nella consapevolezza, soprattutto dopo quello che abbiamo sentito, che un approccio solo giuridico al problema ambientale sia sicuramente un approccio inadeguato.
Il Prof. Satta ha fatto riferimento all’origine degli strumenti del diritto ambientale in Italia, e ad un saggio di Massimo Severo Giannini del 1973 sull’ambiente (M.S. Giannini, Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. Trim. Dir. Pubbl. 1973, 15).
Già con quel saggio vi era la consapevolezza da parte di Giannini del carattere multidisciplinare dell’ambiente; Giannini distingueva il diritto ambientale in tre aspetti: l’aspetto ecologista, visto come la lotta all’inquinamento, l’aspetto legato al concetto costituzionale di tutela paesaggistica, ed infine l’aspetto legato al governo del territorio e all’urbanistica.
Giannini già al tempo era consapevole che la sensibilità ambientale in tutti gli Stati era nata a partire dagli anni ‘70 e, infatti, solo le Costituzioni europee “giovani” o revisionate contengono un diretto riferimento all’ambiente; riferimento che invece manca nella nostra Costituzione.
Giannini era inoltre consapevole del fatto che tutte le problematiche ambientali influivano sulla politica, sull’economia, sulla scienza, ovviamente anche sul diritto, diritto che può regolare la politica ambientale e che pone delle limitazioni o degli incentivi alla tutela dell’ambiente.
Il concetto, che all’inizio ha ricordato il Prof. Satta, di tutela dell’ambiente come bene giuridico relegato all’impostazione di tutela degli interessi individuali – personali è progressivamente svanito, perché ci si è resi conti che l’ambiente ha una natura super- individuale, che prescinde dai singoli beni come la proprietà.
Quello giuridico è un approccio alle problematiche ambientali inadeguato.
Noi giuristi non siamo riusciti a dare una definizione della nozione di ambiente:
tramontato l’ancoraggio dell’ambiente al concetto di bene giuridico il problema si era un po’ sopito nel nostro ordinamento ed è riemerso con forza dopo la riforma del titolo V della Costituzione: con tale riforma l’ambiente è entrato non nella prima parte della Costituzione quale valore portante da proteggere, ma nel titolo V, nel riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni (è stato stabilito che la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema è una materia di legislazione esclusiva dello Stato).
Nelle diverse legislature sono stati più volte riproposti disegni di legge per introdurre nella prima parte della Costituzione una norma forte di tutela dell’ambiente, ma ciò non è mai avvenuto.
Il silenzio della prima parte della Costituzione sull’ambiente, però, non ha creato un vuoto di tutela costituzionale, perché la Corte Costituzionale ne ha fatto, in via pretoria, un valore fondante e costituzionalmente protetto del nostro ordinamento.
È riesploso il problema definitorio quando si è trattato di decidere su chi fra lo Stato e le Regioni dovesse intervenire in materia, e la stessa Corte Costituzionale ha avuto difficoltà a dare una nozione di ambiente; rispetto ad altre materie dell’art. 117 della Costituzione che sono materie “a compartimento stagno”, l’ambiente, come è stato anche riconosciuto dalla Corte Costituzionale, non è una materia, ma una finalità, una materia trasversale, una materia fine (il che significa che io Stato, dato che il legislatore mi ha riconosciuto una competenza esclusiva nella materia ambiente, posso intervenire in tutti i settori con la finalità trasversale di proteggere l’ambiente e posso farlo anche intersecando con le competenze di altri centri decisionali).
Questo non ha comunque risolto il problema dell’allocazione del livello decisionale ottimale delle politiche ambientali ed io penso che per individuare la corretta politica ambientale, per dare risposta al problema del surriscaldamento, e simili, sia necessario stabilire quale sia il livello decisionale ottimale.
Il prof. Satta ha richiamato i principi dell’ordinamento comunitario, il quale ha introdotto nel nostro ordinamento il principio di sussidiarietà – secondo il quale le decisioni dovrebbero essere prese al livello più vicino al cittadino e per allontanare dal cittadino il livello decisionale ci devono essere esigenze di carattere unitario.
Per l’ambiente il discorso è complicato.
Io abito in montagna, nelle Dolomiti, dichiarate patrimonio dell’Unesco: le decisioni che possono attenere ad interventi sul luogo e sull’ambiente di quelle zone sono decisioni che è corretto che vengano prese a livello territoriale vicino oppure è corretto che ci si allontani?
Esigenze di carattere unitario ci sono sicuramente per l’aspetto paesaggistico (la Corte definisce il paesaggio come l’ambiente nel suo aspetto visivo, esteriore).
