Un economista insigne su ricchezza delle nazioni e diritto

E’ divenuto raro leggere un libro di economia – non un articolo di rivista scientifica – tanto rilevante e complesso quanto limpido, fruibile anche dal non specialista. L’autore, William J. Baumol, è uno dei non molti economisti contemporanei di qualità davvero alta. Sebbene inspiegabilmente ignorato dalle giurie del Nobel – ma non dall’italiana Accademia dei Lincei! – nell’arco di oltre sessant’anni ha offerto contributi originali, importanti, su temi che vanno dalla moneta all’impresa, dalla produttività alla concorrenza, ai metodi dell’analisi statica e dinamica, alla borsa.
E’ quindi con convinta motivazione che segnaliamo “Capitalismo buono, Capitalismo cattivo. L’imprenditorialità e i suoi nemici” (Yale University Press, New Haven, 2007), scritto da Baumol insieme a R.E. Litan e C.J. Schram, con chiara prefazione di Franco Amatori alla ben curata edizione italiana (Egea, Milano, 2009).
L’oggetto del volume è la crescita: la ricchezza delle nazioni che hanno scelto quale modo di produzione l’economia di mercato capitalistica. A partire dal capolavoro di Adam Smith del 1776 le determinanti del benessere materiale dei popoli e le azioni di governo più utili a promuoverlo costituiscono il nodo centrale dell’economia politica.
La superiorità del capitalismo nello sviluppare le forze produttive è stata, dai classici in poi, analiticamente compresa. Più di recente è stata statisticamente confermata da serie storiche plurisecolari. Una economia di mercato mobilita più risorse, in specie di risparmio che si fa capitale. Soprattutto, stimola e applica con inedita intensità il progresso tecnico alle attività produttive. Nell’arco degli ultimi duecento anni il sistema capitalistico si è affermato e diffuso. Sebbene sia instabile, iniquo, inquinante, non di rado ingovernabile, ha prevalso perché è riuscito a moltiplicare per dieci il reddito medio di una popolazione mondiale aumentata pur essa come non mai, più di sei volte. Quello stesso reddito medio era invece rimasto malthusianamente invariato, nel trend, durante i precedenti millenni. Per ben due terzi il tumultuoso, formidabile progresso seguito alla Rivoluzione industriale inglese è imputabile alla innovazione tecnologica e per un terzo soltanto è riconducibile alla scala più vasta con cui lavoro, fonti d’energia, terra, ma principalmente capitali sono stati impegnati nel produrre.
Dopo Keynes, Harrod, Solow, Kuznets la moderna analisi teorica ed empirica della crescita – uno stuolo di studiosi, una letteratura sconfinata – considera tali risultati come ormai acquisiti. Si sforza di andar oltre l’accumulazione di capitale e il progresso tecnico, esplorando un secondo strato: quello dei loro nessi reciproci e delle loro determinanti, economiche e non. Restano terra incognita almeno due cruciali questioni. Perché il medesimo modo di produzione si rivela di maggior successo in alcuni contesti, piuttosto che in altri? Perché sembra incapace di far convergere, con una crescita più rapida, le economie ancora comparativamente povere verso i picchi di benessere raggiunti da quelle già ricche?
La risposta di Baumol è che oltre al capitalismo esistono i capitalismi. Egli distingue almeno quattro varianti del sistema, diversamente dinamiche. La transizione dalle meno funzionali alla più funzionale ai fini della crescita non è assicurata. Richiede tempi non brevi. Soprattutto, presuppone regole e istituzioni acconce. La forma maggiormente propulsiva è il “capitalismo imprenditoriale” (Stati Uniti, ad esempio). Alla lunga, essa si dimostra dominante sul “capitalismo oligarchico” (America Latina, ad esempio), sul “capitalismo diretto dallo Stato” (Sud-est Asiatico, ad esempio), sul “capitalismo delle grandi imprese” (Giappone ed Europa continentale, ad esempio).
Nel capitalismo “buono” abbondano gli “imprenditori”: “Ogni entità, nuova o preesistente, che fornisce un nuovo prodotto o servizio o che sviluppa e utilizza nuovi metodi per produrre o distribuire beni e servizi esistenti a un costo minore” (p. 3). L’innovazione è definita da Baumol come “il connubio di nuova conoscenza, incorporata in un’invenzione, con l’introduzione di quell’innovazione nel mercato” (p. 6). Gli imprenditori “innovativi” si concentrano nella impresa brillante di dimensione relativamente contenuta. Questa tuttavia “non deve essere confusa con la ‘piccola impresa’ e neppure con tante nuove imprese” (p. 4). Alcune economie abbondano di lavoratori autonomi – le partite IVA italiane – e di imprese, ma esse sono “talmente piccole (l’Italia è un esempio calzante) che non riescono a realizzare le economie di scala necessarie” (p. 247) o le cercano in modo difensivo nelle sinergie del distretto industriale ovvero scelgono i vantaggi dell’economia informale, sommersa. Anche i produttori “imitativi” sono peraltro essenziali: “Vi è una gran differenza fra un’embrione di idea radicale, ma utile, germogliata nella mente di un imprenditore, e un prodotto commerciale (…). Le economie di maggiore successo sono quelle che combinano imprenditori innovativi con imprese più grandi e consolidate (…) le quali rifiniscono e producono su larga scala le innovazioni” (p. 4).
