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“Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano”: l’autopresentazione di un libro

di - 21 Ottobre 2009
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A chi frequenti anche sporadicamente i Digesta è noto come il secondo di questi titoli sia pressoché per intero un testo di Pomponio, il frammento 2 (D. 1.2.2): scelta significativa in una opera di cui si sottolinea programmaticamente il valore sistematico. Il lungo frammento – il più lungo della raccolta giurisprudenziale, di dimensioni così inusuali che nessuno degli altri vi si può comparare – offre una sorta di storia dell’esperienza giuridica romana fin dalle origini. Lo precede l’unico altro frammento del titolo (D. 1.2.1), che, incentrato sull’importanza del principium, gli fa quasi da premessa metodologica: è un brano di Gaio, ove frase chiave è che, essendo “in tutte le cose perfetto ciò che consti di tutte le sue parti”, “parte essenziale di ciascuna cosa” (la più importante, potissima) “è l’inizio”. Nel contesto originario dell’opera sulle Dodici Tavole, l’affermazione sta a spiegare come per l’interpretazione di queste “leggi vetuste” occorra “necessariamente” “riprendere dagli inizi dell’urbs”. Con la collocazione nel Digesto il suo significato si dilata e l’importanza dell’“inizio” va intesa in riferimento all’intero fenomeno giuridico, che Pomponio rappresenta subito dopo scandendolo in tre sezioni: ordinamento, magistrature, giuristi, seguiti nella loro specifica storia. Nell’introdurre seconda e terza sezione, un passaggio-cerniera (D.1.2.2.13) ne motiva la trattazione: il “perché” “poi diremo del succedersi dei giuristi” è spiegato da Pomponio con il loro ruolo, «quod constare non potest ius, nisi sit aliquis iuris peritus, per quem possit cottidie in melius produci» (“poiché il diritto non può esistere se non c’è qualcuno esperto del diritto che di giorno in giorno possa migliorarlo” nella versione di De Marini; “poiché il diritto non può sussistere se non vi sia qualche giurisperito grazie al quale esso possa quotidiamente perfezionarsi”, in quella di Crifò).
Tutto questo mio antefatto, che colloca nel contesto la frase appena citata, per spiegarne l’impatto in quella particolare occasione. Rileggere Pomponio per gli studenti e con gli studenti comporta ovviamente soffermarsi su questa rappresentazione del lavoro del giurista. L’ho prima definita bellissima, forse la più bella a mia conoscenza perché coinvolge in un compito quotidiano e collettivo tutti gli “esperti del diritto”, nessuno escluso (aliquis, “un qualche giurista”). Il giurista continuo adeguatore,‘motore del diritto’, potremmo dire (un senso che forse si ridimensiona, ma non scompare anche ove si segua Scialoja che vuole correggere «in medium» la tradizione testuale «in melius»: “se ne possa avere quotidianamente la migliore conoscenza”, nella versione Crifò). Ne avevo sottolineato agli studenti la visione imperniata sulla centralità della giurisprudenza. Una esaltazione del giurista a me familiare non solo per la sua notorietà, ma perché circolava parecchio nella Scuola: piaceva al mio maestro Riccardo Orestano, che vi collegava le responsabilità che il giurista deve assumersi, che vi leggeva la integrale storicità del diritto e della sua scienza.
Nonostante la consuetudine, nella rivisitazione seminariale quella frase, a cui ci accostavamo subito dopo l’analisi appena compiuta della costituzione Deo (testo altrettanto noto, forse frequentato ancor più assiduamente dai romanisti), risaltava in maniera nuova.
Per l’opera più importante e significativa della compilazione (il Digesto è inteso quale «templum iustitiae») coesistono due immagini. Il ius costruzione ininterrotta per opera degli iuris periti, e da essi garantito nella sua saldezza(D.1.2.2,13), a fronte del ius oggetto di scompiglio a opera degli stessi iuris periti totum ius […] conturbatum est», Deo 12: va loro impedito di confundere anche il lavoro giustinianeo; la loro interpretatio si configura quale vitium intrinseco). Lette, come era avvenuto, in sequenza (prima la ‘critica’, poi la ‘lode’) – ma la stessa ‘topografia’ del Digesto non le distanzia troppo (non più di una quindicina di pagine a stampa nella edizione critica corrente) – e con l’ottica del seminario che tende a tutto chiarire per i discenti (il caso, appunto!), affermazioni conosciutissime si ‘colorivano’, si arricchivano, di sfumature diverse. In Deo Giustiniano sembrava voler espressamente contraddire quella affermazione di Pomponio nel Digesto: che peraltro erano stati i suoi stessi commissari ad aver inserito nell’opera. Due voci – la voce dell’imperatore, la voce del giurista – e discordi: al posto della voce unitaria che nell’“ordinato compendio” avrebbero dovuto assumere giuristi operanti in più secoli. Era stato l’ordine di Giustiniano ai compilatori: che escludeva ogni incoerenza, che a tutto conferiva “eguale valore” “come venisse direttamente dalla sua bocca divina”.
Di qui, la curiosità.

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