Regole e controlli pubblici al tempo della crisi

Concetta Brescia Morra [*]
La crisi attuale, come quelle passate, pone al centro del dibattito un ripensamento delle regole della finanza. Intervenire sui punti deboli della regolamentazione dell’intermediazione finanziaria è importante per evitare di ripetere gli errori del passato. La crisi, peraltro, ha posto in evidenza due problemi che non possono essere risolti facilmente con le ricette “più regole” o “regole più severe”: la contraddizione esistente fra sistemi normativi circoscritti nei confini nazionali e operatori economici transnazionali; le difficoltà di trovare un equilibrio fra divieti, vincoli all’operatività degli intermediari e discrezionalità delle autorità, per rendere l’intervento di queste ultime più tempestivo e incisivo. Per cercare di fronteggiare meglio situazioni di instabilità finanziaria future è importante riflettere su questi temi. Questa nota è divisa in tre parti. La prima critica la tesi secondo cui la crisi sarebbe imputabile alla deregulation; lo studio delle norme degli ultimi venti anni dimostra che ci sono state carenze normative solo in alcuni settori dell’intermediazione. La seconda parte si concentra sulle differenze nelle norme fra i diversi paesi, evidenziando le difficoltà di ridurle affidandosi solo al compromesso politico, senza il supporto del lavoro di avvicinamento degli ordinamenti realizzato nell’ambito di organismi internazionali composti da autorità tecniche. La terza analizza alcuni aspetti dell’alternativa fra divieti e discrezionalità della vigilanza pubblica sulle banche, sottolineando gli argomenti a sostegno dell’esigenza di rafforzare le autorità di supervisione sul piano dell’indipendenza e dei poteri di intervento sulla gestione degli intermediari.

1. Le carenze nelle regole. La mancanza di regole o, quantomeno, regole troppo blande sono, secondo l’interpretazione prevalente, una delle condizioni che ha facilitato prassi operative poco prudenti e un’espansione rischiosa della finanza, all’origine della crisi. Le carenze nelle regole sarebbero il frutto dell’affermazione, nei sistemi economici sviluppati, dell’approccio regolamentare anglosassone; esso, nell’ottica di favorire lo sviluppo dei mercati finanziari, ha sostenuto politiche legislative di riduzione dei controlli pubblici e di abbassamento degli standard richiesti per l’esercizio delle attività finanziarie. Non vi è dubbio che negli ultimi trenta anni, in tutto il mondo, si è assistito a una riduzione dell’intervento dello Stato nell’economia, sia diretto, attraverso le privatizzazioni, sia indiretto, attraverso controlli pubblici più rispettosi dell’autonomia imprenditoriale. Non ci sembra però corretta una lettura estrema, secondo cui la filosofia regolamentare della law and economics, nata nei paesi di common law, ma diffusa anche nei paesi di tradizione romanista, concentra l’intervento del diritto solo sul terreno di obiettivi quali l’efficienza o lo sviluppo dei mercati, inducendo i legislatori ad abbandonare l’idea che le regole si debbano preoccupare di disciplinare i comportamenti sulla base di criteri estrinseci al mercato, quali la giustizia o l’interesse pubblico[1]. Queste posizioni presentano un’analisi in termini riduttivi dei sistemi giuridici e dei principi a cui essi si ispirano. Le scelte legislative attuate in paesi come gli Stati Uniti sono il frutto solo in parte dell’adesione a ideali liberisti; spesso le regole non ignorano le esigenze di giustizia sociale[2]; talvolta sono effetto della cattura del regolamentatore da parte della potente industria finanziaria. D’altro canto, imputare la principale responsabilità della crisi al sistema normativo non è corretto, considerando che nessun paese sviluppato ha aderito totalmente all’uno o all’altro approccio. L’alternativa non è fra un sistema regolato e un sistema in cui le regole sono assenti. La storia degli ordinamenti finanziari mostra una realtà complessa, caratterizzata da un susseguirsi più o meno intenso di regole. In campo finanziario non esiste in nessun paese, da molto tempo, un approccio totalmente liberista, che i giuristi traducono negli schemi del diritto privato in cui l’ordinamento si limita a tutelare l’autonomia privata, ossia la sfera di libertà del singolo. Sistemi articolati di controlli pubblici sulla finanza si sono affermati sia nei paesi dell’Europa continentale, sia nei paesi anglosassoni all’indomani della crisi del 1929. In Italia le più importanti banche private furono attratte nell’area pubblica e venne varata la legge bancaria del 1936 che stabilì un complesso assetto di norme, che prevedeva controlli di autorità pubbliche con poteri di regolazione e di intervento, con un’ampiezza indeterminata nelle finalità da perseguire e nelle modalità per realizzarli. Anche negli Stati Uniti fu stabilito un sistema dei controlli sulle banche, caratterizzato dall’assicurazione dei depositi, da autorizzazioni discrezionali, che limitavano l’assunzione di rischi e la concorrenza[3], e da vincoli di specializzazione, come quello fra commercial banks e investment banks stabilito con il Glass Steagall Act del 1934.
Le regole e i controlli di allora, che la letteratura italiana ha definito all’epoca “ordinamenti sezionali del credito”[4], non sono stati smantellati negli ultimi trenta anni: l’impianto della supervisione pubblica è rimasto sostanzialmente invariato; sono cambiate, in parte, le regole che governano l’esercizio della finanza e si è ridotta, ma non cancellata, la discrezionalità delle autorità. Ciò è vero non soltanto in Italia, dove il testo unico del 1993 presenta elementi di forte continuità con la legge bancaria del 1936, soprattutto con riguardo alle autorità preposte ai controlli e ai loro poteri, ma anche negli USA laddove, come dimostra il rapporto Paulson[5] di inizio 2008, l’assetto dei controlli pubblici sulla finanza è ancora disciplinato dalle leggi degli anni trenta del secolo scorso. Sono cambiate le regole che governano l’esercizio delle attività, con l’abbandono, peraltro recente, del principio di specializzazione fra commercial banks e investment banks, con il Gramm-Leach-Bliley Act del 2000.

