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Contraddittorio e partecipazione nel procedimento amministrativo

di - 12 Gennaio 2010
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La partecipazione al procedimento amministrativo è fenomeno profondamente diverso. Essa non attiene, infatti, al diritto di difendersi contro una pretesa altrui di fronte ad un giudice. Mira, al contrario, a contribuire alla formazione delle decisioni dell’autorità amministrativa affinché meglio si conoscano gli interessi coinvolti e se ne tenga conto. Il punto cruciale per comprendere il significato profondo della partecipazione è che tali interessi non necessariamente si contrappongono all’assetto verso cui si orienta l’amministrazione. Possono benissimo cospirare con esso, e sollecitare una miglior definizione del provvedimento, ad es. inserendolo in un contesto più vasto. Gli interessi in cui l’amministrazione va ad incidere con la propria azione possono insomma presentare una serie di aspetti e di sfaccettature di cui solo i portatori degli interessi stessi sono consapevoli. In termini più tradizionali, si può dire che la partecipazione è il veicolo attraverso il quale gli interessati possono contribuire all’esercizio della discrezionalità da parte della pubblica amministrazione.
Gli elementi di contatto tra contraddittorio e partecipazione sono evidenti. In entrambi i casi viene esercitato il right to be heard, il diritto di essere sentito. Mentre però il contraddittorio si svolge tra posizioni per definizione antagoniste (tra parti: attore e convenuto, pubblico ministero e imputato), di fronte ad un’autorità giudicante chiamata ad accogliere o respingere la domanda, assolvere o condannare, la partecipazione non necessariamente vede parti l’una contro l’altra armate. Il contrasto di interessi può esserci, ma anche non esserci. Ciò cui si mira è conseguire il risultato più equilibrato, complessivamente il migliore.
Merita aggiungere che mentre il contraddittorio segue sempre un modello tipico pur nella varietà delle forme di ciascun processo (notifica dell’atto introduttivo, termini per documenti, controdeduzioni, difese finali: variano i nomi, non la sostanza), la partecipazione al procedimento ha per sua natura una struttura atipica, eccezion fatta ovviamente per la necessità che l’amministrazione renda noto il suo intendimento di adottare un certo provvedimento. È strutturalmente atipica perché per definizione è atipica la configurazione degli interessi di volta in volta in gioco. Il percorso della partecipazione non può che adeguarsi a questa loro configurazione e, quindi, essere più o meno complesso ed articolato in funzione della loro complessità. Tanto per fare un esempio, a volte può essere necessario provare qualche cosa, che in altre circostanze può essere data per scontata; a volte sono necessari studi tecnici, storici, architettonici; a volte può emergere la necessità di procedere ad una pianificazione degli interventi e magari organizzare un vero e proprio sistema di audizioni (come accade per certi provvedimenti regolatori dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni).
In altri termini, la partecipazione al procedimento amministrativo è al tempo stesso principio e metodo per amministrare, né più né meno di quanto lo era, ad es., il segreto di ufficio. È un principio perché società complesse, con un regime di responsabile  democrazia, non saprebbero concepire un modo diverso di procedere per la cura degli interessi comuni. L’amministrazione non è né un nemico, né un sovrano lontano, ma il portatore di funzioni necessarie al buon ordine della vita collettiva. È un metodo, perché quanto più semplice è il gioco degli interessi, tanto più può essere semplificato il percorso delle comunicazioni, delle informazioni e delle formalità. Il grado di complessità indica i modi che si devono seguire di volta in volta. Il potere regolamentare delle amministrazioni esiste anche per questo.

10. Conclusioni: il d. l.vo n. 15/2005 e la sentenza Cass. 30 settembre 2009, n. 20935. Alla luce delle considerazioni che precedono si può chiarire perché il d. l.vo n.15/2005 e la sent. n. 20935/2009 della Cassazione abbiano indotto un grave arresto nella costruzione di un procedimento amministrativo moderno.
Già si è detto della gravità di una norma che fa dipendere la partecipazione al procedimento dalla valutazione ex post dell’amministrazione e del giudice sull’esito del procedimento e quindi sull’utilità della partecipazione.
Occorre qui ribadire che ruolo fondamentale del procedimento è condurre a decisioni per quanto possibile condivise per la tutela degli interessi comuni. Un assetto equilibrato dei rapporti tra cittadini ed amministrazione vuole che gli interessi comuni siano chiaramente definiti, e che l’intervento dell’amministrazione sia necessario solo in situazioni nelle quali le norme di riferimento non sono sufficienti per disciplinare i comportamenti. Si tratta chiaramente di stabilire questa soglia di sufficienza-non sufficienza materia per materia. Una volta definita, per tutte le attività che si collocano nell’area della sufficienza normativa nessun intervento dell’amministrazione deve essere richiesto. Bastano controlli casuali con finalità di deterrenza contro possibili abusi.
Se questo è vero, il d.vo n. 15/2005, ha assunto un orientamento opposto, e, duole dirlo, antiquato. Di fronte ad un insieme di amministrazioni certamente lente, cariche come sono di pratiche in larga misura inutili, ha introdotto autentici corto-circuiti di un vero procedimento: dichiarazione di inizio attività soggetta a mora deliberandi prima (ciò che equivale a richiesta di autorizzazione accoglibile con silenzio assenso), e poi a revoca in un tempo qualsiasi. Questo significa diffidare dei cittadini perché, pur non essendo necessario un provvedimento, non li si lascia fare – ciò che è un male; ma significa anche coprire questa diffidenza con una sorta di pannicello caldo. Ha poi introdotto il silenzio assenso per molti provvedimenti discrezionali: al quale, per sacrosanta paura di operare in base al nulla, sembra che nessuno faccia ricorso.

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