Il rito “semplificato” di cognizione

[*] Sommario: 1. Natura e collocazione sistematica. – 2. L’ambito di applicazione. – 3. Il ricorso introduttivo. – 4. Il decreto di fissazione dell’udienza e la notifica al convenuto. – 5. La costituzione del convenuto. – 6. La prima udienza. – 7. Segue: le verifiche preliminari. – 8. Segue: l’ordinanza di incompetenza. – 9. Segue: l’ordinanza di “inammissibilità” della domanda per mancanza del presupposto di monocraticità del tribunale. – 10. Segue: l’ordinanza non impugnabile di inammissibilità della domanda riconvenzionale. – 11. Segue: la valutazione di compatibilità con l’istruzione semplificata e la fissazione dell’udienza ex art. 183 c.p.c. – 12. Gli atti di istruzione. – 13. La decisione con ordinanza idonea al giudicato. – 14. L’appello.

1. Natura e collocazione sistematica.
Se il codice del ’40 (dopo l’esperienza, non positiva, del procedimento sommario fino a quell’epoca vigente) aveva ancorato il processo di cognizione di rito ordinario ad un modello unico, insensibile alla natura più o meno semplice o più o meno complessa della controversia, e le riforme successive hanno ribadito la scelta di applicare le stesse regole procedimentali a prescindere dal livello di complessità della causa, preferendo incrementare il numero e la varietà dei riti speciali in base alle tipologie di controversie [1], il nuovo rito sommario, introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, consente al giudice (e, prima ancora, alla parte che agisce in giudizio) di selezionare il contenzioso e di adottare diverse regole del procedimento in relazione alla maggiore o minore complessità della controversia e, sotto questo aspetto, costituisce la novità forse più rilevante introdotta dalla riforma del 2009.
Se la possibilità di selezionare il contenzioso, sottoponendo talune controversie a regole procedimentali più snelle e deformalizzate, in grado di assicurare sulla carta tempi sicuramente più brevi per la decisione, costituisce una scelta da valutare con favore, non mancano alcune criticità che possono condizionare l’applicazione del nuovo modello processuale e determinarne il fallimento.
La prima, che sarà subito affrontata, riguarda l’individuazione della esatta natura e collocazione sistematica del procedimento, a fronte della (poco felice) scelta di denominare il rito come “sommario”. Le altre due, che saranno richiamate più avanti, riguardano, da un lato, i possibili abusi derivanti dall’utilizzo “improprio” del rito da parte del ricorrente, in funzione della possibile lesione delle garanzie difensive del convenuto; e, dall’altro, la necessità di accompagnare l’introduzione del nuovo rito con interventi sull’organizzazione anche tabellare (e sul calendario giudiziale), idonei ad assicurare a questi processi, se non una vera e propria “corsia preferenziale”, una trattazione separata dagli altri che consenta di non vanificare le scelte, anche innovative, a favore della celerità della decisione.
Questione centrale è quella della natura e collocazione sistematica del nuovo rito, in relazione alla quale occorre chiedersi quale sia il reale significato da attribuire all’aggettivo “sommario”, se, cioè, la nuova forma di tutela debba essere sistematicamente collocata nell’ambito delle tutele sommarie (non cautelari), accanto al procedimento per decreto ingiuntivo e a quello che viene considerato il precedente più prossimo, vale a dire il procedimento sommario societario di cui all’abrogato art. 19 del d.lgs. n. 5 del 2003, che era effettivamente inquadrato nell’ambito delle tutele sommarie non cautelari, attraverso l’allargamento della relativa area di accesso e la possibilità di far valere pretese di somme di danaro non assistite dal requisito della liquidità [2].
Accanto alla rubrica del nuovo art. 702-bis c.p.c. (e al collegamento con l’art. 46 del d.l. Mastella che parlava di “procedimento sommario non cautelare”), anche l’inserimento nel libro quarto del c.p.c. sembrerebbe offrire argomenti in questo senso, anche se è ben nota l’eterogeneità di questa parte del codice di rito, che comprende processi di vario tipo e con diversi livelli di cognizione.
Ma, a ben vedere, ostano alla collocazione all’interno del sistema delle tutele sommarie non cautelari una serie di ragioni, a parer nostro, decisive.
In primo luogo, il nuovo procedimento va considerato alla luce del più generale disegno che ha ispirato il legislatore del 2009, il quale, nell’introdurre, nella stessa legge n. 69, la delega sulla revisione dei riti speciali di cognizione, ha già compiuto precise (e definitive) scelte nella individuazione dei “modelli processuali previsti dal Codice di procedura civile” ai quali fare riferimento ai fini della riconduzione dei “procedimenti civili di natura contenziosa“. Il procedimento in esame è stato assunto come uno dei tre modelli processuali ai quali il legislatore delegato dovrà fare riferimento per ricondurre “i procedimenti civili di natura contenziosa autonomamente regolati dalla legislazione speciale” e, in particolare, quei “procedimenti, anche in camera di consiglio, in cui sono prevalenti caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa“. Inoltre, per questo procedimento, è stata espressamente esclusa “la possibilità di conversione nel rito ordinario“.

[*] Il presente scritto sarà inserito negli Studi in onore di Modestino Acone.

