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Riflessioni sul rapporto tra etica ed economia

di - 8 Gennaio 2010
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Un sacrificio consumato  sull’altare di una finanza puramente speculativa, priva di qualsiasi ancoraggio “reale”, sospinta, sostenuta, gonfiata dall’insaziabilità di guadagno e dalla cupidigia.
Nel disorientamento seguito alle crisi gravissime di grandi istituzioni finanziarie, – quando tuttavia si riteneva ancora di trovarsi in presenza “solo” di una crisi finanziaria – abbiamo sentito levarsi sempre più insistenti voci a invocare una nuova Bretton Woods; a reclamare regole più severe e controlli più stringenti. Da molti si è sottolineata la improcrastinabile necessità di un’azione di supervisione globale, commisurata a fenomeni finanziari di scala planetaria.
Si è discusso di regole e controlli più penetranti e ad ampio spettro d’azione: dai tagli ai bonus dei Top Managers al contenimento dell’operatività in derivati, dal rafforzamento patrimoniale degli intermediari al ripristino della separazione  tra banche d’affari e banche commerciali.
Nelle sedi preposte a scrivere “nuove regole per la finanza” i lavori proseguono con impegno, nonostante la difficoltà di comporre interessi talora confliggenti. Siamo fiduciosi che i risultati non tarderanno.
Un punto è ormai acquisito: questa crisi è di natura “epocale”. Le risposte devono essere commisurate a tale carattere.
Maggiore severità delle regole, controlli più penetranti, sanzioni più onerose sono innegabilmente indispensabili. Ma se si ammette che quella che ci troviamo a fronteggiare non è una ordinaria, ancorché profonda, fase calante del ciclo, interventi e misure di carattere, nonostante tutto ordinario, sono palliativi che non aggrediscono il “morbo”. Regole severe, supervisione coordinata potranno poco o nulla se non si fa strada e non attecchisce l’idea che è necessario un cambiamento radicale di registro, individuale e collettivo, nel modo di intendere e di “sentire” la finanza e l’economia; soprattutto, se non si rivede la gerarchia di valori dove l’una e l’altra si collocano.
E’, questa, una considerazione che attiene prima di tutto alla nostra responsabilità di membri della collettività, nazionale, europea, mondiale; del nostro appartenere alla famiglia umana.
Dovremmo chiederci in quale società vogliamo vivere e operare; quale mondo pensiamo di lasciare ai nostri nipoti.
Una società si preclude ogni autentico progresso se si fonda sul primato del danaro, del successo personale, dell’ostentazione dei suoi simboli.
Alieni da ogni intento moralistico, non v’è chi non veda l’urgenza di rifondare le basi delle nostre società, ritrovando senso della misura e sobrietà di stili di vita; riscoprendo il valore insostituibile – ai fine dello sviluppo umano – di “beni”, come la cultura, l’ambiente naturale, il patrimonio artistico in tutte le sue declinazioni: in breve di tutto quello che si è soliti chiamare civiltà.
Su un altro versante occorre  riscoprire la fecondità di valori come  il rispetto dell’altro e della sua dignità, la solidarietà, l’altruismo, che non sono virtù per “anime belle”, ma passaggi per accedere a una più compiuta realizzazione della persona.
Infine, occorre trovare forme più adeguate e incisive di partecipazione attiva e disinteressata alla vita pubblica; una partecipazione indispensabile a far vivere le istituzioni, a rigenerarle ove necessario, perché esse possano servire al meglio gli interessi della collettività, il bene comune.
E tanto per restare realisticamente nel presente, è proprio dalle istituzioni che può prendere concretamente avvio quel cammino auspicato verso un ordine diverso della società, dove la sfera economica occupi un posto di rilievo, ma all’interno del complesso quadro delle relazioni sociali di cui la politica fa sintesi.
Per questo è necessario rafforzare le istituzioni e non depotenziarle; valorizzarne le finalità per le quali sono state create e non svuotarle di contenuto, allo scopo di piegarle a interessi particolari, estranei alla loro natura.
Si può obiettare che lo scenario delineato appare lontano dalla realtà presente; scenario che sembra peccare di ingenuità o addirittura di astrattezza se si guarda alla forza e alla pericolosità degli interessi costituiti che si frappongono a una trasformazione secondo le linee ideali tratteggiate. A questa obiezione vorrei replicare – e concludo- con John M. Keynes: “presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male”.

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