Giuristi di impresa nel terzo millennio:
Appunti per una (nuova?) comprensione del ruolo.

1. Gli interventi a proposito dei legali che operano alle dipendenze delle imprese sono, generalmente, caratterizzati da connotazioni negative, o al più neo-corporative: no al diritto di patrocinare in giudizio i loro datori di lavoro, no all’applicazione del legal privilege sulle informazioni acquisite nell’esercizio delle loro funzioni, no alla prestazione di consulenza legale.
Posto che il merito di ciascuna di tali considerazioni potrebbe formare oggetto di specifiche riflessioni, che esuberano dallo scopo di questi appunti, colpisce, invece, che non sia (quasi) mai affrontato in positivo lo sforzo di definire un ruolo la cui importanza cresce progressivamente, o almeno le cui responsabilità vengono aumentate ad ogni svolta legislativa, ed al quale vengono semmai apposte etichette diverse, che confondono il dibattito ma non contribuiscono al suo progredire: legali interni (o in-house), giuristi d’impresa, legali d’azienda, per citarne solo alcune, senza che ci si soffermi a considerare il contenuto invece del contenitore.
2. Perché esiste nell’impresa la funzione legale? A questo apparentemente semplice quesito possono darsi risposte con un diverso livello di approfondimento. Dal loro esame complessivo potrà, forse, delinearsi un primo profilo di questa discussa figura.
Perché le questioni legali sono comunque immanenti all’attività imprenditoriale, ed è più conveniente pagare uno stipendio (per risolverne un certo numero e gestire le altre) che affidarle totalmente ai consulenti esterni? L’accento, tutto sull’efficienza organizzativa, coglie solo in parte nel segno: sia per ragioni storiche (gli uffici legali esistevano prima che le aziende acquisissero l’attuale sensibilità al tema dei costi di struttura, ed esistono persino negli apparati amministrativi in cui l’efficacia dovrebbe far premio sull’efficienza). Questo criterio di risposta non pare adeguato, o comunque sufficiente ad esaurire la questione.
Perché il miglior consulente esterno deve comunque avere un interlocutore interno che lo indirizzi e, al tempo stesso, gli fornisca le informazioni necessarie all’espletamento del mandato ricevuto? Improvvisamente, cioè, il libero foro necessita di un mediatore qualificato per dialogare con la propria clientela e rendere pienamente efficace la propria azione? Quando, per molto tempo, a volte tutt’ora, si è ritenuto che i legali interni siano dei passacarte non in grado di erogare valore aggiunto? La portata anti-corporativa di questa motivazione appare inversamente proporzionale alla sua effettiva rilevanza nel rispondere al quesito assegnato.
Perché il fabbisogno di tutela legale sotteso all’operatività quotidiana delle realtà aziendali, vieppiù alla luce della crescente stratificazione delle norme che a vario livello la disciplinano, rende ineludibile il ricorso a figure specializzate? Ad accogliere questa tesi non si sarebbe comunque sciolto il dilemma relativo al rapporto fra uffici interni e consulenti esterni, se non ricorrendo alla – limitata – qualificazione sul contenimento dei costi.
Piace pensare, allora, che possa introdursi un fattore di stampo qualitativo: senza nulla togliere alla professionalità del libero foro, che non è in discussione, le risorse interne possono vantare, o acquisire, una specializzazione, intrinseca al loro ruolo nella singola azienda, non replicabile al di fuori del contesto organizzativo, che investe gli aspetti normativi più direttamente applicabili a quella esperienza aziendale coniugandoli con la loro conoscenza del funzionamento della società stessa. Tale specializzazione, riversata nella gestione delle questioni sottoposte alla loro attenzione con immediatezza e continuatività, costituisce un elemento meritevole di apprezzamento (anche economico) che si aggiunge alle tradizionali competenze tecniche. Conoscere il “come” delle cose, come vengono decise, realizzate, vissute nell’ambito del processo produttivo, contribuisce, sia in termini di efficacia che di efficienza, al raggiungimento del risultato. Sembra quasi di sentir riecheggiare la discussione sulla definizione di “avvocato d’affari” di qualche decennio fa: dove, va compreso, in primo luogo (e per fortuna) si è patroni degli affari propri. E, all’interno delle società, dove la consulenza è prestata nell’interesse dell’ente cui organicamente si appartiene, dove gli affari “propri” sono, dunque, quelli dello stesso ente.
