“Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano”: l’autopresentazione di un libro

[1]Muovo dal ringraziamento alla giuria – ai suoi componenti (in specie Giuliano Crifò, conlega maior di disciplina e, se mi permette, amico) – per aver voluto inserire fra i «libri dell’anno» per il 2007 anche il mio lavoro su Giustiniano. Lo considero un onore e credo non potrebbe esserci per me riconoscimento migliore dell’invito ai giuristi a «legger[lo]».

Mi trovo però in imbarazzo a dar conto di come è nato questo libro. A essere sincera, e voglio esserlo, debbo indicare tre motivi: il caso; la curiosità; la testardaggine (con ‘francesismo romanesco’, la “tigna”). Al di là della terminologia poco scientifica, credo che molti possano riconoscervisi: quantomeno nei primi due, forse anche nel terzo.
Per chiarezza, premetto che il volume segnalato conclude una (diciamo) ‘trilogia’, tutta dedicata, come segnala il titolo comune, a “potere imperiale e giurisprudenza”.

Non occorre, credo, dilungarsi sul tema in sé: il rapporto fra giuristi e imperatori è fondamentale nel diritto romano ed è stato studiato e interpretato nei modi più svariati. Occorre però precisare la prospettiva secondo cui l’ho trattato io.
Non ho trattato la questione nel suo complesso, ma ho preferito affrontarla tramite un giurista specifico e un imperatore specifico, da usare a mo’ di exempla: “Il Giurista”, “L’Imperatore”.
Sono anche andata a scegliermene di singolari. Volendo, la storia offrirebbe coppie significative di giurista e imperatore o per antagonismo o per cooperazione: Augusto e Labeone, ad esempio o Adriano e Salvio Giuliano. Invece l’imperatore e il giurista che ho individuato quali soggetti della ‘mia storia’ non possono esser riportati né a un piano né all’altro. Anzi, non hanno quasi nulla in comune.
Sono personaggi distanti, e diversi fra loro. Per il fattore tempo, innanzitutto: li dividono quasi quattro secoli, così che il rapporto diretto viene subito ad escludersi. E appartengono anche a due mondi diversi. L’imperatore del sesto secolo, Giustiniano, è quasi di frontiera: si è dubitato della stessa possibilità di considerarlo imperatore romano – anche se è così che egli si sente e si propone, princeps romanus (e intende incarnarne il modello) – e talora lo si è posto all’inizio della lunga teoria di imperatori bizantini. Un giurista del secondo secolo come Pomponio opera invece nell’età considerata d’oro per il mondo romano: l’impero al massimo dello splendore. Perfino il grado di notorietà li differenzia. Se è difficile ignorare Giustiniano (quel suo “trarre il troppo e il vano” di matrice dantesca ha suggestionato generazioni e generazioni, almeno di italiani), Pomponio è un giurista da specialisti. Specialisti in senso stretto: non chi abbia semplicemente compiuto studi di diritto, ma chi pratichi il diritto romano. Al di fuori di questo clan, benché abbia coniato una bellissima definizione del lavoro del giurista, non mi pare granché noto: e non parlo di una conoscenza testuale, ma di pura familiarità con il nome. Altri sono quelli che eventualmente circolano: quello di Gaio ogni laureato in giurisprudenza l’ha sentito se non altro pronunziare; i praecepta iuris secondo Ulpiano (l’honeste vivere, l’alterum non laedere, il suum cuique tribuere) capita ancora di sentirli ricordare con ammirazione. Né mi pare che i suoi testi figurassero fra le citazioni ‘culte’ un tempo in uso. Non siede neppure fra i suoi colleghi in marmo che si sono voluti raffigurare pensosi davanti al Palazzo della Cassazione a Roma, il “Palazzaccio”. Anche quei giuspositivisti che scelgano ancor oggi di mettere a frutto la riflessione romana non frequentano molto Pomponio.
Insomma, un personaggio un po’ defilato: adesso, però. Non così, invece – deve ritenersi – al tempo di Giustiniano: perlomeno, non nella sua corte. Ché anzi, se non l’imperatore stesso, i suoi commissari, nell’opera che per suo ordine vanno componendo, danno a Pomponio un posto significativo. Ed è proprio per questa importanza assegnatagli dai giustinianei che viene a giocare il caso.