E’, dunque, lo stesso legislatore del 2009 a dare una (prima) collocazione nell’ambito dei procedimenti civili di natura contenziosa nei quali prevalgono caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione: tali non sono i procedimenti sommari (non cautelari), sia perché non compresi nella delega, sia perché l’esclusione di qualsiasi “conversione nel rito ordinario” impedisce di accomunare questo rito ai procedimenti di tutela sommaria, i quali, pur essendo autonomi rispetto alla tutela cognitiva ordinaria, possono fisiologicamente sfociare (come il più delle volte accade) in quest’ultima. In questo senso, l’esclusione di qualsiasi conversione nel processo ordinario sta a significare che l’autonomia del procedimento “sommario” è da intendere nel senso che gli atti e i relativi provvedimenti esauriscono il primo grado di giudizio e, al pari delle sentenze, sono sottoposti al controllo solo da parte del giudice d’appello (sia pure con alcune particolarità rispetto all’appello di diritto comune, che saranno in seguito segnalate).
In sostanza, i principi di delega, nella parte in cui richiamano i caratteri (prevalenti) di “semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa“, nonché l’esclusione di ogni possibilità di conversione di questi procedimenti nel rito ordinario, rendono evidente la volontà di introdurre un nuovo modello semplificato di procedimento, da utilizzare in alternativa al rito ordinario, per la trattazione di controversie su diritti soggettivi che presentino caratteristiche oggettive compatibili con un rito, appunto semplificato, da decidersi con provvedimento idoneo al giudicato sostanziale. La delega sulla revisione dei riti si colloca nel perimetro dei processi di cognizione idonei al giudicato sostanziale: aver richiamato, come uno dei tre modelli di riferimento, il procedimento “sommario” sta a significare che quest’ultimo si colloca al di fuori delle tutele sommarie.
L’indagine sul profilo funzionale sembra confermare l’estraneità alla tutela sommaria non cautelare, cioè alla finalità della formazione anticipata di un titolo esecutivo anche provvisorio (caratteristica che identifica, com’è noto, tutte le tutele sommarie non cautelari [3]). Posto che il rito “sommario” si pone come “alternativo” al rito ordinario e non può mai “convertirsi” in esso, funzione del procedimento sembra essere quella di consentire l’accelerazione dell’esercizio dei poteri cognitivi decisori, con la formazione di un accertamento idoneo al giudicato sostanziale, previa selezione, da parte del giudice, della singola controversia ritenuta, caso per caso, compatibile con la decisione semplificata. In questo senso, la formazione anticipata del titolo esecutivo (che ha lo stesso livello di provvisorietà della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva ex lege) appare una conseguenza della scelta selettiva e della equiparazione della decisione semplificata alla sentenza di primo grado.
Vi sono ancora due riflessioni da svolgere.
A venire in evidenza è l’espressa previsione, contenuta nell’art. 702-quater c.p.c, che il provvedimento decisorio, reso nella forma di ordinanza, produce gli effetti di cui all’art. 2909 del codice civile in mancanza di impugnazione con l’appello. Il legislatore ha qui voluto espressamente equiparare l’accertamento contenuto nella ordinanza resa all’esito del procedimento “semplificato” all’accertamento contenuto in una sentenza ai fini della produzione degli effetti di cui all’art. 2909 c.c. E’ ben vero che anche il decreto ingiuntivo non opposto (al pari degli altri provvedimenti sommari non cautelari) è in grado di produrre effetti di definitività che la giurisprudenza assimila al giudicato sostanziale, ma, come riconosciuto dalla stessa giurisprudenza, il regime di “giudicato” del decreto ingiuntivo non opposto si differenzia nettamente dal giudicato di cui all’art. 2909, anzitutto perché il primo non conosce il giudicato di rigetto, restando escluso con riguardo alle domande, o ai capi di domanda, non accolti [4]. Ed anche con riferimento agli effetti riflessi del giudicato (nei confronti delle stesse parti e nei confronti dei terzi), si deve escludere l’effettiva totale equiparazione tra i due regimi.
Il fatto che il legislatore del 2009 abbia voluto espressamente equiparare l’accertamento che si forma attorno all’ordinanza resa all’esito del procedimento “sommario” sta a significare che quest’ultimo non può essere collocato nell’ambito delle tutele sommarie non cautelari e che il richiamo all’art. 2909 c.c. va interpretato come ulteriore elemento di estraneità del procedimento alla tutela sommaria, del quale l’interprete non può non tenere conto.
Vi è ancora da considerare che la fase introduttiva del nuovo procedimento è sottoposta a regole analoghe a quelle del rito a cognizione piena, nel senso che le parti sono chiamate a formulare le proprie domande con modalità e contenuti identici a quelli di ogni domanda giudiziale. Tanto è vero che, come si vedrà in seguito, le domande introdotte con il rito “sommario” sono idonee a consentire al giudice la possibile prosecuzione nelle forme del rito ordinario, con la fissazione dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. Se le parti, dando impulso al procedimento sommario, sono chiamate a formulare domande e a svolgere difese che rendono possibile la prosecuzione nelle forme del rito ordinario, la trattazione e la decisione pur nelle forme semplificate presuppongono l’esercizio di poteri cognitivi pieni in funzione di un accertamento comunque idoneo al giudicato sostanziale.
In conclusione, il procedimento sommario (rectius, semplificato) è un processo di cognizione speciale, alternativo al processo a cognizione piena ed idoneo ad impartire identica tutela rispetto a quest’ultimo [5]. Per queste ragioni riteniamo che l’espressione “procedimento sommario” debba essere interpretato alla stregua di “procedimento semplificato”, appartenente all’area della cognizione piena, che si caratterizza per l’oggetto delle controversie che ivi sono trattate e decise, laddove il carattere semplificato del procedimento corrisponde al carattere semplificato della controversia che ne è oggetto.

