Un libro che mira a spiegare cause, conseguenze e rimedi della crisi finanziaria del 2008: “A Failure of Capitalism” di Richard A. Posner, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 2009

Il libro sulla crisi finanziaria, intitolato sintomaticamente “A Failure of Capitalism”, è importante innanzitutto per l’autorevolezza del suo autore. Richard Posner, sebbene non sia un macroeconomista, ha dimostrato nel corso degli anni di poter affrontare in modo molto intelligente argomenti che non appartengono alla propria disciplina. Il giurista di Chicago, infatti, è ciò che si definisce un “giuseconomista”, o un Law and Economics Scholar. Fin dalla fine degli anni 60 del secolo scorso Posner ha contribuito a creare questa disciplina la quale prende a prestito alcuni concetti della teoria dei prezzi neoclassica per comprendere meglio il diritto esistente (scuola positiva) o per proporre modifiche del tessuto normativo (scuola normativa). Posner, che ha insegnato presso la Law School della University of Chicago – a contatto fin dall’inizio con Ronald Coase – ha essenzialmente inglobato nell’armadio dei suoi strumenti teorici e analitici tre concetti fondamentali della microeconomia: il concetto di homo oeconomicus; il principio di efficienza (secondo il criterio di Kaldor e Hicks); ed, infine, il concetto di fallimento del mercato (market failure). Il primo concetto, quello dell’uomo razionale ed egoista è il modello d’uomo che popola i manuali di economia neoclassica. Egli è un individuo che di fronte ad una scelta sa compiere un’analisi costi/benefici e intraprende l’azione se i benefici superano i costi; il concetto di efficienza serve ad indicare quegli stati del mondo in presenza dei quali non è possibile attuare un cambiamento in cui coloro che guadagnano potrebbero indennizzare quelli che perdono e tuttavia rimanere ugualmente in una posizione migliore; il concetto di fallimento del mercato, infine, mira ad indicare quelle situazioni in cui l’interazione fra soggetti economici non porta ad una situazione efficiente, per cui un intervento dello Stato potrebbe incrementare la ricchezza aggregata della comunità e, al limite, migliorare la posizione di tutti.

Lo scopo principale del libro di Posner sta nel dimostrare che soggetti economici razionali ed egoisti, homini oeconomici, quando interagiscono fra loro e pur in presenza di norme che tutelano la proprietà e ostacolano la violenza e la frode, possono condurre un sistema economico ad una recessione e, nei peggiori dei casi, ad una recessione così grave come quella di oggi che, essendo seconda solo alla Grande Depressione, Posner definisce appunto “depressione” e non “recessione”. Colpisce la conclusione dell’autore sul punto, in quanto essendo Posner un pensatore conservatore, ha spesso ravvisato nel mercato quei meccanismi per auto correggersi e rimediare ai malfunzionamenti. Bisogna peraltro rilevare che la Scuola di Chicago non ha mai rinnegato lo schema dei fallimenti di mercato, per cui vi è una certa coerenza nelle conclusioni di Posner. Il libro è particolarmente piacevole, anche se un po’ disordinato e scritto di fretta, perché si segue passo dopo passo la riflessione dell’autore nella scoperta della macroeconomia. Differente dai manuali di questa disciplina, che sono elaborati da studiosi già assuefatti all’argomento, in questo libro si scopre, con linguaggio semplice, la disciplina della macroeconomia seguendo gli stessi percorsi logici ed esplorativi che ha seguito l’autore per avvicinarvisi alla materia.

Il secondo scopo principale che Posner si prefigge di raggiungere consiste nel dimostrare che in situazioni di crisi economica, come la recessione di oggi, l’approccio operativo più idoneo è rappresentato dal “pragmatismo”, cioè dall’abbandono delle ideologie ortodosse, per cui strumenti tipici della teoria monetaria e metodi del pensiero keynesiano debbono essere tutti tenuti presenti ed utilizzati per uscire dai momenti difficili. Questo atteggiamento verso il pragmatismo fa di Posner un pensatore che non può più essere inserito in una classificazione di scuole. Egli non è keynesiano ma non è completamente monetarista. Tuttavia, rimane in piedi la sua fede verso il modello dell’homo oeconomicus e verso la categoria dei fallimenti del mercato.