Il caso, nelle vesti forse modeste, ma trainanti per la mia ricerca, di un seminario didattico nella Università di Roma La Sapienza. Pierangelo Catalano, per la cui cattedra il seminario si svolgeva, intendeva far cogliere agli studenti la struttura del Digesto tramite l’analisi del primo libro, concentrata in specie sulla esegesi dei primi due titoli e preceduta da una lettura mirata della costituzione giustinianea di preannuncio del Digesto, Deo auctore, che è premessa all’opera.

A chi frequenti anche sporadicamente i Digesta è noto come il secondo di questi titoli sia pressoché per intero un testo di Pomponio, il frammento 2 (D. 1.2.2): scelta significativa in una opera di cui si sottolinea programmaticamente il valore sistematico. Il lungo frammento – il più lungo della raccolta giurisprudenziale, di dimensioni così inusuali che nessuno degli altri vi si può comparare – offre una sorta di storia dell’esperienza giuridica romana fin dalle origini. Lo precede l’unico altro frammento del titolo (D. 1.2.1), che, incentrato sull’importanza del principium, gli fa quasi da premessa metodologica: è un brano di Gaio, ove frase chiave è che, essendo “in tutte le cose perfetto ciò che consti di tutte le sue parti”, “parte essenziale di ciascuna cosa” (la più importante, potissima) “è l’inizio”. Nel contesto originario dell’opera sulle Dodici Tavole, l’affermazione sta a spiegare come per l’interpretazione di queste “leggi vetuste” occorra “necessariamente” “riprendere dagli inizi dell’urbs”. Con la collocazione nel Digesto il suo significato si dilata e l’importanza dell’“inizio” va intesa in riferimento all’intero fenomeno giuridico, che Pomponio rappresenta subito dopo scandendolo in tre sezioni: ordinamento, magistrature, giuristi, seguiti nella loro specifica storia. Nell’introdurre seconda e terza sezione, un passaggio-cerniera (D.1.2.2.13) ne motiva la trattazione: il “perché” “poi diremo del succedersi dei giuristi” è spiegato da Pomponio con il loro ruolo, «quod constare non potest ius, nisi sit aliquis iuris peritus, per quem possit cottidie in melius produci» (“poiché il diritto non può esistere se non c’è qualcuno esperto del diritto che di giorno in giorno possa migliorarlo” nella versione di De Marini; “poiché il diritto non può sussistere se non vi sia qualche giurisperito grazie al quale esso possa quotidiamente perfezionarsi”, in quella di Crifò).
Tutto questo mio antefatto, che colloca nel contesto la frase appena citata, per spiegarne l’impatto in quella particolare occasione. Rileggere Pomponio per gli studenti e con gli studenti comporta ovviamente soffermarsi su questa rappresentazione del lavoro del giurista. L’ho prima definita bellissima, forse la più bella a mia conoscenza perché coinvolge in un compito quotidiano e collettivo tutti gli “esperti del diritto”, nessuno escluso (aliquis, “un qualche giurista”). Il giurista continuo adeguatore,‘motore del diritto’, potremmo dire (un senso che forse si ridimensiona, ma non scompare anche ove si segua Scialoja che vuole correggere «in medium» la tradizione testuale «in melius»: “se ne possa avere quotidianamente la migliore conoscenza”, nella versione Crifò). Ne avevo sottolineato agli studenti la visione imperniata sulla centralità della giurisprudenza. Una esaltazione del giurista a me familiare non solo per la sua notorietà, ma perché circolava parecchio nella Scuola: piaceva al mio maestro Riccardo Orestano, che vi collegava le responsabilità che il giurista deve assumersi, che vi leggeva la integrale storicità del diritto e della sua scienza.
Nonostante la consuetudine, nella rivisitazione seminariale quella frase, a cui ci accostavamo subito dopo l’analisi appena compiuta della costituzione Deo (testo altrettanto noto, forse frequentato ancor più assiduamente dai romanisti), risaltava in maniera nuova.
Per l’opera più importante e significativa della compilazione (il Digesto è inteso quale «templum iustitiae») coesistono due immagini. Il ius costruzione ininterrotta per opera degli iuris periti, e da essi garantito nella sua saldezza(D.1.2.2,13), a fronte del ius oggetto di scompiglio a opera degli stessi iuris periti totum ius […] conturbatum est», Deo 12: va loro impedito di confundere anche il lavoro giustinianeo; la loro interpretatio si configura quale vitium intrinseco). Lette, come era avvenuto, in sequenza (prima la ‘critica’, poi la ‘lode’) – ma la stessa ‘topografia’ del Digesto non le distanzia troppo (non più di una quindicina di pagine a stampa nella edizione critica corrente) – e con l’ottica del seminario che tende a tutto chiarire per i discenti (il caso, appunto!), affermazioni conosciutissime si ‘colorivano’, si arricchivano, di sfumature diverse. In Deo Giustiniano sembrava voler espressamente contraddire quella affermazione di Pomponio nel Digesto: che peraltro erano stati i suoi stessi commissari ad aver inserito nell’opera. Due voci – la voce dell’imperatore, la voce del giurista – e discordi: al posto della voce unitaria che nell’“ordinato compendio” avrebbero dovuto assumere giuristi operanti in più secoli. Era stato l’ordine di Giustiniano ai compilatori: che escludeva ogni incoerenza, che a tutto conferiva “eguale valore” “come venisse direttamente dalla sua bocca divina”.
Di qui, la curiosità.

