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1929 e 2009: due crisi commensurabili?

di - 16 Luglio 2009
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Versione aggiornata – con la previsione FMI del luglio 2009 – del testo originariamente apparso su Aperta Contrada il 6 febbraio 2009, poi ristampato in un primo aggiornamento il 4 giugno 2009

I

Disponiamo ormai di dati su attività economica, distribuzione del reddito, prezzi, finanza estesi al mondo nell’intero arco degli ultimi due secoli in cui si è affermata l’economia di mercato. Questo patrimonio empirico permette di tracciare uno schizzo storico della instabilità economica orientato al confronto fra il 1929 e il 2009.
E’ utile muovere dalla distinzione della instabilità rispettivamente concernente i prezzi, la produzione, la finanza.
a)        Prezzi. Più dell’inflazione ai nostri fini rileva la deflazione. Si è soliti distinguere una deflazione “buona”, da espansione dell’offerta, e una deflazione “cattiva”, da flessione della domanda globale. La deflazione del 1875-95 fu una Grande Deflazione buona, non una “Grande Depressione”. I prezzi al consumo diminuirono del 20 per cento nei paesi industriali. Ma il PIL mondiale crebbe del 2 per cento l’anno, rispetto al più magro 1 per cento del 1820-70. La deflazione cattiva seguì invece ai crolli di domanda del 1929-33. Fu ben più forte: in soli 4 anni i prezzi all’ingrosso mondiali diminuirono del 40 per cento, i prezzi al consumo dei paesi industriali del 25 per cento.
Ma dal punto di vista della sua interazione con le crisi finanziarie e reali anche la deflazione buona … è cattivissima! Lo è dal punto di vista macroeconomico, al di là degli effetti distributivi favorevoli ai redditi fissi che tende a provocare. Nella deflazione, pur essendo prossimi allo zero i tassi nominali d’interesse, il costo reale del debito sale. I debitori diventano illiquidi o insolventi e sono comunque costretti a svendere beni patrimoniali per evitare di rimborsare i creditori con moneta rivalutata. Le imprese tagliano gli investimenti.
Oggi la deflazione cattiva resta soltanto un rischio sebbene, con una previsione di inflazione 2009 (proposta dal Fondo monetario internazionale l’8 luglio) dello 0,1 per cento, le economie avanzate stiano pattinando su ghiaccio davvero sottile, anche se la previsione 2010 è 0,9 per cento. I banchieri centrali, quelli europei in primo luogo, sono chiamati a contrastare il rischio di deflazione con lo stesso impegno con cui hanno contrastato l’inflazione, giungendo a innalzare i tassi d’interesse ancora l’estate scorsa, allorché l’economia europea già sfiorava la recessione. Decisiva sarà la tenuta dei salari nominali di fronte alle spinte al ribasso che verranno esercitate dall’accresciuta disoccupazione.
b)       Produzione. Negli andamenti delle attività produttive occorre distinguere il corridoio fisiologico delle fluttuazioni solo cicliche, o accidentali, e le contrazioni profonde, durature, estese. Occorre inoltre distinguere l’Ottocento, ancora molto agricolo e già non poco terziario, dal Novecento industriale, oltre che terziario. Nell’Ottocento le recessioni furono più frequenti, anche acute, ma brevi. Su scala mondiale si ebbero tre punte annuali negative negli scarti dal trend del prodotto reale: nel 1835 (-8 per cento), nel 1853 (-8 per cento), nel 1870 (-4 per cento). Nel Novecento forti e prolungate contrazioni rispetto al trend coincisero con la fine del primo (-7 per cento) e del secondo conflitto mondiale (-11 per cento).