2. L’ambito di applicazione.
Nel disporre che nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica la domanda può essere proposta con ricorso al tribunale competente, l’art. 702-bis, comma 1°, c.p.c., individua nelle controversie riservate alla decisione del tribunale in composizione monocratica l’ambito oggettivo di applicazione del nuovo rito, mentre il comma secondo dell’art. 702-ter c.p.c. sanziona con l’inammissibilità la domanda che sia estranea a questo ambito. L’area di ammissibilità del procedimento semplificato coincide con le controversie nelle quali il tribunale giudica in composizione monocratica e da essa restano anzitutto escluse le eccezionali ipotesi nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale, elencate, con carattere di tassatività, dall’art. 50-bis c.p.c. [6].
Sembra possibile escludere dall’ambito oggettivo di applicazione del procedimento “semplificato” anche quelle controversie che sono sottoposte ad un rito diverso da quello ordinario, a cominciare da quelle sottoposte al rito speciale del lavoro, senza escludere le controversie su diritti soggettivi sottoposte al rito speciale camerale, da ritenersi alla stregua di un rito speciale a cognizione piena. La non compatibilità del rito “semplificato” rispetto ai riti speciali si ricava, per un verso, dai rilievi sopra svolti sulla natura e collocazione sistematica (a cominciare da quelli sui tre modelli di cognizione che non ammettono reciproche interferenze) e, dall’altro, dall’espresso richiamo all’art. 183 c.p.c. e, con esso, al solo processo di rito ordinario.
Tra le controversie escluse rientrano anche quelle davanti al giudice di pace, nonché i giudizi di appello davanti al tribunale monocratico.
Qualche dubbio potrebbe sussistere per i giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, anche se le caratteristiche di specialità del relativo procedimento sembrano escludere la compatibilità con il rito semplificato.
Come si vedrà in seguito, la violazione dell’art. 702-bis c.p.c. comporta l’obbligo del giudice monocratico, alla prima udienza, di dichiarare l’inammissibilità del ricorso con ordinanza non impugnabile, con conseguente possibilità di riproposizione della domanda nelle forme del rito ordinario.

3. Il ricorso introduttivo.
L’art. 702-bis c.p.c. individua nel ricorso la forma dell’atto introduttivo, che, dovendo contenere le indicazioni di cui ai numeri 1, 2, 3, 4, 5 e 6 e l’avvertimento di cui al n. 7 del terzo comma dell’art. 163 c.p.c., ha un contenuto identico a quello dell’atto di citazione, fatta eccezione per la vocatio in ius. A differenza del ricorso che introduce i processi di rito speciale lavoristico, è qui previsto anche l’inserimento dell’avvertimento, oggi da integrare con il richiamo anche alle preclusioni di cui all’art. 38 c.p.c. [7].
La scelta a favore del ricorso sembra dettata in funzione delle esigenze organizzative del giudice, ma penalizza il ricorrente in relazione al tempo di produzione degli effetti sostanziali della domanda (che non può non coincidere con il giorno di notificazione del ricorso), tanto da rendere poco opportuno l’utilizzo delle forme del rito semplificato, soprattutto in caso di trascrizione della domanda.
Sempre in relazione al contenuto, riteniamo sia onere del ricorrente di indicare nel ricorso le ragioni – che il giudice sarà chiamato a valutare nel corso della prima udienza – in grado di dimostrare la compatibilità della controversia con l’istruttoria e con le forme di decisione semplificata: pur in assenza di espressa previsione sul punto (che sarebbe stata assai opportuna), l’interpretazione sistematica della nuova normativa fa ritenere che l’attore ricorrente abbia qui l’onere, fin nel ricorso introduttivo, di indicare espressamente le ragioni per le quali la controversia debba ritenersi compatibile con l’istruttoria e con le forme decisorie semplificate.
Tra i profili di criticità richiamati all’inizio, abbiamo accennato al possibile abuso del processo semplificato attraverso l’introduzione di controversie non compatibili con il rito, che, pur potendo far pronunciare l’ordinanza di fissazione dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., comprime fortemente e irrimediabilmente le garanzie difensive del convenuto. Infatti, è solo sul presupposto della utilizzabilità del procedimento per la decisione di controversie “semplici” che l’art. 702-bis c.p.c. prevede un termine minimo di comparizione (30 giorni) ben più ristretto rispetto a quello del processo di rito ordinario. Anche se si tratta dello stesso termine minimo previsto per il rito del lavoro, non va dimenticato che, se l’oggetto della controversia lavoristica, che fa sempre capo al rapporto di lavoro, può giustificare quel termine, lo stesso non può dirsi per controversie di complessità tale da rendere senz’altro insufficiente il termine di 30 giorni [8].
Questa forma di possibile abuso del processo può essere contrastata (oltre che con l’assegnazione di un termine più ampio per la costituzione del convenuto: v. infra), per un verso, facendo carico al ricorrente di specificare nel ricorso le ragioni di compatibilità e, per altro verso, applicando l’ormai generalizzato istituto della rimessione in termini di cui all’art. 153, comma secondo, c.p.c., essendo imputabili alla parte ricorrente le decadenze maturate a carico del convenuto in un lasso temporale non compatibile con l’esercizio delle garanzie difensive.
Per quanto riguarda le preclusioni a carico dell’attore, non vi è alcuna previsione normativa, al pari del rito ordinario (ma a differenza di quelli speciali modellati sul rito del lavoro) [9].