3. Il riflettore si sposta sulle aspettative che le imprese nutrono verso le loro  risorse legali, il ruolo che assegnano loro. Ruolo che, negli anni, è sensibilmente mutato.
Probabilmente sino a tutta l’epoca della crisi internazionale degli anni ’70 del secolo scorso le imprese italiane hanno operato in un contesto economico relativamente chiuso, confrontandosi solo su scala domestica nell’arena competitiva, senza particolari pressioni o limitazioni di natura regolatoria, senza grandi drammaticità nel mercato dei capitali, in un ambiente scarsamente sensibile ai consumatori. Le principali questioni di interesse giuridico all’interno di tale contesto, almeno quelle a carattere ricorrente, erano le pratiche contenziose, le controversie con fornitori e clienti, la definizione contrattuale degli assetti proprietari. Per le quali, oltre alla riserva di patrocinio operante a favore dei liberi professionisti, evidenti ragioni di opportunità militavano a favore dell’affidamento all’esterno dei rispettivi mandati ed incarichi di assistenza legale, con un ruolo, quando pure c’era, certamente limitato e marginale delle strutture interne. Queste, a loro volta, di fronte a situazioni problematiche, o comunque delicate, consapevoli anche della propria scarsa centralità nel contesto dell’azione gestionale dell’impresa, erano piuttosto portate, come le famose scimmiette, a “non vedere, non sentire, non parlare”.
4. L’impulso allo sviluppo degli affari portato: dall’abbattimento delle frontiere, che ha immesso nell’arena un numero significativamente maggiore di agguerriti concorrenti; dal più ordinato accesso al mercato del capitale (di rischio e di debito); dalla regolamentazione dei diversi aspetti del facere imprenditoriale, ha indirettamente modificato la struttura del capitalismo nostrano, da statica a dinamica, costringendo i relativi attori ad attrezzarsi anche con il ricorso ad operazioni straordinarie per la difesa e l’espansione delle quote di mercato, la provvista dei mezzi finanziari per sostenere lo sviluppo, l’adeguamento dei processi operativi e commerciali, e persino delle strutture organizzative, alle mutate e mutevoli frontiere dei requisiti regolamentari.
Conseguentemente diverso è stato il ruolo assegnato al legale interno: che, negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, ha dovuto attrezzarsi per la gestione delle operazioni societarie di acquisizione, fusione, joint venturing, magari in chiave internazionale, prima come spettatore qualificato di rappresentazioni portate in scena dai consulenti, poi – anche, ma non solo, per tenere sotto controllo i costi – acquisendo ruoli da comprimario e persino da protagonista nella gestione di queste attività.
Allo stesso tempo le imprese hanno imparato a diversificare le forme tecniche di finanziamento, hanno emesso obbligazioni, anche su mercati esteri o sovranazionali, si sono quotate in borsa, hanno societarizzato divisioni e rami d’azienda, modificando così sostanzialmente il ruolo assegnato e le competenze richieste al giurista di impresa. Che ha persino maturato profili di specializzazione, e corrispondenti articolazioni organizzative, nelle proprie strutture: chi si occupa di societario, chi di bancario e finanziario, chi di proprietà industriale.
5. Gli sconvolgimenti finanziari del XXI Secolo, unitamente all’accresciuta sensibilità del Legislatore verso la tutela dei contraenti deboli, ha prodotto un imponente intensificarsi delle disposizioni normative e regolamentari per la disciplina dei mercati finanziari, la gestione del mandato fiduciario fra azionisti ed amministratori, la disciplina della concorrenza, il governo di attività economiche a largo impatto sociale, etc. Autori di elevato prestigio hanno parlato al riguardo, con elegante perifrasi, di “gioco delle regole” per stigmatizzare il sovrapporsi, inorganico e talora confuso, di norme che spesso hanno un effetto più formale, o formalistico, che non sostanziale. Tutto questo, per quanto qui interessa, si traduce in una nuova evoluzione dei compiti del giurista di impresa: che sempre più assomiglia al compliance officer, al controllore del rispetto delle diverse prescrizioni, quasi come un vigile che convogli il traffico giuridico economico nelle ramificazioni delle norme e procedure, pur senza una particolare attenzione ai fondamentali elementi del business sottostante.