Una curiosità da soddisfare con la ricerca. Speculare, è stato subito l’intento, così che i due punti di vista – del giurista, dell’imperatore – si fronteggiassero, come nella compilazione quest’ultimo aveva voluto.
Insomma, una sorta di dialogo a grande distanza temporale – ovviamente nella prospettiva dell’imperatore, rispetto a un interlocutore scomparso da almeno trecentocinquanta anni – che a distanza ben maggiore io cercavo di cogliere: un ‘dialogo’, ma non con il medesimo oggetto (quello che mi aveva inizialmente intrigato). Il dialogo che a me era parso intessuto fra imperatore e giurista – o che fra loro ho voluto intessere io, sulla suggestione di una incongruenza – più che il rispettivo esprimersi sulla stessa questione, comportava una reciproca valutazione. Il mio raggio visuale veniva ad ampliarsi. Se di Giustiniano continuava a interessarmi la visione che “L’Imperatore” offre della giurisprudenza, per Pomponio volevo cogliere la visione che del potere imperiale offre “Il Giurista”.
Il Pomponio sui giuristi – il più noto, forse il più studiato – veniva così messo da parte. Il pensiero del giurista intorno alla giurisprudenza era racchiuso, ai miei occhi, in quella premessa iniziale sul constare dello ius che è l’ininterrotto lavoro di questa a consentire. La rappresentazione puntuale che ne dà in concreto la terza sezione specificamente dedicatale nel frammento avrebbe potuto interessarmi solo per gli indizi del continuo adeguamento che ne è garanzia. Anzi, rispetto a quel punto di partenza, ciò che segue – ed è una massa di informazioni preziose, imprescindibili per chi voglia ricostruire una storia della giurisprudenza romana – nella mia prospettiva è quasi deludente. E perfino il par. 13 del frammento, che ha stimolato la mia attenzione, rimane fuori dalla ricerca se non con qualche sporadica considerazione soprattutto in chiusura di questo terzo volume.
Invece, per individuare le reciproche posizioni, espressione di mondi diversi, all’imperatore che dà quella immagine del giurista vengo per simmetria a contrapporre l’immagine che dell’imperatore dà il giurista: Potere imperiale e giurisprudenza, appunto, in Pomponio e in Giustiniano.
L’idea iniziale di lavoro unico che racchiudesse le due indagini, è stata quasi subito accantonata a favore di due monografie: ricerche distinte, perciò, ma connesse e complementari, la prima dedicata a Pomponio e la seconda a Giustiniano.
Dunque, per Pomponio, diretto oggetto di indagine viene ad essere D. 1.2.2,11, ove il processus dell’ordinamento si conclude con la concentrazione del potere nelle mani di uno solo, il principe, come una sorta di accadimento necessitato: «evenit, ut necesse esset rei publicae per unum consuli» (la pregnanza della formulazione in italiano si appanna: “si rivelò la necessità che fosse una sola persona a provvedere alla comunità”, De Marini; “avvenne che fosse necessario provvedere allo stato per mezzo di un solo uomo”, Crifò). In tanto avrà senso una tale analisi, è ovvio, in quanto il brano venga considerato all’interno del frammento, in specie della sezione sul ius, seguendo Pomponio: nella sua diacronia prima, con il potere imperiale quale ultimo evento (definitivo, si direbbe, secondo la rappresentazione); poi nella sincronia del par. 12, che riprende il già esposto con una raffigurazione d’assieme dell’ordinamento (lo ius in civitate nostra) nelle sue sfere normative. Per ricostruire, si badi, non la storia giuridica romana, bensì la raffigurazione che di essa Pomponio avvalora.