4. Il decreto di fissazione dell’udienza e la notifica al convenuto
Il giudice designato fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti, assegnando il termine per la costituzione del convenuto.
Il decreto ha un duplice contenuto. Oltre che contenere la fissazione dell’udienza, il decreto deve assegnare il termine per la costituzione del convenuto, anche se la stessa norma prevede che essa debba avvenire non oltre dieci giorni prima dell’udienza, mentre il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato al convenuto “almeno trenta giorni prima della data fissata per la sua costituzione”.
Al di là di qualche imprecisione testuale, ci sembra che la norma voglia rimettere al giudice il potere-dovere di individuare, caso per caso, il termine per la costituzione del convenuto. Questa interpretazione potrebbe apprestare rimedio all’abuso del rito semplificato da parte del ricorrente, nel senso che il giudice, in presenza di controversia palesemente non compatibile con la trattazione “sommaria”, potrebbe assegnare un termine più congruo per la costituzione del convenuto, imponendo al ricorrente di notificare il ricorso, ad esempio, sessanta giorni prima della data fissata per la sua costituzione [10].
In caso di notificazione che non sia rispettosa del termine di trenta giorni, il giudice, rilevata officiosamente la nullità, dovrà disporre la rinnovazione in caso di mancata costituzione del convenuto. Analogo ordine di rinnovazione dovrà essere impartito se il convenuto ha eccepito il vizio nella comparsa di costituzione.
In caso di omessa (o giuridicamente inesistente) notificazione, il giudice non potrà concedere un nuovo termine e dovrà dichiarare l’improcedibilità del ricorso [11].

5. La costituzione del convenuto.
Nel termine assegnato dal giudice nel decreto di fissazione dell’udienza o, in mancanza, dieci giorni prima dell’udienza, il convenuto deve costituirsi mediante deposito in cancelleria della comparsa di risposta nella quale deve proporre le sue difese, prendendo posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda, e indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che intende offrire in comunicazione, nonché formulare le proprie conclusioni.
Va ricordato che il nuovo testo dell’art. 115 c.p.c., modificato dalla legge n. 69, ha recepito e generalizzato il principio, da ritenersi applicabile anche al rito semplificato, che la mancata specifica contestazione dei fatti rende gli stessi “pacifici” e utilizzabili ai fini della decisione.
A pena di decadenza, il convenuto deve proporre eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio. Inoltre, sempre a pena di decadenza, se intende chiamare in causa un terzo “in garanzia”, il convenuto deve farne dichiarazione nella comparsa di costituzione e chiedere al giudice designato lo spostamento della udienza.
La limitazione in ordine alla chiamata di terzo in garanzia deve ritenersi una vera e propria inesattezza del testo normativo, in quanto non vi sono ragioni per escludere anche l’ipotesi di chiamata di terzo per comunanza di causa di cui all’art. 106 c.p.c.
La chiamata in causa del terzo è interamente sottoposta alle regole ordinarie, fatta eccezione per il termine minimo di comparizione che, a parer nostro, non può che essere identico a quello del convenuto, cioè (almeno) di trenta giorni [12].
Per quanto concerne il regime di incompetenza, cioè i criteri dinamici di competenza, l’ormai riconosciuto carattere generale della disciplina contenuta nell’art. 38 c.p.c., nel testo novellato dalla legge n. 69 del 2009, consente di ritenerla sicuramente applicabile anche al procedimento in esame. L’eccezione di incompetenza, con riferimento ad ogni criterio, deve, pertanto, essere formulata, a pena di decadenza, nella comparsa di costituzione del convenuto, da depositarsi dieci giorni prima dell’udienza.

6. La prima udienza.
Alla prima udienza – che sarà quella originariamente fissata nel decreto ovvero la nuova udienza fissata dal giudice a seguito della dichiarazione di chiamata del terzo nella comparsa di costituzione da parte del convenuto – è dedicata la prima parte dell’art. 702-ter c.p.c., che si limita ad individuare una serie di provvedimenti che il giudice designato è chiamato a pronunciare nel corso della stessa.
In termini generali, le attività da compiersi nella prima udienza, a parte le verifiche preliminari (v. infra), sono quelle in primo luogo dirette a stabilire se sussistono le condizioni per l’accesso e la trattazione del procedimento nelle forme del rito semplificato. Solo all’esito della verifica positiva, ha inizio la trattazione nelle forme semplificate.

7. Segue: le verifiche preliminari.
La norma nulla dispone circa le verifiche preliminari che il giudice designato è tenuto a compiere anche nel procedimento in esame (come in ogni processo), che appaiono regolate dalle norme comuni.
Vi sono, anzitutto, le verifiche preliminari relative alla regolarità della notificazione del ricorso (e del decreto di fissazione dell’udienza), in caso di mancata costituzione del convenuto, che possono concludersi con l’ordine di rinnovazione della notificazione del ricorso ai sensi dell’art. 291 c.p.c.
Abbiamo accennato all’ipotesi di omessa notificazione del decreto, alla quale è da equiparare quella di notificazione affetta da vizio di giuridica inesistenza, che comportano la dichiarazione di improcedibilità del ricorso non essendo possibile applicare in via analogica l’art. 291 c.p.c., il quale presuppone il potere-dovere da parte del giudice di disporre la rinnovazione della notificazione solo in caso di notificazione nulla o comunque invalida (non seguita dalla costituzione del convenuto e dalla conseguente sanatoria dei vizi).
Anche le altre verifiche preliminari previste dall’art. 182 c.p.c. (relative alla costituzione e rappresentanza delle parti, nonché ad eventuali vizi della procura), nel testo modificato dalla stessa legge n. 69, debbono essere qui svolte dal giudice designato, solo all’esito delle quali il giudice designato può pronunciare gli ulteriori provvedimenti previsti nei primi quattro commi dell’art. 702-ter c.p.c.