* Professore associato di Diritto dell’Economia, Università del Sannio

L’assetto delle autorità, i loro poteri e il perimetro dei soggetti e delle attività sottoposte a controlli sono rimasti sostanzialmente invariati. Lo studio dell’ordinamento finanziario statunitense mostra comunque asimmetrie nella regolamentazione degli intermediari, che hanno consentito ad alcune categorie di operatori di effettuare un arbitraggio regolamentare per accrescere l’operatività al di fuori di controlli pubblici stringenti. E’ il caso delle banche di investimento: pur essendo caratterizzate da un forte potere di mercato, da un leverage elevato e da una interconnessione intensa con altri intermediari, non sono state sottoposte a controlli di vigilanza prudenziale fino a pochi anni fa. Solo nel 2004 sono stati introdotti per le investment banks vincoli di capitalizzazione analoghi a quelli delle banche di deposito che, peraltro, si applicavano su base volontaria ed erano affidati alla Sec (Security Exchange Commission), un’autorità tipicamente dedicata alla tutela della trasparenza dei mercati e che, di conseguenza, non aveva affinato strumenti e competenze per l’esercizio di controlli prudenziali su conglomerati finanziari diversificati[6].
In sintesi, non si può affermare che ci sia stata negli ultimi venti anni una deregolamentazione assoluta della finanza. Le carenze riguardavano aspetti specifici: lacune che hanno consentito ad alcuni intermediari di operare in assenza di regole stringenti; errori e punti deboli nella disciplina prudenziale sulle banche di deposito, soprattutto con riguardo alle misure sulla liquidità e al trattamento dei titoli derivanti dalle operazioni di cartolarizzazione nel calcolo del patrimonio di vigilanza. Su questi aspetti appare necessario intervenire per evitare di ripetere gli errori che hanno condotto alla crisi.