Per Giustiniano il panorama testuale, predeterminato dal taglio dell’indagine, è più ampio, pur incentrandosi sempre su un numero contenuto di fonti: sette costituzioni (otto, calcolando separatamente le due versioni latina e greca del testo di pubblicazione del Digesto), tramandate però in redazione integrale e non in frammenti come quelle, anche di Giustiniano, raccolte nel Codice. Deo auctore, iniziale termine di raffronto con la tesi di Pomponio, e naturalmente Tanta – che nel pubblicare il Digesto ripropone la medesima visione della giurisprudenza espressa all’avvio, ampliata, approfondita e in stretto nesso con l’espressa rivendicazione del monopolio imperiale su creazione e interpretazione del diritto – ma pure le altre, fra 528 e 534, relative alla compilazione: quelle che si suole chiamare “introduttive”, privilegiandone il legame che ciascuna ha con un singolo volume della compilazione, e che da subito io preferisco ridenominare “programmatiche” guardandole nel loro insieme come un disegno in più tappe – un corpus nel Corpus iuris, mi è occorso di dire – e cercandovi un valore diverso da quello attribuito loro in dottrina.
Proprio la visione d’assieme passa per una analisi puntuale dei temi in esse affrontati: che dilata l’indagine, anche allungandone assai i tempi. Non è la quantità, ma la ‘qualità’ di questi temi a esigere attenta valutazione, sempre seguendo all’interno del loro svolgersi la questione che interessa (e non è facile). Alla stregua della critica letteraria su un testo poetico o narrativo, qui si sottopone a un costante vaglio il linguaggio normativo: ci si sofferma sulla costruzione generale del discorso; se ne individuano le nervature; si ‘soppesano’ e confrontano le scelte lessicali, così che l’esegesi quasi si fa semantica. Gli stessi silenzi testuali (il ‘non detto’), a fronte di ciò che invece si rappresenta e di come lo si raffigura, contribuiscono alla ricostruzione, con la maggior fedeltà che a me sia riuscita possibile, di un pensiero: nel suo farsi, nel suo proporsi.
Le pur poche costituzioni si rivelano una ricca ‘miniera’ da cui apprendere: non tanto sui volumi della compilazione come si è sempre saputo, ma sul nuovo diritto che con essa l’imperatore vuole creare. L’indagine così ancora una volta si scinde, per poter meglio padroneggiarla senza perderne l’unità. La seconda monografia, dedicata a “L’Imperatore”, esce in due volumi: l’uno sulla fase di progettazione; l’altro, più corposo, sulla fase di realizzazione, che è stato appunto segnalato.
Da ultimo, in qualche libro recente, ho notato che si parla direttamente di “costituzioni programmatiche”. Una piccola spia linguistica, ma forse si è cominciato a riguardarle con altro valore che di mera “introduzione” a Istituzioni, Digesto e Codice.