8. Segue: l’ordinanza di incompetenza
Se il giudice ritiene di non essere competente, deve pronunciare, con ordinanza, la relativa declinatoria.
Si è già ricordato che, a seguito della modifica dell’art. 38 c.p.c. introdotta dalla legge n. 69 del 2009, l’eccezione di incompetenza, in relazione a tutti i criteri (compresi quelli cc.dd. forti), deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, nella comparsa di costituzione tempestivamente depositata in cancelleria. Ciò significa che, alla prima udienza, il giudice è già in grado di valutare le difese sul punto svolte dal convenuto e le eventuali decadenze maturate, nonché la necessità di esercitare, sempre a pena di decadenza, i poteri di rilevazione officiosa dell’incompetenza entro il limite temporale della prima udienza.
Ratio della norma è quella di “imporre” al giudice l’immediato controllo sulla competenza e, in caso di ritenuta incompetenza, di pronunciare in limine la relativa declaratoria, fermo restando che gli esiti della verifica sulla competenza sono destinati a vincolare il successivo svolgimento del processo, anche nell’ipotesi che questo prosegua nelle forme del rito ordinario.
L’obbligo del giudice di pronunciare immediatamente l’ordinanza di incompetenza comporta che il “confine” tra rilievo e decisione sulla competenza potrebbe venir meno, laddove il giudice sia in grado, già nel corso della prima udienza, di pronunciare l’ordinanza. In caso contrario, il giudice è tenuto a rilevare tempestivamente la questione di incompetenza, limitandosi ad introdurre la stessa nel dibattito processuale, e, solo in questo caso, sarà possibile pronunciare l’ordinanza nella seconda udienza [13].
L’esercizio dei poteri di rilevazione officiosa entro la prima udienza è necessario anche quando il convenuto, pur essendo decaduto dalla relativa eccezione, svolga in udienza difese dirette a sollecitare e dare impulso ai poteri officiosi.
Avverso l’ordinanza di incompetenza, che deve contenere anche la pronuncia sulle spese, è esperibile il regolamento di competenza necessario [14].

9. Segue: l’ordinanza di “inammissibilità” della domanda per mancanza del presupposto di monocraticità del tribunale.
Si è accennato che la violazione dell’art. 702-bis c.p.c. comporta l’obbligo del giudice designato, alla prima udienza, di dichiarare l’inammissibilità del ricorso con ordinanza non impugnabile, con conseguente possibilità di riproposizione della domanda nelle forme del rito ordinario.
La norma, come si è esattamente osservato [15], è solo apparentemente chiara, perché pone un duplice problema relativo, da un lato, al regime di impugnabilità dell’ordinanza e, dall’altro, alle conseguenze dell’errore sulla mancata declaratoria di inammissibilità.
Ci sembra che la dichiarazione di inammissibilità non sia altro che un rifiuto di accesso al rito semplificato, per mancanza del relativo presupposto, e che sia sottratta a qualsiasi rimedio impugnatorio, che darebbe luogo ad una fase processuale che avrebbe ad oggetto solo una questione di rito e che non potrebbe concludersi con una pronuncia di merito, né consentire, in mancanza di espressa previsione normativa, la rimessione al primo giudice [16].

L’ordinanza non sembra nemmeno impugnabile con ricorso straordinario ex art. 111 Cost. per mancanza del requisito di decisorietà.
Dovendo l’ordinanza pronunciare anche sulle spese di lite, non sembra possa escludersi la ricorribilità per cassazione del solo capo ad esse relativo.
Il tribunale potrebbe non avvedersi che la controversia introdotta con il rito semplificato rientra nella riserva di collegialità ed omettere di dichiarare l’inammissibilità del ricorso, pronunciando sul merito della domanda. Occorre chiedersi, in questo caso, quale sia la natura del vizio deducibile in appello e, soprattutto, quale siano gli obblighi del giudice del gravame e la conseguente sorte del processo.
Si è sostenuto che la corte di appello dovrebbe chiudere in rito il processo, come avrebbe dovuto fare il giudice di primo grado, in quanto se il vizio è tale da non consentire una decisione di merito in primo grado, esso non consentirebbe una decisione di merito neppure in appello [17]. La tesi sembra presupporre l’impossibilità di applicare al procedimento in esame le regole in materia di inosservanza, nella fase decisoria, delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale. Se l’art. 50-quater c.p.c. presuppone la mera violazione della regola decisoria, avendo rilievo la composizione dell’organo soltanto al momento della decisione, nel procedimento semplificato di cognizione la natura della controversia, tale da essere trattata e decisa dal tribunale in composizione monocratica, costituisce vero e proprio presupposto di accesso al procedimento e, in questo senso, si dovrebbe ritenere che l’eventuale appello proposto avverso l’ordinanza che ha deciso sul merito una controversia sottoposta alla decisione in composizione collegiale debba comportare l’annullamento della sentenza e che, ove il vizio non sia riscontrato dal giudice dell’appello e lo sia invece da parte della Corte di Cassazione, debba comportare la cassazione senza rinvio.
Va ricordato che le Sezioni Unite, componendo un contrasto interno, hanno affermato il principio che l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale costituisce, alla stregua del rinvio operato dall’art. 50-quater c.p.c. al successivo art. 161 comma 1° c.p.c., autonoma causa di nullità della decisione e non la forma di nullità relativa derivante da atti processuali antecedenti alla sentenza, con la sua conseguente esclusiva convertibilità in motivo di impugnazione e senza che la stessa produca l’effetto della rimessione degli atti al primo giudice se il giudice dell’impugnazione sia anche giudice del merito, oltre a non comportare la nullità degli atti che hanno preceduto la sentenza nulla [18].
Ma questa conclusione, oltre a porsi in forte contrasto con il principio costituzionale di ragionevole durata del processo, attribuirebbe al vizio la capacità di porre nel nulla l’esercizio dei poteri decisori da parte non soltanto del giudice di primo grado, ma anche, eventualmente, di quello d’appello (ove questi decida nel merito), con effetti eccessivamente differenziati rispetto a quelli derivanti dall’applicazione dell’art. 50-quater. Riteniamo, pertanto, che, anche in questo caso, il giudice d’appello debba annullare il provvedimento e decidere sul merito, previa obbligatoria rinnovazione non solo della fase decisoria, ma anche degli eventuali atti di istruzione compiuti dal primo giudice. Anche questi atti sono, infatti, viziati, in quanto, presupponendo la composizione monocratica del tribunale, non avrebbero potuto essere assunti se la causa fosse stata instaurata, come avrebbe dovuto, nelle forme del rito ordinario.