2. Regole nazionali, intermediari internazionali. Le dimensioni della crisi, la facilità di contagio dell’intero sistema finanziario e l’evidente difficoltà, o quanto meno i ritardi, di intervento delle autorità di vigilanza impongono una riflessione sull’ambito geografico di applicazione delle regole.
La crisi ha confermato le contraddizioni di sistemi normativi circoscritti entro i confini degli Stati nazionali, e l’operatività transnazionale degli operatori finanziari, nonché la permeabilità delle economie a fenomeni, come le situazioni di difficoltà di intermediari, che si manifestano in paesi diversi. La ricerca di soluzioni a questi problemi è complessa. Le soluzioni potrebbero essere trovate dalla politica, ma proprio la crisi ha mostrato che la strada degli accordi fra Governi sia molto difficile da percorrere, a causa di esigenze di tutela delle economie nazionali e di conseguenti veti incrociati. La prevalenza della politica sulla tecnica[7], soprattutto nella fase recente, in cui dovevano essere trovate soluzioni di emergenza che gravano sui contribuenti, non deve far sottovalutare la capacità delle crisi di portare alla nascita di istituzioni composte da autorità tecniche, in grado di affermare principi regolamentari comuni fra diversi paesi. E’ il caso del Comitato di Basilea, nato all’indomani della crisi della banca Herstatt nel 1974 fra i paesi del gruppo dei Dieci. Le regole stabilite dal Comitato di Basilea, infatti, pur non avendo forza normativa, sono state recepite in tutti gli ordinamenti degli Stati membri e si sono affermate anche al di fuori della cerchia dei paesi aderenti, al punto da essere definiti dalla letteratura come soft law[8]. Il punto di forza del Comitato di Basilea è rappresentato dalla consuetudine di incontri e scambi di opinioni fra autorità di vigilanza dei paesi aderenti che ha condotto all’individuazione di principi condivisi. Gli studi sull’operatività degli organismi internazionali dimostrano che la possibilità di arrivare a un accordo è accresciuta se al tavolo negoziale siedono i rappresentanti di autorità amministrative con esperienze e problemi comuni[9]. Oggi la definizione di regole condivise sul piano tecnico avviene nel Financial Stability Board, organismo che ha sostituito il Financial Stability Forum, con competenze ampliate rispetto a quest’ultimo, che riunisce i paesi del Gruppo dei 30, rappresentativi dei sistemi economici più rilevanti. Il compito del’FSB è più difficile, considerato che a esso partecipa un novero di paesi più ampio rispetto a quelli che aderiscono al Comitato di Basilea; essi rappresentano aree del mondo con problemi e interessi profondamente diversi. Va ricordato, inoltre, che i lavori dei comitati internazionali registrano normalmente la prevalenza dei modelli regolamentari, e delle relative esigenze dei sistemi economici, di alcune nazioni leader, come è stato il caso di Stati Uniti e Regno Unito nel Comitato di Basilea, fino allo scoppio della crisi. Quest’aspetto può rappresentare un punto debole dei Comitati internazionali, considerato che sono state oggetto di forti critiche proprio le scelte regolamentari assunte sotto la pressione dei paesi anglosassoni, come è il caso dell’Accordo di Basilea II sul capitale delle banche. D’altro canto, l’alternativa dell’accordo politico fra gli Stati appare ancora più complicata da realizzare; difficilmente questa strada potrà condurre alla definizione di regole stringenti per gli operatori.

3. Poteri e discrezionalità delle autorità. La crisi finanziaria ha evidenziato ritardi nella comprensione delle situazioni di difficoltà degli intermediari e negli interventi da parte delle autorità di vigilanza. Una delle possibili spiegazioni attribuisce i ritardi alla riduzione dei poteri delle autorità realizzata con gli interventi legislativi degli ultimi venti anni. La discrezionalità attribuita alle autorità dalle leggi degli anni trenta è stata criticata; in alcuni casi perché aveva consentito una più facile cattura del regolatore, come accaduto negli Stati Uniti, a seguito della crisi delle Saving & Loans, conducendo alla svolta della prompt corrective action. In altri, perché sarebbe risultata troppo limitativa dell’autonomia imprenditoriale degli intermediari; è il dibattito italiano che ha condotto alla definizione nel testo unico del 1993 delle finalità della vigilanza, distinguendole da quelle di politica monetaria, e all’individuazione di criteri predefiniti per il rilascio delle autorizzazioni.