Mi fermo. Non intendo addentrarmi nei contenuti specifici del volume, discutere qui risultati che spero di aver raggiunto. Sarebbe antitetico al senso della iniziativa: questi “libri segnalati” la commissione invita a leggerli, non a farseli raccontare. Bastino dunque tema e obiettivi, qualche chiarimento necessario, casomai (se si riesce) qualche ‘esca’ alla lettura. E poi un libro, si sa, è diverso a seconda di chi lo legga. Avendolo invece scritto, mi sento invitata a dire non cosa vi sia ma piuttosto cosa è stato per me.

Dicevo prima della difficoltà di mantenere “il bandolo della matassa”, di non perdere di vista il filo conduttore della ricerca; non sempre ci sono riuscita. Se per Pomponio credo di essermi attenuta ai propositi (‘farlo parlare’ del potere imperiale), il tentativo di ‘far parlare Giustiniano’ è andato (talvolta o spesso) al di là della giurisprudenza. I testi, come a volte succede, mi hanno forzato la mano; mi sono necessariamente venuta a misurare con il valore di manifesto programmatico che queste costituzioni hanno.
Ripeto la giustificazione già data (ovvia, del resto): che in Giustiniano la «visione della giurisprudenza si inserisce in una determinata visione del diritto che a sua volta è strettamente legata al disegno compilatorio, insieme determinandolo ed essendone determinata»; che la posizione in questione non è pertanto isolabile e non può essere considerata e valutata se non «nell’ambito di tutte le altre che l’imperatore è venuto assumendo». Il che ha comportato darne conto. Obiettivi perseguiti per la compilazione e tramite essa: completezza, coerenza, sistematicità, carattere esaustivo, valore esclusivo, con sullo sfondo l’idea stessa di certezza del diritto. Regole di trasmissione e regole di lettura. Aspirazione a un diritto per cui non si preveda termine e insieme consapevolezza della sua ineliminabile storicità (il suo in infinitum decurrere); tentativo di trovarvi soluzione tramite la ‘compilazione aperta’ che vorrebbero essere le Novelle (al divenire gestito dal giurista si sostituisce il divenire gestito dall’imperatore). Orgoglio di aver creato un ‘diritto nuovo’ e perciò stesso ambizione di creare nuovi modi di trasmissione del suo sapere, anch’essa gestita dall’imperatore. E altro ancora.
Tanto che oggi, conclusa finalmente la ricerca, potrebbe venir voglia di cominciare da capo: accantonando le singole ‘prove testuali’ che hanno sostanziato la ricostruzione, tentare una visione d’assieme (una sintesi non può che esser preceduta dalle minuzie di una revisione dei dati), affrontare direttamente il tema della concezione del diritto. Per Pomponio, forse è non è pienamente recuperabile: quella centralità del giurista nel diritto – che si riallaccia al passato, che forse non è già più storicamente vera – non si è mai più avuta in esperienze successive, tanto da render difficile coglierla nella complessità originaria. Quella concezione è stata mutata definitivamente dalla matrice normativa, meglio autoritativa che viene a collegarsi al diritto, a connaturarsi con esso (qualunque sia la forma che l’autorità assuma). Invece, il fulcro di un tal lavoro potrebbe trovarsi in Giustiniano: che questa visione autoritativa teorizza; che la rafforza tramite il disegno compilatorio, connotando ulteriormente il diritto in tal senso; che tramite la sua opera verrà a incidere a lungo su quanto seguirà.
Tranquilli, però: un tale libro non ho intenzione di scriverlo.