10. Segue: l’ordinanza non impugnabile di inammissibilità della domanda riconvenzionale.
Considerazioni analoghe a quelle sopra svolte valgono per la dichiarazione di inammissibilità della domanda riconvenzionale, laddove questa introduca, a differenza di quella principale, una controversia sottoposta a riserva di collegialità.
L'”espulsione” dal rito semplificato della sola domanda riconvenzionale presuppone la sussistenza delle condizioni per disporre la separazione della causa riconvenzionale, che va esclusa in tutti i casi di connessione forte e comunque quando sussistono ragioni di opportunità che consigliano la celebrazione del simultaneus processus.

11. Segue: la valutazione di compatibilità con l’istruzione semplificata e la fissazione dell’udienza ex art. 183 c.p.c.
Se ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione “non sommaria”, rectius non semplificata, il giudice, sempre con ordinanza non impugnabile, fissa l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. e, in questo caso, trovano applicazione le disposizioni del libro secondo del c.p.c. Il giudice è qui chiamato a svolgere una valutazione di compatibilità delle “difese” delle parti con il rito semplificato, a valutare, cioè, se il procedimento instaurato possa essere trattato e deciso con le modalità di cui all’art. 702-ter c.p.c. ovvero se esso debba essere “trasformato” in procedimento ordinario.

Sul contenuto di questa valutazione occorre ora soffermarsi.
Non si tratta di novità assoluta, in quanto già l’art. 19 dell’ormai abrogato d.lgs. n. 5 del 2003, nel descrivere i limiti entro i quali il giudice monocratico poteva esercitare i suoi poteri di cognizione sommaria (o per accogliere, in tutto o in parte, la domanda ovvero per arrestare il procedimento sommario e trasformare il rito), richiedeva al giudice di verificare che l’oggetto della causa o le difese svolte dal convenuto fossero “compatibili” con la cognizione sommaria; mentre, per accogliere la domanda, il giudice doveva ritenere sussistenti i fatti costitutivi e manifestamente infondata la contestazione del convenuto. In particolare, la verifica sull'”oggetto della causa” richiedeva al giudice di valutare, alla stregua del contenuto della domanda e delle difese del convenuto, se l'”attuale” oggetto della lite si prestasse ad essere deciso nelle forme sommarie. A parte l’ipotesi di richiesta di tutela estranea ai presupposti della tutela sommaria, oggetto di valutazione poteva essere anche l’eventuale allargamento del thema decidendum conseguente, ad esempio, alla proposizione di eccezioni in senso stretto e l’opportunità che al giudizio partecipasse un terzo che il convenuto aveva dichiarato di voler chiamare in causa. Quanto alle difese del convenuto che richiedevano una cognizione non sommaria, la valutazione del giudice doveva qui soffermarsi, in primo luogo, sull’impostazione complessiva del sistema difensivo del convenuto, dalla quale desumere le reali questioni, di fatto e di diritto, controverse tra le parti, per poi tenere conto di singole eccezioni di rito e di merito, nonché delle richieste istruttorie già formulate o comunque prospettate quale thema probandum del giudizio a cognizione piena. In sintesi, l’art. 19 cit. delineava un “percorso cognitivo” in base al quale, in primo luogo, il giudice verificava il duplice presupposto per la prosecuzione della trattazione in via sommaria, costituito dall’oggetto della causa e dalla compatibilità delle difese del convenuto, fermo restando che, per “arrestare” il procedimento sommario, era sufficiente che riscontrasse l’inesistenza anche di uno solo di questi presupposti e che, pertanto, ad esempio, la valutazione di incompatibilità con la cognizione sommaria dell’oggetto della causa era già sufficiente a far pronunciare il provvedimento di assegnazione dei termini, rendendo inutile l’ulteriore verifica sulle difese del convenuto.
Si tratta ora di individuare il “percorso cognitivo” che l’art. 702-ter c.p.c. impone al giudice del rito semplificato, il quale è chiamato a valutare nell’ordine: a. l’oggetto “originario” del processo ed i fatti costitutivi della domanda (anche in relazione al valore della causa); b. le eventuali domande riconvenzionali e quelle nei confronti di terzi e le difese svolte in sede di costituzione dal convenuto e dai terzi; c. l’impostazione complessiva del sistema difensivo del convenuto (e dei terzi), da cui desumere le questioni, di fatto e di diritto, controverse tra le parti, tenendo anche conto di singole eccezioni di rito e di merito, nonché delle richieste istruttorie già formulate o comunque prospettate quale thema probandum.
All’esito di queste verifiche il giudice è chiamato ad effettuare una valutazione complessiva e di sintesi, prefigurando il percorso che si rende necessario per la decisione e la sua compatibilità con le forme semplificate.
Anche se il giudice non è chiamato ad effettuare una prognosi sulla fondatezza o infondatezza della domanda, ci sembra che nella valutazione complessiva e di sintesi che giustifica la prosecuzione nelle forme semplificate possa ritenersi compresa anche quella sulla eventuale manifesta fondatezza o manifesta infondatezza [19].
Le tipologie di controversie che, almeno di norma, sembrano essere maggiormente compatibili con l’istruttoria semplificata, a parte quelle contumaciali, potrebbero essere, ad esempio, le cause risarcitorie, condominiali, di pagamento o rimborso di somme di danaro.