Tali esigenze sono ancora più rafforzate quando invece andiamo verso il profilo a contenuto forte, della tutela dall’inquinamento, dell’aspetto ecologico; qui bisogna mettere insieme una serie di elementi e conoscenze scientifiche, non giuridiche.
Facilmente lo Stato sarà più sensibile al problema di una politica di contenimento rispetto al riscaldamento del pianeta, e può fornire un approccio globale sicuramente più di un Comune, di una Provincia e di una Regione.
Il livello decisionale cambia a seconda della materia e del singolo intervento, a seconda dei singoli settori (farò più avanti un esempio pratico per capire il nostro approccio giuridico a questo tipo di problematica, avendo lavorato al Consiglio di Stato per 10 anni nella sezione che si occupava delle controversie ambientali).
Il primo problema è quello di individuare il livello in cui devono essere prese determinate decisioni, e la mia opinione è che un” livello sovrastatale” debba farsi carico di problemi di ordine più generale, e il “livello Stato e Regioni” di problemi interni.

Nota:
Trascrizione dell’intervento del Consigliere Roberto Chieppa al Master universitario di II livello in Diritto dell’Ambiente dell’Università La Sapienza di Roma in occasione della Tavola rotonda “La questione ambientale”.

Più volte si è parlato del concetto di “sviluppo sostenibile”: il Trattato della Unione Europea e i più recenti studi in materia di diritto ambientale riprendono il concetto.
Il concetto, anche se viene utilizzato dal giurista, non è strettamente giuridico, forse più economico – è stato prima sottolineato, per esempio, come la decrescita non sia strumento adeguato per risolvere le problematiche ambientali e crei ulteriori problemi -.
Il concetto di sviluppo sostenibile si interseca con i profili di carattere economico: prendendo l’esempio della montagna, il problema del riscaldamento nelle zone montane è avvertito con preoccupazione per tutti quei comuni dove l’economia turistica si basa soprattutto sul turismo invernale, legato alla neve e allo sport dello sci. Qui il tema dello sviluppo sostenibile si interseca anche nei dibattiti sull’adeguatezza delle scelte di chi continua ad investire sugli impianti sciistici a determinate quote di altitudine (scelte che possono variare in funzione del problema del surriscaldamento dell’atmosfera).
Abbiamo avuto al Consiglio di Stato una serie di controversie per la contestazione dell’ampliamento di alcuni comprensori sciistici sul territorio montano, ampliamento preceduto dal procedimento di VIA: è evidente che nuovi impianti sciistici producono un maggiore impatto ambientale, ma non per questo l’ampliamento è da considerarsi non consigliato, altrimenti la risposta a tali procedure sarebbe sempre negativa, esso va considerato all’interno del concetto di sviluppo sostenibile, valutando i pro e i contro e quali delimitazioni siano possibili.
A noi giudici molto spesso è assegnato il compito non facile di verificare se la valutazione di impatto ambientale (che spesso attiene più a profili economici – scientifici che giuridici), sia corretta e molto spesso ci si scontra con l’esigenza di carattere economico di consentire lo sviluppo in determinate zone – che altrimenti rimarrebbero limitate se non avessero l’ampliamento delle possibilità legate all’imprenditoria sciistica -, e con le previsioni sui benefit che può dare quello che, in maniera più o meno grave, è un sacrificio all’ambiente.
In Svizzera sostengono di non investire più al di sotto di 2000-2500 metri di altitudine, in Italia abbiamo quote più basse e si sta continuando ad investire, ma tutto questo è oggetto di discussioni, nell’ambito delle quali la politica non riesce a dare risposte adeguate.
Nel nostro ordinamento viene portata avanti con estrema difficoltà una vera politica ambientale, perché l’esigenza del politico spesso è legata al contingente, per dare risposte in un orizzonte temporale molto ma molto limitato, in quello di una o due legislature, mentre spesso le previsioni legate all’ambiente riguardano decenni, o comunque molti anni.
Quindi molto spesso la politica dell’ambiente, la gestione politica dell’ambiente è fatta da persone non del tutto adeguate.
Un po’ ci ha aiutato l’ordinamento comunitario, come ricordava il Prof. Satta all’inizio. L’ordinamento comunitario ha tre principi cardini dal punto di vista giuridico dell’ambiente: il classico principio di prevenzione, che intende prevenire gli effetti negativi sull’ambiente, il principio di precauzione e il principio del “chi inquina paga”.
Il principio “chi inquina paga”, badate bene, non è il classico principio relativo riferito a chi causa dei danni all’ambiente colposamente, e cioè con comportamento colposo o doloso, ma riguarda anche chi senza violare nessuna norma, perché autorizzato, causa un pregiudizio ambientale e per questo si deve far carico anche del ripristino.
