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La competizione fa bene alle università

di - 25 Febbraio 2010
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3. Per un’equa competizione tra le università
Per far sì che la competizione tra le università contribuisca, unitamente ad altre misure, a invertire la pericolosa tendenza al declino sociale, civile ed economico dell’Italia, occorrono varie misure:

a) secondo il principio del merito – l’unico idoneo a valorizzare appieno il principio di eguaglianza, al di là delle condizioni ereditate dalla storia – i finanziamenti pubblici per la ricerca devono essere concentrati. Se sembra eccessivo, per garantire un certo livello di consenso, che solo i migliori talenti, i migliori gruppi di ricerca accedano a quelle risorse, si stabilisca una quota ben più elevata dell’attuale. Se sembrano discutibili i criteri elaborati in prima battuta dal Ministero, si propongano criteri più congrui;

b) quanto all’altra fondamentale funzione delle università, la didattica, la competizione presuppone pari opportunità tra i soggetti, pubblici e privati, impegnati nella dialettica selettiva. Tocca alle regole e agli arbitri chiamati a farle rispettare, di ricercare per quanto si deve, di imporre per quanto si può, la correttezza di quella dialettica. Un presupposto essenziale è l’elaborazione di standard minimi sulle informazioni rilevanti per gli studenti, le famiglie, i finanziatori. Esse vanno rese pubbliche ovunque;

c) in attuazione dell’articolo 34 della Costituzione, i poteri pubblici devono assicurare l’effettività del diritto allo studio, mediante borse di studio e altre forme di finanziamento, ora del tutto insufficienti nell’entità complessiva e nelle modalità di erogazione. Esse possono attivare un processo virtuoso, soprattutto se configurate come vouchers;

d) ai fini che qui interessano, mentre non è indispensabile prendere posizione circa il valore scolastico dei titoli di studio, vanno scoraggiate con decisione, con perseveranza le pratiche che accentuano il valore extra-scolastico (si pensi alle amministrazioni che, in sede di concorso per l’accesso ai pubblici uffici, danno rilievo al voto di laurea o al possesso di un solo tipo di laurea).

Risorse pubbliche per la ricerca, informazione, vouchers per gli studenti, eliminazione delle rendite di posizione: queste sono solo alcune delle misure fondamentali, connesse con la competizione – una fair competition – quale fattore di dinamismo sociale, con la politica istituzionale volta ad affermarla. Esse consentono, peraltro, d’impostare correttamente l’esame del disegno di legge di riforma delle università, soprattutto per la parte volta a migliorare la qualità della loro azione. Permettono, inoltre, d’indicare una diversa via per i concorsi, basata sulla perdita di reputazione per le università che scelgono e promuovono ricercatori e docenti mediocri, che non può essere sviluppata in questa sede.

4. Il disegno di legge: A) i progressi
Sulla base delle considerazioni svolte, si possono valutare le iniziative a rimuovere o quanto meno ad attenuare i problemi riscontrati. Giova dire subito che alcune di esse sembrano idonee a porre rimedio agli scostamenti anche sensibili che l’Italia presenta rispetto alla situazione dei Paesi più avanzati dell’Europa unita (come il Regno Unito e l’Olanda), i quali si configurano come altrettanti punti di debolezza. Altre misure, invece, lasciano invariati quei punti di debolezza.
Nel novero dei progressi, spicca, in modo esemplarmente positivo, il rilievo attribuito al merito (articolo 1), malgrado le critiche pubblicamente esposte dai pochi zeloti di un astratto egualitarismo e le resistenze coltivate da altri, inclusi quanti sostengono la causa del merito finché non tocca il proprio hortus e le gerarchie in esso stabilite dall’età o da altri fattori. Oltre a perseguire una buona causa, il disegno di legge si occupa della mise en oeuvre: fa della premialità il criterio direttivo nell’uso delle risorse e istituisce un fondo per il merito (articolo 5). È da approvare senza esitazioni l’indirizzo che mira ad incentivare l’assiduità dell’impegno dei professori e ricercatori quanto alla loro produzione scientifica. Positivo è anche il giudizio sulle norme volte a introdurre un sistema di accreditamento delle università. Esse anticipano per numerosi aspetti gli orientamenti che in materia vanno definendosi in ambito comunitario, malgrado i modesti esiti della c.d. strategia di Lisbona. Queste misure vanno nella direzione giusta, l’unica che possa porre l’ordinamento italiano, certo non all’avanguardia in Europa, ma almeno non troppo distante dagli ordinamenti che da più tempo e con maggiore consapevolezza mostrano attenzione per i profili di efficienza ed equità.
Una sostanziale equivalenza con le best practices seguite dai Paesi più avanzati si riscontra, inoltre, per quanto riguarda l’introduzione di prove nazionali standard (articolo 4). Esse sono tanto più necessarie in quanto in un numero limitato, ma non irrilevante, di istituzioni scolastiche, soprattutto nel Mezzogiorno, i dati conseguiti dai test effettuati nel quadro del progetto PISA dell’OCSE sono stati viziati da influenze esterne, donde l’esigenza di correzioni statistiche. D’altronde, chiunque abbia un minimo di consapevolezza della varietà di orientamenti seguiti dalle commissioni di laurea in vari atenei italiani sa che anche il voto di laurea è un indicatore largamente imperfetto.

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