12. Gli atti di istruzione.
Il comma quinto dell’art. 702-ter c.p.c. attribuisce al giudice il potere-dovere, sentite le parti ed omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, di procedere “nel modo che ritiene più opportuno” agli atti di istruzione “rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto”.
Fermo il limite del rispetto del principio del contraddittorio, è consentita l’acquisizione di quelle prove, già ritenute compatibili con il rito semplificato, senza il rispetto delle regole di assunzione contenute nel libro secondo del codice, con le modalità di volta in volta indicate dal giudice.
In questo senso, alla formula “atti di istruzione” va attribuito un significato diverso da quello della pur identica espressione contenuta nell’art. 669-sexies, comma primo, c.p.c.: non si tratta di disporre un’istruttoria limitata alle finalità del procedimento, ma di raccogliere quelle prove pur sempre necessarie a decidere su domande ritenute “compatibili” con la decisione semplificata.
Si sostiene che l’istruzione nel rito sommario sarebbe completamente rimessa al potere discrezionale del giudice, secondo il medesimo schema del procedimento sommario cautelare [20]. Ma, la natura del procedimento e la conseguente applicazione dei principi generali in materia di istruzione probatoria escludono ogni ampliamento dei poteri istruttori d’ufficio e fanno ritenere che gli atti di istruzione siano quelli formulati dalle parti nei rispettivi atti di costituzione, nonché quelli dalle stesse richiesti nel corso della prima udienza e comunque prima che il giudice designato provveda sulle istanze istruttorie.

13. La decisione con ordinanza idonea al giudicato.
Il provvedimento di accoglimento o di rigetto della domanda ha la forma dell’ordinanza, espressamente dichiarata provvisoriamente esecutiva, nonché titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione.
Anche se manca qualsiasi disciplina della fase decisoria, non sembra possano trovare applicazione i modelli decisori del rito ordinario, ma il giudice potrà disporre la discussione all’udienza ovvero un termine per il deposito di memorie, riservandosi la decisione [21].
Si è detto all’inizio che l’ordinanza emessa all’esito del rito semplificato, in mancanza di appello, produce gli effetti di cui all’art. 2909 c.c. e, anche in questo senso, appare totale l’equiparazione con la sentenza.

14. L’appello.
L’appello può essere proposto entro trenta giorni “dalla sua comunicazione o notificazione”. L’effetto acceleratorio è qui particolarmente intenso in quanto non è previsto il termine lungo (oggi di sei mesi) per appellare, ma solo quello breve di trenta giorni che decorre dalla comunicazione ovvero, in difetto, dalla notificazione. Valgono qui le ragioni che giustificano l’analoga decorrenza del termine per proporre il regolamento di competenza ad istanza di parte.
Solo in caso di mancata comunicazione e notificazione potrà trovare applicazione il termine lungo.
Trovando applicazione, salvo quanto espressamente disposto, le norme ordinarie, la forma dell’atto di appello è quella della citazione [22].
Si tratta di un appello “aperto” ai nova in materia di prove, potendo le parti formulare nuovi mezzi di prova e depositare nuovi documenti, che il collegio potrà ammettere se “rilevanti” ai fini della decisione ovvero se la parte dimostra di non aver potuto proporli nel corso del procedimento sommario per causa ad essa non imputabile.
Il presidente del collegio può delegare l’assunzione dei mezzi istruttori ad uno dei componenti del collegio.
Per tutto quanto non espressamente previsto dall’art. 702-quater c.p.c., trovano applicazione le regole ordinarie, comprese quelle in materia di inibitoria.

Materiali collegati:

Note

1.  Questa scelta ha, tra l’altro, determinato l’erronea convinzione che le cause siano tutte “eguali” e che, in quanto tali, debbano essere decise applicando criteri rigorosamente cronologici, con conseguente impossibilità, o quanto meno forte difficoltà, di selezionare il contenzioso, essendo tutte le cause trattate allo stesso modo a prescindere dalla maggiore o minore complessità della controversia, con tempi di svolgimento inesorabilmente appiattiti verso l’alto.

2.  v. arieta, de santis, Diritto processuale societario, Padova 2004, 354-355.

3.  V. arieta, Trattato di diritto processuale civile, III.1., Le tutele sommarie. Il rito cautelare uniforme. I procedimenti possessori, Padova, 2005, 8 e ss.

4.  Cass. sez. un. 1 marzo 2006, n. 4510, ha formulato il principio che il decreto ingiuntivo non opposto acquista autorità ed efficacia di cosa giudicata solo in relazione al diritto oggetto del provvedimento e non con riguardo a domande, o a capi di domanda, non accolti; la regola contenuta nell’art. 640, ultimo comma, c.p.c., infatti, trova applicazione sia in caso di rigetto totale che di rigetto parziale del ricorso. Il decreto monitorio, una volta divenuto definitivo per la mancata opposizione dell’intimato, ha, secondo le Sezioni Unite, un’efficacia assimilabile a quella della sentenza, per la parte con cui ha accolto la domanda: non l’ha per la parte con cui l’ha respinta, perché la reiezione non è una pronunzia di accertamento negativo a favore del convenuto, non presente nel procedimento.

5.  Nello stesso senso Luiso, Il procedimento sommario di cognizione, in www.Judicium, 2; s. menchini, L’ultima “idea” del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, in www.Judicium, 1. g.f. ricci, La riforma del processo civile. Legge 18 giugno 2009, n. 69, Torino, 2009, 104, parla di “ibrido” fra il processo del lavoro e quello cautelare.