Una possibile risposta alla crisi potrebbe tradursi, quindi, nel ritorno al passato, consentendo alle autorità di vigilanza maggiore discrezionalità, per quanto possibile nel moderno assetto di norme che regolano l’operato delle amministrazioni pubbliche. In realtà, questo dibattito è falsato nei presupposti; lo studio dell’evoluzione della vigilanza mostra che la discrezionalità delle autorità non è molto diminuita negli ultimi 20 anni; essa ha solo assunto nuove forme. La maggior parte degli ordinamenti finanziari attuali si basa su regole stabilite ex ante, uguali per tutti gli intermediari, principalmente tese alla fissazione di determinati rapporti fra operatività e mezzi propri. Il passaggio da un sistema di limiti all’operatività e autorizzazioni caso per caso, a uno in cui vengono imposti vincoli all’espansione dell’attività correlati alla sussistenza di determinate condizioni dell’assetto organizzativo dell’impresa, comporta il cambiamento dell’approccio regolamentare da un sistema di divieti, e quindi obblighi di comportamento, a uno di vincoli e controlli sull’organizzazione dei fattori produttivi. Questo tipo di regole sostituisce divieti con incentivi che tendono a far coincidere l’interesse della singola impresa con quello generale[10]. Le norme non limitano più la concorrenza fra gli intermediari, spingendo verso la ricerca dell’efficienza gestionale. Le autorità intervengono per verificare la coerenza delle scelte gestionali dell’impresa con gli assetti organizzativi. Ciò è confermato dalla crescita del peso della vigilanza informativa, ossia dell’analisi della situazione finanziaria sulla base di modelli standardizzati.
La sostituzione di regole di comportamento con regole organizzative non equivale a una riduzione dei controlli pubblici, né alla diminuzione della discrezionalità delle autorità; secondo uno dei massimi autori del pensiero liberale, la sostituzione di regole di condotta con regole di organizzazione rappresenta un’espansione del diritto pubblico ai danni del diritto privato[11]. Anche Basilea II, pur affidando agli stessi intermediari, o a valutazioni di operatori del mercato, come le agenzie di rating, il giudizio sulla rischiosità dell’attivo delle banche, ai fini dell’applicazione delle regole di capitalizzazione, non ha ridotto i controlli pubblici, né la discrezionalità delle autorità; queste ultime sono passate dal controllo del rispetto di vincoli quantitativi a quello sulla qualità della gestione, considerato che i modelli interni possono essere adottati solo dagli intermediari che hanno un assetto organizzativo adeguato. Più in generale, il concetto di sana e prudente gestione presenta elementi di ambiguità e consente alle autorità margini di interpretazione rilevanti, anche se si può affermare che la fissazione di una serie di parametri della valutazione pubblica, stabiliti preventivamente, come quelli dell’adeguatezza patrimoniale, consente, rispetto al passato, una più semplice sindacabilità dell’operato delle autorità.
I ritardi negli interventi degli organi pubblici di supervisione non possono essere conseguenza della loro diminuita discrezionalità. E’, inoltre, riduttivo discutere dell’efficacia dell’azione delle autorità solo in termini di ampiezza della loro discrezionalità.
E’ più utile cercare di comprendere le debolezze emerse nell’assetto dei controlli. In tale ottica, un punto importante riguarda le modalità e i tempi dell’intervento dei supervisori, come disegnati dagli ordinamenti moderni. La scelta, non più discutibile nei moderni ordinamenti, di considerare gli intermediari finanziari come imprese che effettuano decisioni gestionali autonome, nel rispetto di vincoli generali legati alla struttura organizzativa, confina l’intervento delle autorità nella fase nella quale si manifestano squilibri gestionali o i primi segnali di difficoltà. In questo sistema sembrano importanti due aspetti: la tempestività, la profondità e l’autonomia di giudizio del supervisore esterno nell’analisi della situazione finanziaria dell’intermediario; l’esistenza di poteri sanzionatori incisivi a disposizione delle autorità per la cattiva gestione.
Il primo aspetto è oggetto di discussione da parte delle stesse autorità, prima fra tutte quelle inglesi. Queste ultime, fin dagli inizi degli anni novanta, hanno sostenuto l’idea di una vigilanza caratterizzata da interventi poco prescrittivi e concentrata sulla valutazione dei risultati gestionali. In questo contesto, un peso centrale fra gli strumenti di supervisione è attribuito al dialogo diretto fra vigilanza pubblica e senior management delle banche. In un recente documento di analisi della crisi finanziaria globale del 2009 l’FSA, alla luce degli evidenti fallimenti di quest’approccio, dimostrato dai ritardi nella comprensione di situazioni di difficoltà finanziaria di importanti intermediari, ha sostenuto l’esigenza di una revisione della filosofia della supervisione. Non è abbandonata l’idea di ridurre al minimo gli interventi prescrittivi, ma viene proposto di intensificare l’attività di revisione di gestione delle banche e di passare da un approccio “based on facts” a un approccio “based on judgements about the future”. La vigilanza dovrebbe effettuare una valutazione delle soluzioni gestionali degli amministratori delle banche, ossia entrare nel merito delle complessive scelte di business della banca e, più in generale, sulle previsioni sui rischi. Si tratta di valutazioni che presentano margini di ambiguità elevati e che possono dare luogo, più che in passato, a una pericolosa confusione fra le scelte gestionali degli intermediari e il giudizio della vigilanza. La mancanza di distinzione netta di ruoli fra imprese e supervisore esterno rende più difficile per quest’ultimo intervenire con un giudizio negativo sulla gestione dell’intermediario in situazioni di difficoltà. La posizione della FSA non appare convincente nella parte in cui accentua la discrezionalità nella valutazione delle gestione delle banche da parte delle autorità. E’, invece, importante il richiamo dell’attenzione sull’attività di analisi della situazione finanziaria degli intermediari come perno della vigilanza che dovrebbe essere più frequente e accompagnarsi al rafforzamento delle autorità sul piano delle competenze tecniche e dell’indipendenza.