Un tessuto produttivo articolato e senza soluzione di continuità fra piccola, media e grande azienda, quindi, è il presupposto strutturale del “capitalismo imprenditoriale” di cui Baumol esalta le potenzialità. Occorre peraltro far sì che in un tessuto produttivo siffatto – in molte economie di mercato inesistente – vi sia “un incentivo incessante a innovare, come pure a realizzare e a commercializzare innovazioni radicali o dirompenti” (p. 109). Mantenere vivo tale incentivo, creare le condizioni affinché esso possa esprimersi al meglio: è, questo, il duplice compito a cui sono chiamati il governo dell’economia, l’ingegneria istituzionale, la politica economica.
I suggerimenti più interessanti del libro sono rivolti alle economie avanzate che già “si trovano sulla ‘frontiera tecnologica’, dove il progresso futuro richiede una costante innovazione, anziché la mera imitazione” (p. 8), accessibile anche agli altri tipi di capitalismo. Vengono individuati “quattro elementi di un ben oliato motore per la crescita economica”, per una “economia imprenditoriale di successo” (p. 8). Essi concernono tutti l’impresa, e segnatamente l’ordinamento giuridico dell’impresa. Ai fini della crescita gli assetti giuridico-istituzionali sono dichiaratamente considerati da Baumol prioritari anche nel confronto con altre determinanti meta-economiche, su cui invece viene spesso incentrata l’attenzione: la cultura, la geografia, l’istruzione, la stessa democrazia. Di rado, da un economista insigne è stato assegnato un tale rilievo alla dimensione giuridica del problema economico. L’impostazione, inoltre, si discosta in modo netto dalla ortodossia anglosassone della “law and economics” di impianto neoclassico. Non intende configurare un ottimo diritto per qualsivoglia economia in qualsivoglia contesto. Privilegia invece un criterio di adeguatezza, di congruità, delle soluzioni giuridiche rispetto alle esigenze specifiche di una economia di mercato determinata. Più volte nel libro viene espresso scetticismo circa la supposta generale superiorità economica del common law sul civil law. Lo scetticismo si estende al trapianto di istituti da un ordinamento all’altro, paventandosi la crisi di rigetto di fronte ai siffatti tentativi (pp. 51, 65, 71).
I quattro elementi cardine consistono nel facilitare l’apertura, la chiusura e i rapporti di lavoro dell’impresa; nel far sì che proprietà e contratto, rispettati, possano “ricompensare le attività imprenditoriali socialmente utili” (p. 9); nello scoraggiare la ricerca di rendite legali; nel promuovere la concorrenza.
Le indicazioni de jure condendo più specifiche che il libro offre tracciano una vera e propria mappa dei criteri di fondo a cui la politica del diritto dovrebbe ispirare l’ordinamento dell’impresa in una moderna economia di mercato. Quelle indicazioni possono essere elencate come segue, riclassificate per blocchi di istituti, per sezioni dell’ordinamento.
Diritto societario. “Dev’essere relativamente facile costituire un’impresa, senza eccessivi costi e perdite dovuti a intralci burocratici” (p. 9). Ciò, anche al fine di evitare che i promotori scelgano la via “informale” del sommerso, con pregiudizio del sistema economico nel suo complesso (pp. 124-130). Così, nella vita dell’impresa gli obblighi di legge a tutela di azionisti, creditori, consumatori, stakeholders, sebbene opportuni, “non dovrebbero travalicare la soglia critica oltre la quale l’impresa decide di non quotarsi in borsa, ovvero viene abbandonata dai fondatori una volta quotata, ovvero esce dal listino per sottrarsi ai gravami regolamentari”. Un esempio di normativa recente che rischia di rivelarsi eccessivamente onerosa è indicato dal libro proprio nella legge Sarbanes-Oxley statunitense del 2002. Analogamente, nella governance interna all’impresa i meccanismi di controllo sull’operato degli amministratori incontrano il limite superato il quale ne risente la funzione imprenditoriale, la più preziosa (p. 314).