Ma per tornare al primo punto, cioè alle conseguenze negative dell’interazione fra più soggetti quando manca una regolamentazione finanziaria (regolamentazione esistente fino agli anni 70 negli Stati Uniti e successivamente superata), come accade che si possa arrivare ad una recessione?

Il punto di partenza del ragionamento di Posner è rappresentato dal riconoscimento dell’esistenza di bassi tassi di interesse a partire dagli anni 2000. L’autore non imputa alla Federal Reserve tale situazione, anche se in interviste successive modifica tale impostazione ed individua il colpevole di tali tassi nella Banca Centrale. I bassi tassi di interesse degli anni 2000, causati anche dall’affluenza di capitale straniero disponibile a basso costo, portarono gli intermediari finanziari ad incrementare il loro leverage, cioè il loro rapporto del debito sul capitale. Si immagini un intermediario finanziario che ha un capitale proprio di 1 milione di dollari e che decida di prestarlo al 5%. Alla fine dell’anno avrà un profitto di 50.000 dollari e quindi in termini percentuali, come è chiaro, del 5%. Si supponga ora che quell’intermediario prenda a prestito 5 milioni di dollari ad un tasso del 3% e li conceda a titolo di mutuo ad un tasso del 5%. In questo modo egli dovrà rimborsare interessi per una somma di 150.000 dollari, ma avrà introiti pari a 300.000 dollari. In questa ipotesi il suo profitto sarà pari al 15% (150.000 dollari di profitto a fronte di un capitale proprio di un milione). Il leverage quindi permette di aumentare notevolmente i profitti degli intermediari finanziari. L’altra faccia della medaglia sta in ciò che il rischio per ciascun intermediario è aumentato: se per l’intermediario che deteneva un milione e non aveva preso nulla in prestito il mancato pagamento degli interessi non comporta una perdita che erode il capitale proprio, per l’imprenditore che aveva ottenuto 5 milioni di prestito e che non vede restituiti gli interessi vi è una perdita di 150.000 dollari. Le imprese finanziarie, negli anni 2000 raggiunsero un livello di leverage pari a 30 se non a 50, per cui il rischio di insolvenza divenne realmente concreto.

Ma vi è una irrazionalità nel far ciò? Vi è da ravvisare un comportamento irrazionale nel portare il leverage di un intermediario finanziario ad un livello molto elevato?

La risposta di Posner è negativa. Il comportamenti degli amministratori degli intermediari finanziari può essere ricondotto sotto i canoni della razionalità. Il rischio di fallimento, infatti, è uno di quei rischi che l’impresa può ben correre, se vi sono in cambio alti profitti, e ciò in particolare quando i proprietari dell’impresa hanno un portafoglio ben diversificato. Correre un rischio di fallimento è privatamente razionale e socialmente ottimale, per cui la razionalità individuale coincide con quella collettiva.

I problemi peraltro sorgono quando si ha riguardo agli intermediari finanziari e ai rapporti che intercorrono fra di loro.

Ma prima di affrontare tale problema si deve preliminarmente andare ad identificare l’uso che le imprese finanziarie facevano dei soldi ottenuti in prestito. Nel corso di questi ultimi anni vi è stata una gran richiesta di mutui per l’acquisto di immobili e gli intermediari finanziari hanno soddisfatto tale domanda. I mutui venivano garantiti da ipoteche sugli immobili ma, dato che i prezzi delle case si mostravano continuamente in crescita, le imprese finanziarie finirono per prestare anche a soggetti che non offrivano forti garanzie. L’idea di fondo era che, anche qualora il mutuatario non fosse riuscito a pagare una o più rate, dato l’aumento di valore dell’immobile si poteva prevedere un’ipoteca più ampia sull’immobile stesso. Le imprese finanziarie cominciarono inoltre a compiere le operazioni di cartolarizzazione dei mutui ipotecari, offrendo così un bene finanziario anche agli stranieri che non avevano interesse a seguire un singolo mutuo ipotecario negli Stati Uniti. Con la cartolarizzazione si potevano cedere quote di un fondo molto ampio di mutui ipotecari ai soggetti più disparati. Tali crediti cartolarizzati finirono anche nei capitali propri delle imprese finanziarie.