Un altro libro invece mi tenterebbe: una sorta di versione ‘alleggerita’ di quanto pubblicato. Userei termini come semplificazione o divulgazione, se non temessi il fraintendimento di una “serie b”, da cui sono lungi.
L’idea non è mia. Me l’hanno suggerita (ci metto un po’ di pompa) i miei lettori. Temo proprio di non arrivare ai famosi venticinque, ma su tre so con certezza di poter contare, perché sono valutatori attenti e discutono puntualmente: uno specialista di relazioni internazionali, una psicanalista di scuola freudiana, una antropologa. Tre amici, ovviamente (generosi e affettuosi, ça va sans dire), che talvolta colgono pieghe nascoste, questioni sottese: la psicoanalista, in particolare! Per quest’ultimo volume, ai tre se ne è aggiunto, con una lettura più ‘a saggio’, un quarto (sempre per generosa amicizia, ma mi inorgoglisce lo stesso): udite udite, un grande amministrativista. Bene, da tutti e quattro – che per motivi diversi, troppo lunghi da spiegare, o hanno avuto una formazione giuridica o almeno hanno fatto letture scientifiche di diritto – la richiesta è di semplificazione, chiarimenti, precisazioni, il consiglio è di non dare per scontate certe informazioni. Digesto, Codice, Istituzioni di Giustiniano, va bene, ma se ne parla senza dire con esattezza cosa siano. E poi il latino, che pure mi sembra di rendere brano per brano attraverso la discussione; anche per chi ha una preparazione umanistica, a distanza di anni lunghe citazioni possono essere di qualche ostacolo. A parer loro occorrerebbe – non invece, ma anche – un libro un po’ diverso: per il pubblico colto, si diceva una volta.
Aprire un colloquio almeno negli intenti più vasto ha del fascino. Colpisce quanto poco circolino i libri dei giuristi al di fuori dell’accademia, delle professioni, dei tribunali. Salvo alcune eccezioni che tutti hanno in mente, anche libri giuridici importanti, magari bellissimi, di grande afflato, che superino la dimensione più tecnica, raramente diventano noti a un pubblico che non ne sia per lavoro fruitore: pubblico che magari legge testi di fisica o di scienze o semmai di filosofia. Quasi che il diritto non faccia parte della cultura del proprio tempo e che chi lo pratica non ne sia espressione. Interlocutori ancora più esigui, poi, per i romanisti, che, da ultimo almeno, hanno visto inaridire il dialogo con gli stessi colleghi di diritto positivo (e per me, educata da un maestro che con questi ha sempre intessuto un colloquio proficuo, è quasi un ‘complesso’).
Insomma l’idea tenta, l’ipotesi progettuale (ma solo ipotesi) è ‘nel cassetto’: si vedrà.

Per chiudere, resta l’elemento della testardaggine.
Ho fortemente perseguito, pur nella lentezza, la redazione di questi libri – e sì che appartengo alla categoria di chi preferisce piuttosto leggere che scrivere – nonostante gli inviti a cambiare argomento da diversi che mi erano vicini (non da tutti, per fortuna), amici o meno che fossero. La critica di fondo – prima ancora che ci fosse qualcosa di scritto – era che si trattava di testi troppo noti, che tutti conoscevano, su cui non ci sarebbe stato niente di originale da dire. Osservazioni avanzate già per Pomponio, scemate (se non sparite) con la pubblicazione, intensificate poi per Giustiniano. Certo, non c’è romanista che non abbia dimestichezza con quelle costituzioni, che non ne conosca a memoria intere frasi; ma a renderle, credo, testimonianze ‘diverse’ era la prospettiva con cui guardavo ad esse (dir ‘metodo’ mi suona troppo ambizioso: niente proclamazioni in tal senso), era ciò che mi aspettavo di ricavarne. Lo scetticismo altrui può scoraggiare e anche per questo sono grata a Orestano: che ha seguito il lavoro su Pomponio appassionandovisi, che mi ha incoraggiato a continuare su Giustiniano. Lo rivedo (e risento) pochi giorni prima della sua scomparsa invitarmi, mentre mi accomiatavo, a non desistere nonostante quelle critiche, a non darvi peso (ma, dalla poltrona in cui era pressoché immobilizzato, l’espressione era assai più forte e detta con forza).