Diritto fallimentare. L’impegno imprenditoriale nell’avviare e nello sviluppare un’azienda dipende molto dal “costo dell’uscita, o del fallimento”: “Quanto più una società penalizza il fallimento, tanto minore è l’imprenditorialità su cui essa può contare” (p. 130). La visione demonologica e l’atteggiamento punitivo di tradizione europea nei confronti del fallito vengono nel libro duramente stigmatizzati. Le procedure concorsuali andrebbero al contrario orientate, come avviene da tempo negli Stati Uniti, alla tempestiva riallocazione delle risorse che l’azienda in difficoltà sottoutilizza. Va incentivato l’allarme precoce, spontaneo, da parte degli stessi amministratori dell’impresa in difficoltà. Bloccare alla fonte le inefficienze è altresì il presupposto per una tutela sostanziale, e non solo formale, dei creditori. Questa, tuttavia, quale primaria ratio del diritto fallimentare cede alla esigenza di miglior impiego delle risorse produttive. La protezione dei finanziatori è inoltre affidata anche a discipline e istituzioni specifiche di tutela del risparmio.
Diritto del lavoro. “Gli imprenditori non possono crescere se le leggi sul lavoro sono troppo rigide (specie se limitano la capacità delle imprese di licenziare i lavoratori inefficienti o di disfarsi di quelli di cui non hanno più bisogno)” (p. 9). E’ questo il caso, secondo Baumol, di molte economie europee dove, “per peggiorare le cose, le generose indennità di disoccupazione (…) attenuano l’offerta di lavoratori attivamente in cerca di lavoro” (p. 274). Il sistema di sicurezza sociale può contribuire alla mobilità del lavoro, rendendola meno incerta e penosa; non deve ostacolare lo spostamento delle risorse tra settori, imprese, aree territoriali. Al tempo stesso, solo la crescita economica può sostenere il sistema di sicurezza sociale in una popolazione che cresce e vive più a lungo.
Proprietà e contratto. “Gli imprenditori (e tutte le imprese) devono confidare nel fatto che i contratti stipulati saranno rispettati (e, se necessario, eseguiti coercitivamente da un sistema giudiziario indipendente)” (p. 135). Devono, gli imprenditori, poter cogliere il frutto dell’innovare. Rilievo speciale assume nello schema teorico di Baumol – imperniato su imprenditorialità, innovazione, progresso tecnico – la proprietà intellettuale (pp. 316-324). L’ordinamento è chiamato a trovare un punto di compromesso fra la tutela della creazione e la tutela della diffusione delle innovazioni utili alla produzione. L’una e l’altra sono indispensabili alla crescita economica, ma il libro invita a porre l’accento sulla seconda in maggior misura di quanto solitamente non avvenga. Idealmente i brevetti andrebbero concessi alle novità vere, non alle “ovvietà” (il Patent and Trademark Office degli Stati Uniti è inondato ogni anno da 400 mila domande di brevetto). E’ preferibile riconoscere il brevetto a chi per primo lo richiede, piuttosto che al primo inventore, meno certo. Sarebbe opportuno che la normativa e la prassi burocratica incentivassero gli innovatori “a concludere con i rivali convenzioni incrociate di licenze di utilizzazione” (p. 323). Un mercato secondario della proprietà intellettuale e dei diritti temporanei di accesso all’innovazione esiste – almeno negli Stati Uniti – e va consolidato. Per l’impresa innovatrice vendere la tecnologia può essere più profittevole – e rivelarsi più utile allo sviluppo dell’intera economia – che non applicare il brevetto direttamente alla produzione.
