L’economia italiana: un’agenda per due crisi

[*] A differenza di altre, l’economia italiana vive due crisi. Una regressione di prodotto e di occupati che rischia di attestarsi sul 5 per cento si è innestata sull’andamento da anni pesantemente negativo della produttività. Dopo il 1992 il trend della produttività – comunque definita, comunque misurata – è stato deludente, segnatamente nella innovazione e nel progresso tecnico, abbattendo il ritmo di sviluppo del prodotto potenziale e pregiudicando la competitività delle merci italiane.
Carenze strutturali nell’agire dello Stato (nel bilancio e nel debito, nei servizi delle P.A., nelle infrastrutture fisiche e giuridiche per l’economia) hanno interagito in un circolo vizioso con carenze interne al sistema dell’Impresa (nel dinamismo dimensionale, nella qualità delle produzioni, nella accettazione della concorrenza, nel rifiuto delle vie troppo a lungo facili al profitto).
Le une e le altre carenze vanno attaccate con decisione. È questo altresì il presupposto per sostenere la domanda globale e favorire l’uscita dalla recessione. Occorre che Stato e Impresa agiscano, in modo non solo contestuale ma per quanto possibile sinergico, su almeno quattro fronti:
1) Un’opera pluriennale di riequilibrio della finanza pubblica e di ridimensionamento del debito deve muovere dal freno alla spesa corrente (nell’ordine: economie negli acquisti di beni e servizi, riduzione di personale, via turnover, taglio dei sussidi alle imprese, estensione dell’età pensionabile, efficienza nella sanità). Oltre che al pareggio del bilancio nel medio periodo, la misura e i tempi degli interventi devono corrispondere a una duplice necessità: dischiudere una fondata prospettiva di perequazione e alleggerimento della pressione tributaria e contributiva, fare spazio alla spesa pubblica per manutenere e soprattutto ammodernare le infrastrutture fisiche più vicine alle attività produttive (trasporti, comunicazioni, utilities, reti), in particolare nel Mezzogiorno.
2) Alla manutenzione e al potenziamento delle infrastrutture fisiche – finanziati anche con risorse private attraverso forme di project financing – è essenziale unire, nel novero delle infrastrutture immateriali, la riscrittura del diritto dell’economia e un suo credibile enforcement, non solo nelle circoscrizioni del Meridione. Il diritto amministrativo, ma anche il dirittocommerciale, societario, fallimentare, antitrust e il processo civile vanno ripensati secondo una visione unitaria, che adegui la rule of law del sistema produttivo alle esigenze della crescita.
3) Al favor oggi di fatto e de jure prevalente per la impresa ristagnante nella piccola dimensione, se non nel sommerso e nella inefficienza, occorre sostituire quello per l’impresa media dinamica e imprenditiva. Esso va idealmente raccordato alla riscoperta del ruolo della grande impresa (privata o pubblica, quotata o non quotata, a capitale nazionale o straniero), decisivo ai fini del selezionare, diffondere e applicare le innovazioni.
4) La concorrenza dev’essere affermata, accettata, fatta accettare. Dev’esserlo nel senso, non statico, del sollecitare le imprese a seguire le vie meno scontate all’utile, assicurando il livellamento tendenziale del saggio di profitto tra settori e aziende, a parità del salario pagato per le stesse mansioni. Ove tale condizione continui a mancare, l’aumento di produzione non scaturirà – nella stessa manifattura – da progressi di produttività (del lavoro, del capitale, dell’insieme degli inputs) attraverso R & D, innovazione, progresso tecnico.
Stato (per 1 e per 2, soprattutto) e Impresa (per 3 e per 4, soprattutto) sono chiamati a un impegno che dispiegherà i suoi frutti nel medio periodo, sino a risollevare la crescita del potenziale verso il 2,5-3 per cento l’anno, che ancora è alla portata del sistema produttivo italiano.
Nondimeno, questi stessi frutti possono essere anticipati da un cambiamento in meglio delle aspettative. Il presupposto è rappresentato da un’analisi fine, convincente, condivisa, dei mali dell’economia italiana e soprattutto dal concreto avvio degli atti che Stato e Impresa devono compiere per sanare quei mali. L’effetto positivo consisterebbe nell’accelerare la fuoruscita dalla pesantissima contrazione del 2009 e nel promuovere una espansione dell’attività economica nel 2010 superiore a quella – magra, insufficiente a riassorbire la disoccupazione – attualmente prevista. All’incremento della domanda privata per consumi e soprattutto per investimenti potrebbe unirsi quello, temporaneo, della domanda espressa dalla P.A. Un maggior deficit una tantum – imperniato sugli investimenti della P.A., oltre che sui sostegni ai senza lavoro e ai meno abbienti – sarebbe accettato dai mercati finanziari senza un aggravio del premio al rischio sul debito pubblico, se inscritto in un programma serio e di lunga lena volto a risanare le finanze dello Stato e a riformare cruciali assetti strutturali dell’economia.

* Versioni più estese di queste idee sono apparse sulla “Rivista di Storia Economica” (Interpreting the Italian Economy in the Long Run, 2008, pp. 241-246) e nel Supplemento Economico del “Corriere della Sera” (5 ottobre 2009).