Il primato spetta naturalmente al 1929-33. Lo scarto del PIL mondiale dal suo trend arrivò a sfiorare il 12 per cento. Fra il 1929 e il 1932-33 il PIL cadde del 30 per cento negli USA, del 15 in America latina, del 9 in Europa, del 5 in Italia. Restò stabile nell’Unione Sovietica e in Asia. Nel mondo il livello del 1932 era del 17 per cento inferiore a quello del 1929. Precipitarono soprattutto gli investimenti e la produzione di beni capitali. Negli Stati Uniti – il caso estremo – l’offerta di beni strumentali diminuì del 55 per cento, vis à vis il 20 per cento di quella dei beni di consumo (ma 70 per cento gli autoveicoli). La produzione industriale cedette, ovviamente, più del PIL: del 40 per cento in Germania e negli USA, del 23 per cento in Europa Occidentale e in Italia. Il commercio internazionale scemò di un quarto in quantità, di quasi due terzi in valore. Movimenti di capitali e flussi migratori si azzerarono. Si stima – stime incerte – che su scala planetaria il numero dei disoccupati triplicò tra il 1929 e il 1933 e che il tasso di disoccupazione industriale mediamente eccedette il 20 per cento nell’intero arco degli anni Trenta.
La ripresa fu in effetti lenta, e accidentata. La produzione manifatturiera mondiale non tornò sui valori del 1929 prima del 1937. La ripresa fu altresì diversificata, in funzione dei diversi fattori che nei singoli paesi sostennero la domanda. In ciascuna economia il sostegno derivò principalmente dal riaprirsi dell’offerta di credito e dalle svalutazioni competitive, più che dal deficit spending. Keynes stava ancora traghettando dal pur sempre ortodosso Treatise on Money (1930) alla rivoluzionaria General Theory (1936). Negli Stati Uniti l’attivismo un po’ confuso di Roosevelt contò meno della necessità di riarmare alla vigilia della guerra.
Avvicinandoci all’oggi, dal 1950 al 2007 il PIL mondiale non è mai diminuito in singoli anni, sebbene scarti negativi dal trend del 2-3 per cento si siano avuti nel 1958, 1975, 1980, 1991. Per il 2008 le stime del FMI indicano una crescita del PIL mondiale pur sempre del 3,1 per cento, ancorché in rallentamento rispetto al 5,1 per cento del 2007. Indicano altresì una espansione del commercio in volume del 2,9 per cento. Diverse economie avanzate, tuttavia, sono entrate già nel corso del 2008 in recessione tecnica, con il PIL in flessione da almeno due trimestri. Per il 2009 il FMI sconta una crescita negativa dell’economia mondiale (-1,4 per cento). Essa risulterebbe da una espansione dell’1,5 per cento nelle economie emergenti (con la Cina al 7,5) e da una netta flessione (-3,8) delle economie avanzate (con gli USA a -2,6). In questo senso quella in corso è una crisi dell’area dell’Ocse – segnatamente di Stati Uniti, Europa (-4,8 per cento), Giappone (-6,0 per cento) – più che dell’economia globale, sebbene anche il volume del commercio mondiale sia previsto in forte calo, del 12,2 per cento. Nel quarto trimestre del 2009, rispetto al quarto del 2008, le economie avanzate ancora sperimenterebbero una sia pur attenuata variazione negativa del PIL (-2,2 per cento). Nel 2010, tuttavia, il prodotto mondiale tornerebbe su un ritmo medio di sviluppo del 2,5 per cento, con un arresto della crescita negativa nel quarto trimestre del 2009 rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente.
Lo scenario tracciato dal FMI è non poco incerto, ma il senso della previsione è che una contrazione su scala mondiale estesa oltre l’anno (2009) sia, allo stato, improbabile. Queste proiezioni, va sottolineato, non considerano le ulteriori politiche espansive che potranno essere decise d’ora in avanti, nel 2009, con effetti immediati sulle aspettative. Va sottolineato inoltre che, a differenza del 1929, i movimenti dei capitali e i flussi migratori non si sono azzerati, non vi è traccia di svalutazioni competitive (anzi il dollaro si è rafforzato), i tassi reali di interesse restano su livelli normali.

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