Ad un certo punto la bolla immobiliare scoppiò, e i valori degli immobili scesero ben al di sotto del valore coperto dalle ipoteche. Inoltre i crediti cartolarizzati persero di valore e gli intermediari finanziari si trovarono sotto un duplice fuoco. Da una parte erano creditori di mutui ipotecari incagliati, dall’altro avevano crediti cartolarizzati nel loro capitale. Una tale situazione portò gli intermediari finanziari fino al limite dell’insolvenza ed in tali condizioni essi non offrirono più denaro a prestito. Vi fu il congelamento del mercato del credito.

Vi è un ulteriore osservazione che deve essere compiuta per seguire il ragionamento di Posner: in questi anni gli intermediari finanziari hanno cominciato ad emettere credit default swap. Tali contratti sono strumenti con i quali l’emittente garantisce il pagamento di un credito di certo debitore. Gli intermediari finanziari divennero ben presto emittenti ed acquirenti di credit default swap e tale situazione produsse una situazione del tipo effetto domino: l’impresa A emetteva un credit default swap verso B e successivamente veniva a trovarsi in una situazione di insolvenza. Il credito verso il debitore C a questo punto non era più coperto, e se C diveniva a sua volta inadempiente trascinava nell’insolvenza anche l’intermediario B.

Questo effetto domino non deve però far trascurare il fatto che i portafogli degli intermediari finanziari andarono negli anni 2000 ad assomigliarsi, contenendo in genere una grande quantità di mutui ipotecari. Inoltre non si può tralasciare che i crediti cartolarizzati fossero entrati nei capitali delle imprese finanziarie. Ora si può sostenere, con Posner, che se il rischio dell’1% di fallimento di un singolo intermediario finanziario non è un problema per l’economia di un paese, il rischio correlato dell’1% per tutti gli intermediari di divenire insolventi comporta una sciagura. Nella situazione che si era creata, i rischi di insolvenza degli operatori finanziari non erano indipendenti ma correlati, così che, quando quel basso rischio di insolvenza si verificò, tutti gli intermediari finanziari vennero trascinati verso il fallimento. Ciò che è razionale per il singolo intermediario – prendere un basso rischio di insolvenza – non lo è collettivamente se i rischi dei vari operatori sono correlati. Di qui il fallimento del mercato: nessun soggetto, sulla base del proprio calcolo economico, tiene conto del rischio “recessione” che può causare in forza della correlazione dei rischi, perché tale effetto “recessione” va a colpire per la maggior parte altri soggetti. Posner conclude richiamando la regolamentazione finanziaria che si venne eliminando a partire dagli anni 70 del secolo scorso, quando il fenomeno della deregulation non seppe distinguere fra mercato dei trasporti o più in generale mercato delle utilities e mercato finanziario, per cui tutto venne deregolamentato. L’autore ricorda tale regolamentazione, dichiara espressamente che una nuova regolamentazione sarà necessaria, ma non afferma se quella abbandonata sarebbe l’ottima. Posner ci lascia così con una domanda: quale regolamentazione ha in mente per il mercato finanziario? Probabilmente una risposta non è ancora a sua disposizione ed è forse presto, come dichiara Posner, pensare di regolamentare proprio nel mezzo della crisi che ci sta colpendo (anche se questa affermazione appare, nell’analisi di Posner, un poco apodittica).