In Italia abbiamo una serie di attività industriali che causano delle immissioni nell’atmosfera, nelle acque, nel terreno: queste immissioni devono rimanere entro dei limiti legali, ma ciò non significa che entro quei limiti l’impatto ambientale non ci sia; entro quei limiti l’impatto è accettabile e ciò sottointende il concetto di sviluppo sostenibile.
Allora è corretto che nell’esternalità a cui si faceva riferimento prima, rientrino una serie di prescrizioni imposte a quei soggetti a cui viene consentito di immettere qualcosa nell’atmosfera, nell’acqua. Perchè si facciano carico anche del rischio ambientale di queste opere.

La vera frontiera del diritto ambientale è il principio di precauzione;
il principio comporta che proprio nel fissare dei limiti, degli standard di qualità ambientale, non si segua il criterio “è accertato che questa attività procuri danno all’ambiente e quindi la vieto”, ma che si usino delle misure di precauzione in modo da arrestare quelle immissioni, quelle attività, prima, laddove ancora non si abbiano conoscenze scientifiche per negare o affermare che una determinata nuova attività possa comportare danno all’ambiente o alla salute.
Si usano  delle misure di precauzione che garantiscono che l’eventuale danno possa essere evitato.
Il problema però sta nell’individuazione di questi standard.
Abbiamo avuto al C.d.S. un enorme contenzioso che ha riguardato l’inquinamento elettromagnetico.
Dopo lo sviluppo della telefonia cellulare e la liberalizzazione del settore, i vari gestori, nel corso degli anni, hanno creato una propria rete con l’istallazione delle c.d. stazioni radio-base, radio-mobili, che consentono di avere sul nostro cellulare il campo sempre pieno.
Queste stazioni sono disseminate a rete sul territorio; lo sviluppo di questa nuova tecnologia ha comportato una certa apprensione nella popolazione, laddove magari si vedeva il sorgere di un’antenna, di una stazione nelle vicinanze.
In Italia si è provveduto in ordine sparso all’inizio, nel senso che si sono avuti i provvedimenti più disparati a riguardo; determinati comuni hanno posto dei limiti alle emissioni di onde elettromagnetiche autonomamente, le Regioni anch’esse sono andate per ordine sparso, finché non è intervenuta la Corte Costituzionale che ha affermato che i limiti possono essere fissati solo dallo Stato alla luce anche del principio di precauzione, anche se è un settore in cui non c’è certezza sugli effetti a lungo termine dell’esposizione alle onde elettromagnetiche, certezza che acquisiremo nel tempo.
La corretta applicazione del principio di precauzione implica di stabilire dei limiti sotto i quali c’è una certa garanzia e man mano che le certezze di carattere scientifico aumentano quei limiti possono subire variazioni in alto o in basso.
Vorrei tornare ad un passaggio degli scritti di Giannini che ricordava il Prof. Satta.
In uno dei suoi scritti degli anni ‘70 Giannini già avvertiva la necessità di una vasta attività conoscitiva per comprendere i rischi ambientali e le misure più adatte per contrastarli.
Avvertiva, Giannini, che il disaccordo tra gli uomini e la scienza potesse lasciare gli amministratori impotenti sul da farsi ed esponeva al rischio che interessi privati di imprese e di potenze multinazionali potessero agire in tali ambiti facendo pressione sugli amministratori.
Il principio di precauzione comporta, ovviamente, la necessità di fissare livelli o di vietare l’uso di sostanze o il compimento di alcune attività, ma sarebbe necessario che l’attività di carattere scientifico fosse svolta in modo autonomo.
Prendiamo ad esempio l’inquinamento elettromagnetico: è evidente che qualora emergessero degli accertamenti scientifici più preoccupanti sull’utilizzo di queste moderne tecnologie si potrebbero avere dei riflessi imprenditoriali, economici, forti: da qui l’esigenza che gli accertamenti siano effettuati in modo del tutto autonomo rispetto all’ottica imprenditoriale, che invece può avere interesse allo sviluppo di queste nuove tecnologie.
La storia del diritto ambientale in Italia sta tutta in questi contrasti: basta analizzare le controversie amministrative, in cui a volte c’è confusione fra l’aspetto più strettamente giuridico, l’aspetto politico e l’aspetto scientifico.

Al C.d.S. abbiamo avuto una gran serie di controversie che hanno riguardato l’installazione di centrali termoelettriche o dei rigassificatori.