6.  Il principio di tassatività è pacifico anche in giurisprudenza: v., ad esempio, Cass. 13 ottobre 2005, n. 19892. Così, ad esempio, il procedimento per la liquidazione di onorari di avvocato, ai sensi degli artt. 28, 29 e 30 della legge 794 del 1942, si svolge in camera di consiglio e deve, pertanto, essere trattato dal tribunale in composizione collegiale, in quanto l’art. 50-bis, comma 2, c.p.c. prevede, per i procedimenti in camera di consiglio, disciplinati dagli artt. 737 e ss. c.p.c., una riserva di collegialità, dalla quale restano esclusi soltanto quelli, tra i procedimenti camerali, per i quali sia altrimenti disposto e, tra questi, i procedimenti in camera di consiglio già di competenza del pretore e ora attribuiti al tribunale (v. Cass. 26 luglio 2005, n. 15587). Nel senso che nei giudizi relativi all’azione revocatoria fallimentare il tribunale giudica in composizione monocratica, e non collegiale, non essendo i relativi giudizi menzionati tra quelli che l’art. 50-bis riserva al tribunale in composizione collegiale si veda Cass. 18 maggio 2007, n. 11647.

7.  Il ricorso deve contenere la procura ad litem, non essendo applicabile il secondo comma dell’art. 125 c.p.c. (il quale consente, al di fuori delle ipotesi nelle quali la legge richiede che la citazione sia sottoscritta da difensore munito di procura speciale, che la procura al difensore dell’attore possa essere rilasciata anche in data posteriore alla notificazione dell’atto di citazione, purché anteriormente alla costituzione della parte rappresentata) ai giudizi che s’instaurano con ricorso, nei quali la costituzione della parte rappresentata coincide con il deposito del ricorso: in questo senso Cass. 10 maggio 1995, n. 5119, che fa conseguire, dalla mancanza della procura al momento del deposito del ricorso, l’inesistenza dell’atto introduttivo, in quanto privo di presupposto indispensabile per la valida instaurazione del rapporto processuale.

8.  Anche secondo menchini, op. cit., 4, il termine a difesa di trenta giorni, se è ragionevole nell’ottica di un rito sommario-semplificato, pone problemi di disparità di trattamento, qualora il giudice disponga il passaggio alla trattazione ordinaria.

9.  Nel senso che l’attore può integrare e completare il proprio apparato difensivo all’udienza del rito sommario v. menchini, op. cit., 3.

10.  g.f. ricci, op. cit., 104, parla di locuzione “impropria” in quanto il termine sarebbe quello di dieci giorni previsto per legge ed il giudice non potrebbe fare altro che “richiamarlo puramente e semplicemente”.

11.  Cass. sez. un. 30 luglio 2008, n. 20604, ha formulato un importante principio nel senso della inapplicabilità nel rito del lavoro, a fronte di una notifica inesistente (giuridicamente o di fatto), del sistema sanante apprestato dall’art. 291 c.p.c., e del superamento del consolidato principio in base al quale il perfezionamento dell’atto di impugnazione ai sensi dell’art. 435 c.p.c. si verifica con il solo deposito del ricorso. Secondo la Corte, la fase iniziale del processo del lavoro, incentrata sul deposito del ricorso, è suscettibile di “effetti prodromici e preliminari, suscettibili però di stabilizzarsi solo in presenza di una valida vocatio in ius, cui non può pervenirsi attraverso l’applicazione degli artt. 291 e 415 c.p.c., giacché non è pensabile la rinnovazione di un atto mai compiuto o giuridicamente inesistente, non esistendo una disposizione che consenta al giudice di fissare un termine per la notificazione, mai effettuata, del ricorso e del decreto presidenziale, e non essendo consentito, nel silenzio normativo, allungare – con condotte omissive prive di valida giustificazione e talvolta in modo sensibile – i tempi del processo sì da disattendere il principio della sua ragionevole durata”. Corollario di quanto precede, sempre secondo la Corte, è che il ricorso dell’appellante, anche se valido, “perde la sua efficacia di fronte alla invalidità degli atti successivi che non sia possibile risanare sicché l’appello stesso va dichiarato improcedibile”.

12.  Nel senso che il ricorrente deve notificare l’atto di chiamata nel termine fissato dal giudice, anche senza il rispetto di quelli di cui all’art. 163-bis c.p.c. v. g.f. ricci, La riforma cit., 106. Dal momento che il terzo deve comparire all’udienza già fissata dal giudice, la forma dell’atto di chiamata (che deve contenere la domanda formulata nei confronti del terzo, con le relative conclusioni) è quella della citazione, anche se non sembra possa ritenersi viziato l’atto comunque contenente la domanda nei confronti del terzo, al quale sia allegato il decreto di fissazione dell’udienza.

13.  Ci sembra che il rilievo officioso sia sempre necessario quando il giudice sia comunque tenuto a disporre la fissazione di una nuova udienza, ad esempio per la necessità di rinnovare la notificazione dell’atto introduttivo.

14.  Nello stesso senso g.f. ricci, La riforma del processo civile. Legge 18 giugno 2009, n. 69, Torino, 2009, 107.

15.  V. Luiso, op. cit., 3-4.

16.  Nel senso che l’ordinanza di inammissibilità è insuscettibile di controllo, analogamente a quanto accade per il decreto di cui all’art. 640 c.p.c. v. luiso, op. cit., 3.

17.  V. luiso, op. cit., 4.

18.  V. sentenza 25 novembre 2008, n. 28040.

19.  V. menchini, op. cit., 6, secondo cui, se dagli atti di causa emerge la manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso, vi sono certamente le condizioni per seguire il rito sommario non perché tale elemento costituisca uno dei presupposti di ammissibilità di questo, ma perché la causa può essere decisa in forma breve, senza lo svolgimento di attività articolate e dai tempi lunghi.

20.  V. G.Olivieri, Il procedimento sommario di cognizione (primissime brevi note), in www.Judicium, 5.

21.  g.f. ricci, op. cit., 114, richiama le forme della decisione nei riti deformalizzati, come quello in camera di consiglio.

22.  Nello stesso senso g.f. ricci, op. cit., 114.