La menzione di questo Maestro mi porta ad attardarmi su un argomento che ci è stato indicato, dar conto dei nostri Maestri.
Interpreto per l’occasione il vocabolo nel senso più tradizionale, accademico, anche se altri possono di fatto incidere e hanno inciso su quello che siamo. E non prendo in considerazione neppure i maestri che si imparano a conoscere e ad amare dai libri, ma solo quelli che si ha avuto la ventura di ascoltare direttamente. Sono stata fortunata e nella facoltà in cui sono cresciuta, Roma, ne ho sentiti e conosciuti molti, anche se è solo Orestano che mi sento e posso chiamare propriamente così.
Non voglio diffondermi sui romanisti. Tutti loro infatti, ciascuno con uno stile diverso, ci hanno insegnato ‘il mestiere’; quel che non ho appreso dipende da me. Debbo tuttavia fare una eccezione per Luigi Raggi, allievo anch’egli di Orestano ma insieme un giovane maestro per noi ultimi arrivati. Anche un fratello maggiore, rigoroso, severo, ma sensibile ed attento, vorrei dire affettuoso; ha lasciato un segno indelebile in quanti l’hanno conosciuto. Se la sua attività non fosse stata troncata a trentotto anni, ci sarebbero potuti essere esiti diversi: nelle strade scientifiche intraprese, negli stessi rapporti umani. So che è un pensiero condiviso.
Voglio invece ricordare maestri delle altre discipline. Grandi personaggi, e ce ne accorgevamo. Formalisti i più (e mi rammarico di non aver saputo allora apprezzare compiutamente il distillato giuridico delle Dottrine generali del diritto civile: col suo sapere rarefatto, Santoro-Passarelli era troppo distante; la sua entrata in aula quasi una liturgia). Antiformalisti alcuni, e per noi risultavano i ‘moderni’. Qualche nome fra quelli per me più significativi. La fulminea intelligenza di Nicolò, che faceva intravedere la concretezza del diritto a matricole inconsapevoli vaganti fra le astrazioni del negozio giuridico o del soggetto. Esposito, dalla scintillante verve espositiva (quanto lo lusingò scoprire nel fondo dell’aula III, fra i versetti irripetibili sui docenti incisi sui banchi, il plauso “Viva Carluccio Esposito, l’immaginifico”). La passione coinvolgente di Calasso (ogni lezione, una battaglia scientifica). Il fascino austero di Satta: che “l’ordinamento si concreta nel processo” mi avrebbe poi accompagnato per sempre. La seduzione elegante di Massimo Severo Giannini. Erano soprattutto gli ultimi due a darci, insieme con Orestano, il senso del nuovo e del diverso, ad aprirci uno squarcio d’orizzonte. In fine – per l’impegno, per la serietà (ma nel suo breve, sbieco sorriso affiorava una scintilla di ironia, una naturale empatia sotto burbera scorza) – un nongiurista, Cesare Cosciani: nelle sue lezioni, nei suoi esami si coglieva il rigore etico; gli studenti lo sentivano come un esempio.
Anche “i giovani” – gli assistenti, i liberi docenti, i freschi vincitori di concorso che continuavano a gravitare nelle stesse aule – erano assai importanti per noi ragazzi: ci formavamo e ci mettevamo alla prova nelle dimensioni più ridotte e rassicuranti delle esercitazioni, dei seminari. Tacendone compio una ingiusta omissione, ma voglio lasciare sul proscenio, perché meglio risalti, Federico Spantigati. Il suo seminario fu il più singolare, curioso, perfino divertente, che frequentai; egli non si adombrerebbe per questi aggettivi. Alla conclusione mi suggerì una tesi in diritto amministrativo, ma io avevo già scelto il diritto romano (meglio, avevo scelto Orestano) e dovetti subire qualche sarcastica critica: che senso aveva? quale l’utilità? ecc. Più avanti (nel frattempo si erano intensificati i suoi rapporti con Orestano), mi scrisse di aver avuto «torto» e poi, in un altro biglietto che accompagnava l’invio di un suo lavoro, volle dirmi che il libro su Pomponio gli era «stato molto utile» e che me ne era «molto grato»: il che non gli impedì naturalmente di pormi sul volume tutta una serie di interrogativi, come sempre originali, quasi al limite del paradosso, e perciò inquietanti per chi l’aveva scritto.
Entrare a far parte degli autori che hanno attirato l’interesse della giuria che egli ha contribuito a creare mi è assai caro.
Ancora, grazie.

Note

1.  Il libro, Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano, II.2, edito da Margiacchi-Galeno, è stato segnalato per il 2007 dal Club dei Giuristi fra i “I libri dell’anno nella scienza giuridica”: dodici, scelti da una apposita giuria come quelli che “ogni giurista dovrebbe leggere”. L’“autopresentazione”, insieme con le altre degli autori premiati, sarà pubblicata nel prossimo numero della Rivista Ritorno al diritto, diretta da Giuliano Crifò.