Diritto della concorrenza. Dall’autore di “Contestable Markets” non ci si poteva attendere una sottolineatura meno marcata del rilievo della concorrenza ai fini del dinamismo di una economia di mercato. Il profitto non dev’essere garantito ex-ante, non dev’essere ‘facile’. “Le istituzioni statali devono garantire che gli imprenditori vincenti e le imprese più grandi e consolidate continuino a essere incentivati a innovare e a crescere, pena la caduta dell’economia nella stagnazione” (p. 9). Il pensiero purtroppo va all’economia italiana, che vive un ventennio di progressivo appannamento della produttività: profitti elevati, ma bassa crescita, sono il segno evidente di uno scemare delle sollecitazioni concorrenziali. L’esperienza dell’Italia – la legislazione italiana a tutela della concorrenza è del 1990 – conferma che l’azione antitrust può rivelarsi inefficace (p. 9). La ragione principale dell’inefficacia si annida proprio nel diritto, negli spazi di “caccia alla rendita” (p. 147) con mezzi legali che le norme sostanziali e i riti processuali non sempre precludono. Le azioni giudiziarie possono essere strumentalmente intentate da imprese che dispongono di abili avvocati più che di buoni prodotti. Possono prestarsi a indebolire, non a preservare, la concorrenza: “Ciò accade quando un’impresa, vedendosi condannata al fallimento dall’inferiorità dei suoi prodotti o dalla sua inefficienza, sposta lo scontro competitivo dal mercato alle aule dei tribunali, lamentando (falsamente o sulla base di prove opinabili) che l’impresa concorrente si comporta in modo predatorio” (p. 147). Anche se alla fine perdente, la lite temeraria consente all’impresa debole nel mercato di guadagnare tempo prezioso. Si citano nel libro i quattro grandi casi di cause giudiziarie anti-monopolio intentate dal Ministero della giustizia americano: contro AT & T, IBM e per due volte contro Microsoft. La transazione conclusiva con AT & T ha richiesto otto anni, l’archiviazione del procedimento contro IBM è giunta dopo tredici anni, la transazione con Microsoft sulla prima lite dopo cinque anni, la condanna di Microsoft nella seconda lite dopo sei anni: “Nel frattempo la tecnologia avanzava, con maggiori probabilità di qualsiasi azione giudiziaria di smantellare i monopoli presi di mira” (p. 154). Al di là degli enormi costi diretti delle liti, “in ciascun caso i dirigenti dell’impresa presa di mira dall’azione antitrust si concentrarono completamente sulla lite e quasi certamente sottrassero molte energie al loro lavoro”. Il giuoco si dimostra a somma negativa. Meglio, suggerisce Baumol, affidare le spinte competitive alla piena apertura del mercato nazionale alle merci e agli investimenti provenienti dall’estero… (pp. 154-157). Su questo punto nevralgico della concorrenza, la valutazione di sintesi è che “sarebbe un errore (…) confidare eccessivamente nella capacità delle leggi antitrust (…). Esse rimangono importanti per prevenire le collusioni nella fissazione dei prezzi e per impedire le fusioni che determinerebbero un’indebita concentrazione in certi mercati. Ma sono molto meno efficaci quando si tratta di mantenere viva la concorrenza tra coloro che hanno conquistato una posizione dominante o di monopolio” (pp. 152-153).
La lettura che abbiamo proposto, orientata al nesso crescita/diritto, non rende completa giustizia a un libro ricco anche di considerazioni analitiche e propositive d’ordine strettamente economico. Esse sono quasi tutte condivisibili, alcune opinabili. Ad esempio, la fiscalità – come Baumol afferma – frena e distorce le scelte imprenditoriali. Al tempo stesso, tuttavia, alimenta la spesa pubblica per servizi produttivi e infrastrutture che possono offrire all’impresa un ambiente favorevole alla crescita. La finanza è, sì, schumpeterianamente essenziale alla “distruzione creatrice” che – anche per Baumol – dello sviluppo economico costituisce l’essenza: trasferisce le risorse da chi le possiede e non sa usarle a chi le prende in prestito per realizzare validi progetti. Ma la instabilità che nella finanza è radicata comporta costi produttivi e sociali i quali in parte annullano l’apporto positivo di banche e borse al progresso economico. Le crisi finanziarie sono imprevedibili, non prevenibili, solo lenibili con le regole, la supervisione, la politica monetaria. Persino uno studioso del calibro di Baumol non allude affatto, in questo libro chiuso nel 2007, alla catastrofe che solo poche settimane dopo ha colpito l’industria finanziaria degli Stati Uniti. Di questa stessa industria il libro vanta, con ottimi argomenti, l’efficienza nell’allocazione delle risorse…

Il punto di forza del contributo di Baumol, Litan e Schram è – a mio avviso e in conclusione – nella indicazione, per la crescita economica, di una politica dei meccanismi, piuttosto che degli strumenti. La crescitaè in ultima analisi questione di assetti strutturali e giuridici orientati al progresso tecnico: il “ben oliato motore”, da costruire per tempo e nel tempo. Gli strumenti della politica fiscale, monetaria, dei redditi, industriale possono essere, al più, di ausilio alla crescita. Al tempo stesso, gli assetti strutturali del sistema produttivo sono meno facilmente influenzabili di quelli giuridici. Norme, giurisprudenza, dottrina sono maggiormente disponibili per le istanze riformatrici. Alla fine, è attraverso il diritto – un diritto nutrito di cultura anche economica – che si può provare a dare al sistema capitalistico, per sua natura recalcitrante, la forma più dinamica. Le interazioni, il terreno di confine, fra l’analisi giuridica e l’analisi economica sono davvero aperta contrada.