Gli interventi del legislatore ci sono stati solo all’indomani del black out elettrico in cui si è trovata l’Italia nel 2002.
È stato adottato un decreto legge blocca – centrali con cui venivano accentrati i compiti decisionali in materia di impianti di produzione di energia elettrica: questo ha scatenato un notevole contenzioso sia dinanzi alla Corte Costituzionale (laddove le Regioni contestavano quest’accentramento dello Stato in materia) e la Corte si è espressa per la legittimità delle nuove norme perché il problema del fabbisogno energetico non può essere segmentato tra le singole Regioni; di per sé l’autosufficienza della Regione dal punto di vista energetico non sposta il problema che vi possa essere la necessità di costruire nuove centrali per produrre energia anche per le Regioni confinanti.
Il contenzioso c’è stato anche in sede amministrativa, e quello che più mi ha sempre colpito è il continuo ripensamento delle amministrazioni, sulla decisione di installare, costruire una centrale termoelettrica, un rigassificatore: al di là dei problemi scientifici che potevano attenere alla validità delle considerazioni svolte in sede di valutazione dell’impatto ambientale, molto spesso il contenzioso è ruotato intorno alle decisioni delle singole amministrazioni, che cambiavano idea anche al cambiare del “colore politico”.

Ciò ha comportato un grande ritardo nel prendere la decisione finale, al di là che la decisione corretta fosse la realizzazione della centrale, o meno. Un aspetto che caratterizza l’Italia è quello di non sapere decidere, di ritornare su decisioni già prese (vedi: ponte sullo stretto di Messina).
Io penso che l’apprensione della cittadinanza, ad esempio nei casi delle stazioni di telefonia mobile, sia dovuta proprio alla contraddittorietà delle condotte e dei comportamenti di chi deve assumere determinate decisioni.
L’elenco potrebbe continuare: ricorderete il contenzioso sull’individuazione del sito di deposito delle scorie nucleari; questione che si trasferì anche dinanzi la Corte Costituzionale, che disse che lo Stato poteva individuarlo sentendo però le Regioni e i Comuni.
Al C.d.S. abbiamo avuto una controversia, decisa qualche tempo fa, in cui si discuteva di un’autorizzazione rilasciata dal Ministero ad un’impresa privata per la cavazione di un determinato materiale in una zona in cui questo materiale era abbondante e molto ricco di qualità; l’autorizzazione alla cavazione comportava pregiudizio per due sorgenti idriche che rifornivano due piccoli Comuni.
Si discuteva se alla fine della cavazione queste sorgenti sarebbero del tutto scomparse e nel frattempo l’impresa privata si proponeva di fare realizzare un acquedotto alternativo per la fornitura dell’acqua.
Nel corso di un accertamento di carattere tecnico piuttosto complesso fatto in sede giurisdizionale (a volte esiste la difficoltà per il giudice amministrativo di un approccio così tecnico a tematiche così complesse), emerse che la qualità dell’acqua che le sorgenti fornivano a quei Comuni era elevata, mentre la qualità dell’acqua che proveniva dall’acquedotto alternativo era scarsa e che per essere resa potabile doveva essere sottoposta a trattamenti.
Per la valorizzazione del bene acqua come risorsa scarsa fu annullata quell’autorizzazione e fu data prevalenza alla “risorsa scarsa” rispetto all’attività imprenditoriale. Una valutazione strettamente economica avrebbe condotto alla scelta già fatta dall’amministrazione: ma che succederebbe se questa valutazione economica la esportassimo e applicassimo a 100 casi?
Ora mi soffermo su due ulteriori punti.
Uno è ribadire la necessità di individuare centri decisionali ottimali: abbiamo parlato prima della tutela del paesaggio. Anche in questo ambito si è passati dal vecchio sistema di tutela paesaggistica al nuovo, delineato dal legislatore nel codice del 2004, che non è mai partito.
In quest’ambito si sta discutendo molto per decidere quale organo comunale, regionale, provinciale, statale debba rilasciare l’autorizzazione paesaggistica per effettuare interventi-modifiche in zone sottoposte a vincoli sotto il profilo ambientale.
A volte quello che può sembrare il luogo ottimale, in realtà è inadeguato: questa estate sono stato in vacanza in Brasile presso le cascate Iguassu, che si trovano al confine tra il Brasile e l’Argentina. Dal lato argentino delle cascate è stato realizzato un grande complesso alberghiero, probabilmente molto bello dall’interno per la visuale; dal lato argentino esso era abbastanza mascherato e non si notava, ma dal lato del Brasile era un pugno in un occhio nel complesso del panorama, una macchia di cemento.