Con riguardo al secondo punto si deve segnalare che non tutti gli ordinamenti prevedono interventi di tipo sanzionatorio radicali per la cattiva gestione, come la sostituzione degli amministratori o la liquidazione dell’intermediario, che possono rappresentare un disincentivo al moral hazard degli operatori[12].
Le debolezze evidenziate nell’esercizio della vigilanza sono state acuite dalla accresciuta complessità delle regole; l’utilizzo di sofisticati modelli finanziari per il calcolo del rischio in Basilea II ha reso più difficile il compito dei supervisori pubblici, che si confrontano molto spesso con operatori che si affidano a professionisti con un grado di competenze tecniche largamente superiore a quello dei dipendenti dell’autorità pubblica.
Altro elemento critico di quest’assetto è stato rappresentato dalla crescita dimensionale degli intermediari; questi ultimi non sono solo too big to fail, ma sono anche troppo grandi per essere controllati, considerato che si tratta di istituzioni con un potere di mercato che consente loro di influenzare i governi dei paesi.
Per limitare questi problemi le autorità di vigilanza devono essere rafforzate, accrescendone l’indipendenza non solo dalla politica, ma anche dal mercato, aumentando le risorse a esse destinate, per consentire l’assunzione di personale specializzato e ben remunerato e di esercitare controlli frequenti sulla situazione finanziaria. Le autorità, infine, devono essere chiaramente dotate di poteri sanzionatori che consentano di sostituire gli amministratori che hanno sbagliato. Non sembra un buon esempio l’esperienza statunitense dei primi anni novanta del secolo scorso, in cui il Governo, per sanzionare le autorità che avevano fallito nella vigilanza sulle S&L, ne ha limitato la discrezionalità, ma ha anche ridotto le risorse finanziarie destinate allo svolgimento delle finalità istituzionali, rendendo la supervisione poco frequente e scarsamente incisiva[13].