6. Queste sfumature, peraltro, ancorché invasive, non sembrano incidere nel profondo del ruolo come sopra preliminarmente delineato, che è quello di garantire che l’azienda possa far sviluppare i propri affari nel rispetto della legalità ed assicurandosi la miglior tutela giuridica dei propri interessi.
È difficile ipotizzare che l’atto giuridico in cui si incarna una scelta imprenditoriale possa configurarsi come “sbagliato” dal punto di vista tecnico, e quindi non conforme alle norme di diritto sostanziale che vi presiedono; più facile è riscontrare che le pattuizioni riflesse nello strumento possono non soddisfare gli interessi, e conseguire i risultati, per cui sono state redatte. La misura di questa efficacia delle tutele contrattuali, che pure spetta al legale di azienda, che ne affina la portata aggiungendo, limando, togliendo clausole e pattuizioni, è un controllo che attiene al factum, meglio ancora al negotium, più che allo ius.
Le competenze legali all’interno dell’azienda sono utili in quanto capaci di tradurre in linguaggio giuridico gli elementi del business, conoscendone i punti di forza e debolezza e, conseguentemente, individuando i mezzi tecnici per valorizzarli e proteggerli, rispettivamente.
Il legale interno, alla medesima stregua dei suoi colleghi delle strutture di linea (le funzioni commerciali ed operative dell’azienda) deve conoscere intimamente le dinamiche del settore d’affari in cui si trova ad operare, le condizioni del contesto competitivo, le regole di batteria oltre le quali l’affare perde di convenienza. E deve essere portato a conoscenza di tutti i dettagli dello specifico affare in margine al quale si richiede la sua attenzione. A queste condizioni, manager fra i manager, egli potrà prestare il proprio contributo per la tutela degli interessi aziendali e rafforzare la probabilità che gli obiettivi vengano conseguiti.
7. È un rapporto, quello con gli altri dipartimenti dell’impresa, non facile da costruire, soprattutto nelle realtà societarie che hanno lungamente lasciato germogliare la sensazione che il legale fosse lì per “bloccare gli affari”, dove i vertici non trovano il tempo per ascoltarne le indicazioni e presso la quale tecnici e commerciali si sentono legittimati a scavalcarne le attribuzioni, redigendo e negoziando da soli i contratti e/o impostando autonomamente le operazioni straordinarie, salvo poi chiedere una “benedizione” in extremis a poche ore dalla stipula. La credibilità del ruolo – ci pare – si acquisisce con l’umiltà di mettersi a servizio delle strutture aziendali, ascoltandole; e reagendo con semplicità ed immediatezza alle loro risposte, sempre in termini costruttivi, per la conclusione degli affari prospettati. Non si dice “non si può fare”, ma “per farlo, bisogna fare in quest’altro modo”. La contiguità alla gestione quotidiana dei problemi renderà accettabili anche le risposte istintive, poco riflettute, e qualche diniego.
Lavorare a fianco delle funzioni operative renderà, nel medio periodo, più efficaci le vie di comunicazione: e faciliterà il radicarsi dell’idea che al collega-legale ci si possa rivolgere per un consiglio, un punto di vista, anche fuori dalle sue specifiche competenze, sulla base di un’oggettiva parità.
Certo, il responsabile del servizio legale deve anche avere il modo di far filtrare le proprie considerazioni sui tavoli intorno ai quali si assumono le decisioni vincolanti per il futuro dell’impresa: per essere ascoltato con pari dignità dovrà aver dimostrato ai propri peers di poter essere loro utile, e non solo di costituire un costo che parassitariamente vive alle spalle dei profitti che loro procurano, e di saper gestire le risorse che gli sono affidate alla medesima stregua degli altri, in termini di pianificazione, controllo, sviluppo; nella comprensione della strategia complessiva.
Un po’ più degli altri, per essere come gli altri.