A volte una decisione incide a livello paesaggistico e può riguardare più Stati, ma con un approccio limitato anche a livello di città (il lato argentino della cascata non è stato alterato dal complesso alberghiero e quindi l’autorizzazione alla costruzione dell’edificio da parte delle autorità argentine può risultare inadeguata rispetto alla tutela di beni che sono patrimonio dell’umanità, perchè si tratta di un patrimonio di tutti e non solo di chi è cittadino).

L’ultimo riferimento è al danno ambientale.
Prima ho fatto riferimento al principio del “chi inquina paga”: chi pone in essere attività legittime autorizzate che possono arrecare pregiudizio deve farsi carico di rimediare o adottare misure compensative; vi sono altri casi invece in cui si verifica un vero e proprio danno ambientale (ex art. 2043 del c.c.), in quanto causato con colpa o dolo da una condotta non conforme ai precetti dell’ordinamento.
Perché le imprese non si pongono il problema dell’ambiente? Perché il nostro ordinamento ha posto in essere una tutela inadeguata per il danno ambientale e le ultime modifiche normative, che si sono avute con il decreto il Decreto Legislativo 3 aprile 2006 n. 152, recante “Norme in materia ambientale, hanno aggravato, a mio parere, l’inadeguatezza della tutela.

Noi abbiamo detto che l’ambiente non è un bene giuridico, ma qual è il problema dell’azione per il risarcimento del danno? Il problema è che l’azione per il risarcimento del danno ambientale non può essere lasciata al singolo: il singolo che sarà proprietario dei terreni inquinati sicuramente avrà una protezione, ma il problema reale dell’inquinamento è che non interessa solo i proprietari dei terreni, per cui serve un’azione esercitata nell’interesse della collettività.
Quando nel 1986 è stato creato il Ministero dell’Ambiente, era previsto, all’art 18 di quella legge, che le azioni di risarcimento del danno ambientale fossero esperite dalle amministrazioni dinanzi al giudice ordinario.
Potevano agire anche Comuni, Regioni e Province e poi si diede una legittimazione ad agire anche alle associazioni ambientalistiche.
Non si è mai trattato di un’azione facile, anche perché in queste controversie di danno ambientale si sono sempre intersecati i cambiamenti di proprietà e di gestione delle varie industrie, che hanno reso complicatissima l’individuazione del responsabile.
Nella maggior parte delle controversie arrivate al C.d.S., abbiamo come parte una società, a cui si sono succedute varie proprietà, nonché trasformazioni societarie, e ciò comporta che il vero responsabile del danno ambientale possa riuscire a farla franca, magari avendo inquinato per anni senza mettere nel bilancio questa esternalità.
Questo sistema è stato complicato dall’ultima riforma, in cui l’azione di danno ambientale è stata accentrata in capo al solo Stato; alle Regioni, Comuni e Province è stato dato solo il potere di intervento nell’azione ed è stata tolta la legittimazione alle associazioni ambientalistiche.
L’accentramento in capo allo Stato è stato accompagnato dal fatto che lo Stato può non solo esperire il tipico giudizio civile di azione risarcitoria per il danno ambientale, ma può anche adottare poteri unilaterali di ordinanza con cui ordinare il ripristino e condannare anche al risarcimento del danno.
L’impressione è che ultimamente si sia ridotto l’utilizzo di questo strumento, che rimane non efficace.
Il problema è di risarcire la collettività per il danno creato alla salute e, rispetto a questo risarcimento, gli strumenti di tutela che offre l’ordinamento sono inadeguati.
In conclusione, tornando alle problematiche ambientali più generali, si osserva che un approccio corretto al problema si deve fondare su conoscenze scientifiche, che sono in corso di acquisizione, ed è necessario uno spostamento dei livelli decisionali anche a livello sovranazionale.
Dalla capacità del sistema tutto, non solo quello nazionale, di coniugare l’innovazione tecnologica con quel concetto un po’ sfuggente di sviluppo sostenibile dipenderà la risoluzione di molte problematiche che forse trascendono la questione giuridica e attengono a problemi più delicati e complessi.
Bisogna trovare un equilibrio fra i modelli di consumo degli Stati industrializzati e le condizioni di vita dei paesi in via di sviluppo.
Sicuramente c’è lo spazio per la pubblica autorità, forse il diritto ambientale è lo spazio in cui più vi è l’esigenza di misure pubbliche, dato il carattere non individuale del bene ambiente, ed è importante che le decisioni siano prese dal potere pubblico.
Premesso questo, l’approccio non può essere solo giuridico: anzi esso viene in secondo ordine rispetto alla parola degli scienziati.