Note

1.  Cfr. U. Mattei, Senza diritto, che mercato è?, in Il Sole24ore, 5 giugno 2009, n. 153.

2.  L’antico dibattito fra sistemi giuridici e limiti all’intervento pubblico nell’economia non può essere semplificato affermando che i paesi di civil law, in cui i giuristi hanno un peso importante, tendono al perseguimento di interessi collettivi di giustizia sociale, mentre quelli di common law darebbero la prevalenza alle ragioni dell’economia, così favorendo interessi di gruppi sociali ristretti, come quello dell’efficienza dei mercati finanziari, come mostra il saggio di F. Hayek, Ordinamento giuridico e ordine sociale, in Il politico. Rivista italiana di scienze politiche, 1968, p. 693-723.

3.  E.N. White, Lessons from the history of bank examination and supervision in the United States, Conference on Financial Market Regulation After Financial Crises: the Historical Experience. Banca d’Italia, 16-17 aprile 2008, in www.bancaditalia.it.

4.  M. S. Giannini, Istituti di credito e servizi di interesse pubblico, in Moneta e credito, 1949, p. 105 ss.

5.  The Department of the Treasury, Blueprint for a modernized financial regulatory structure, marzo 2008.

6.  Cfr. C. Brescia Morra, Le carenze della regolamentazione, in Oltre lo shock. Quale stabilità per i mercati finanziari, a cura di E. Barucci e M. Messori, Egea ed., Milano, 2009.

7.  Cfr. G. Napolitano, La rivincita degli Stati e della Politica, in Il Sole24ore, sabato 13 giugno 2009.

8.  Cfr. C. Giannini, Promoting Financial Stability in Emerging-Market Countries: The Soft Law Approach and Beyond, in Comparative Economic Studies, XLIV, n. 2 (Summer 2002), p. 125-167; M. Giovanoli, International Monetary Law. Issues for the New Millennium, Oxford University Press, 2000.

9.  Cfr. William R., White, International Agreements in the Area of Banking and Finance: Accomplishments and Outstanding Issues, BIS, Working paper, n. 38, ottobre 1996.

10.  Per una lettura dei coefficienti di solvibilità come regola di governance cfr. Geoffrey Wood, Governance Not regulation, in questa rivista 14 aprile 2009.

11.  Cfr. F.A. Hayek Ordinamento giuridico e ordine sociale cit., p. 717-718 ss. Nell’ambito della teoria generale del diritto, è stata contestata l’idea della equivalenza fra norme di diritto pubblico e norme di organizzazione. Secondo Bobbio, infatti, la dicotomia fra norme di condotta e norme di organizzazione «…meglio di ogni altra serve ad individuare le due funzioni che tradizionalmente sono attribuite ad un ordinamento giuridico: la funzione di rendere possibile la convivenza di individui (o gruppi perseguenti ciascuno fini singoli), e la funzione di rendere possibile la cooperazione di individui o gruppi perseguenti un fine comune» (N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione (nuovi studi di teoria del diritto), Milano 1977, p. 128-129).

12.  Cfr. sul punto C.A.E. Goodhart, The Regulatory Response to the Financial Crisis, CESifo Working paper, n. 2257, marzo 2008 sulle carenze di poteri delle autorità inglesi per limitare il moral hazard degli intermediari bancari indotto dall’esistenza di un sistema di garanzia dei depositi.

13.  E.N. White, Lessons from the history of bank examination and supervision in the United States, cit.