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“Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano”: l’autopresentazione di un libro

di - 21 Ottobre 2009
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Una curiosità da soddisfare con la ricerca. Speculare, è stato subito l’intento, così che i due punti di vista – del giurista, dell’imperatore – si fronteggiassero, come nella compilazione quest’ultimo aveva voluto.
Insomma, una sorta di dialogo a grande distanza temporale – ovviamente nella prospettiva dell’imperatore, rispetto a un interlocutore scomparso da almeno trecentocinquanta anni – che a distanza ben maggiore io cercavo di cogliere: un ‘dialogo’, ma non con il medesimo oggetto (quello che mi aveva inizialmente intrigato). Il dialogo che a me era parso intessuto fra imperatore e giurista – o che fra loro ho voluto intessere io, sulla suggestione di una incongruenza – più che il rispettivo esprimersi sulla stessa questione, comportava una reciproca valutazione. Il mio raggio visuale veniva ad ampliarsi. Se di Giustiniano continuava a interessarmi la visione che “L’Imperatore” offre della giurisprudenza, per Pomponio volevo cogliere la visione che del potere imperiale offre “Il Giurista”.
Il Pomponio sui giuristi – il più noto, forse il più studiato – veniva così messo da parte. Il pensiero del giurista intorno alla giurisprudenza era racchiuso, ai miei occhi, in quella premessa iniziale sul constare dello ius che è l’ininterrotto lavoro di questa a consentire. La rappresentazione puntuale che ne dà in concreto la terza sezione specificamente dedicatale nel frammento avrebbe potuto interessarmi solo per gli indizi del continuo adeguamento che ne è garanzia. Anzi, rispetto a quel punto di partenza, ciò che segue – ed è una massa di informazioni preziose, imprescindibili per chi voglia ricostruire una storia della giurisprudenza romana – nella mia prospettiva è quasi deludente. E perfino il par. 13 del frammento, che ha stimolato la mia attenzione, rimane fuori dalla ricerca se non con qualche sporadica considerazione soprattutto in chiusura di questo terzo volume.
Invece, per individuare le reciproche posizioni, espressione di mondi diversi, all’imperatore che dà quella immagine del giurista vengo per simmetria a contrapporre l’immagine che dell’imperatore dà il giurista: Potere imperiale e giurisprudenza, appunto, in Pomponio e in Giustiniano.
L’idea iniziale di lavoro unico che racchiudesse le due indagini, è stata quasi subito accantonata a favore di due monografie: ricerche distinte, perciò, ma connesse e complementari, la prima dedicata a Pomponio e la seconda a Giustiniano.
Dunque, per Pomponio, diretto oggetto di indagine viene ad essere D. 1.2.2,11, ove il processus dell’ordinamento si conclude con la concentrazione del potere nelle mani di uno solo, il principe, come una sorta di accadimento necessitato: «evenit, ut necesse esset rei publicae per unum consuli» (la pregnanza della formulazione in italiano si appanna: “si rivelò la necessità che fosse una sola persona a provvedere alla comunità”, De Marini; “avvenne che fosse necessario provvedere allo stato per mezzo di un solo uomo”, Crifò). In tanto avrà senso una tale analisi, è ovvio, in quanto il brano venga considerato all’interno del frammento, in specie della sezione sul ius, seguendo Pomponio: nella sua diacronia prima, con il potere imperiale quale ultimo evento (definitivo, si direbbe, secondo la rappresentazione); poi nella sincronia del par. 12, che riprende il già esposto con una raffigurazione d’assieme dell’ordinamento (lo ius in civitate nostra) nelle sue sfere normative. Per ricostruire, si badi, non la storia giuridica romana, bensì la raffigurazione che di essa Pomponio avvalora.
Per Giustiniano il panorama testuale, predeterminato dal taglio dell’indagine, è più ampio, pur incentrandosi sempre su un numero contenuto di fonti: sette costituzioni (otto, calcolando separatamente le due versioni latina e greca del testo di pubblicazione del Digesto), tramandate però in redazione integrale e non in frammenti come quelle, anche di Giustiniano, raccolte nel Codice. Deo auctore, iniziale termine di raffronto con la tesi di Pomponio, e naturalmente Tanta – che nel pubblicare il Digesto ripropone la medesima visione della giurisprudenza espressa all’avvio, ampliata, approfondita e in stretto nesso con l’espressa rivendicazione del monopolio imperiale su creazione e interpretazione del diritto – ma pure le altre, fra 528 e 534, relative alla compilazione: quelle che si suole chiamare “introduttive”, privilegiandone il legame che ciascuna ha con un singolo volume della compilazione, e che da subito io preferisco ridenominare “programmatiche” guardandole nel loro insieme come un disegno in più tappe – un corpus nel Corpus iuris, mi è occorso di dire – e cercandovi un valore diverso da quello attribuito loro in dottrina.
Proprio la visione d’assieme passa per una analisi puntuale dei temi in esse affrontati: che dilata l’indagine, anche allungandone assai i tempi. Non è la quantità, ma la ‘qualità’ di questi temi a esigere attenta valutazione, sempre seguendo all’interno del loro svolgersi la questione che interessa (e non è facile). Alla stregua della critica letteraria su un testo poetico o narrativo, qui si sottopone a un costante vaglio il linguaggio normativo: ci si sofferma sulla costruzione generale del discorso; se ne individuano le nervature; si ‘soppesano’ e confrontano le scelte lessicali, così che l’esegesi quasi si fa semantica. Gli stessi silenzi testuali (il ‘non detto’), a fronte di ciò che invece si rappresenta e di come lo si raffigura, contribuiscono alla ricostruzione, con la maggior fedeltà che a me sia riuscita possibile, di un pensiero: nel suo farsi, nel suo proporsi.

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