Quale riforma per l’avvocatura?

Si è letto nei giorni scorsi (“Il Sole 24 Ore” del 21 aprile) di un progetto di riforma della professione legale, approvato dal Consiglio nazionale forense e da alcune componenti associative dell’avvocatura. Per quanto è dato comprendere, il progetto ruota intorno a due idee. La prima, affermata e smentita, è che gli avvocati in Italia sono troppi. È affermata con i numeri di una tabella: 213.000 [1] contro i 147.000 in Germania, i 140.000 in Gran Bretagna ed i 48.000 in Francia; è smentita, perché un redattore del testo dichiara – il passo è riportato tra virgolette – che “non c’è la volontà diretta o espressa di ridurre il numero degli iscritti“. “L’obiettivo – continua la dichiarazione – è avere, nell’interesse della comunità, una categoria aggiornata e con alto livello di formazione“. Di qui le proposte: se dopo cinque anni una persona non esercita, vuol dire che non ha studiato abbastanza e deve rifare l’esame; idem per gli ultracinquantenni: chi ha fatto altro fino a questa età non può inventarsi l’avvocatura come secondo lavoro. L’on.le Alberti Casellati, sottosegretario alla giustizia con delega alle professioni, è più esplicita: 213.000 è un numero esorbitante; stiamo studiando strumenti che modifichino l’accesso alla professione per ridurlo senza introdurre il numero chiuso; “bisogna fare in modo che l’avvocatura non sia più considerata un’attività residuale ma, come in passato, una professione nobile“. Sono parole sante e gravi, che impongono di riflettere.
Sembra in effetti a noi che, prima di legiferare su un tema di questo genere, ci si debbano porre alcune domande, e che solo dalle risposte trovate si possa procedere. La prima domanda è: rispetto a quale parametro gli avvocati italiani sono troppi? Se si pensa che in Italia le cause civili pendenti al 31 dicembre 2008 erano 3.508.330 [2] (per non parlare di quelle penali) le perplessità sui numeri dovrebbero chiaramente spostarsi dagli avvocati ai cittadini italiani ed alle loro abitudini, per investire quindi il problema delle loro leggi.
In un regime in cui tutte le attività devono essere aperte alla concorrenza – con ogni rispetto per i notai – il solo parametro rispetto al quale può essere riferita l’idea di un eccesso improprio di operatori è il reddito. Il campanello di allarme deve suonare quando tra i lavoratori autonomi – avvocati, medici, ragionieri, agronomi, etc. : ma il discorso vale per tutti, dai commercianti agli artigiani, ai mediatori – emerga il fenomeno di un reddito insufficiente per vivere. Dai dati della Cassa di previdenza degli avvocati emerge che il reddito medio dei suoi 136.818 iscritti nel 2006 [3] è stato di € 49.039; ma che ben 7.163 avvocati avevano un reddito pari a zero o addirittura inferiore; che per 18.034 esso era compreso tra 0 e 7.470 euro; altri 15.861 raggiungevano il tetto di 12.450 euro; per 50.889 (il 39,54% del totale) il reddito professionale si collocava tra i 12.450 ed i 41.000 euro; 20.008 stavano nella fascia tra 41.000 e 82.000 euro; redditi superiori erano dichiarati solo da 16.667 persone. In sintesi, nel 2006 ben 40.958 avvocati su ca. 137.000 – il 30% – dichiaravano un reddito professionale che o non consente la sopravvivenza o la consente a livelli bassi se non molto bassi.
Qui sta il problema. Se con redditi di tal genere non si può vivere, ma, ciò nonostante, un gran numero di persone li dichiara, questo ha un solo significato, con diverse spiegazioni possibili. Il significato è che comunque vi è interesse a tenere in vita una parvenza di attività professionale. È chiaramente necessario capire perché.
Le ipotesi con cui questo interesse può essere spiegato sembrano essere due, con possibili varianti. La prima è che dietro il bassissimo reddito professionale denunciato ve ne sia un altro, parimenti professionale, ma ben occultato. In questi casi ci si troverebbe di fronte ad un fenomeno di evasione fiscale eretta a sistema, nel senso che chi la pratica deve avere – ed ha – la certezza dell’impunità. Solo la Guardia di finanza, sollecitata dal Ministero dell’Economia, cui si devono gli studi di settore, può risolvere il mistero.
Una variante a questa ipotesi è che accanto al minimo reddito professionale ve ne sia o ve ne siano altri, di diversa natura: commerciale, ad es., o di lavoro dipendente, di fatto anche se non di diritto. Chiarire questo è molto difficile. Solo indagini sul campo, come si dice, possono fornire tracce per un’interpretazione attendibile; è probabile che i soli incroci tra dati di diversa natura, posseduti da banche dati diverse, non siano sufficienti per chiarire come realmente stiano le cose. Qui si può soltanto dire che l’esistenza di una pluralità di redditi è possibile e che, visto il divieto posto dalla legge sia di svolgere attività commerciali, sia di essere inquadrati nell’ambito di rapporto di lavoro dipendente, è molto probabile che le ipotesi di integrazione del reddito, di cui si va dicendo, pongano seri problemi di incompatibilità con il mantenimento dell’ iscrizione agli albi professionali. Le valutazioni e le decisioni per sciogliere questo nodo competono chiaramente alla Cassa ed agli Ordini.

La seconda ipotesi che si può fare per spiegare l’interesse a perseverare in una attività apparentemente non remunerativa è che essa vada collocata in una prospettiva di lungo termine, vale a dire nell’ottica della pensione. A prescindere dal reddito e dalle contribuzioni degli interessati, la Cassa di previdenza degli avvocati eroga infatti una pensione di circa € 10.500 a tutti gli iscritti, che abbiano esercitato con continuità la professione per un certo numero di anni, versando il contributo minimo previsto. In sé tale contributo non potrebbe certo finanziare la pensione; essa viene riconosciuta comunque, in base al principio solidaristico e quindi utilizzando anche i contributi degli avvocati con maggior reddito per aiutare tutti coloro che hanno raggiunto i limiti di età con contribuzioni insufficienti. È ragionevole pensare che questa seconda ipotesi, che giustifica l’interesse ad esercitare la professione di avvocato pur senza trarne un reddito sufficiente per vivere, si accompagni alla prima, specie nella variante che si era prospettata (avvocatura come secondo lavoro).
Di fronte ad un quadro di questo genere, parlare di interventi per migliorare la professionalità degli avvocati, al fine di “avere, nell’interesse della comunità, una categoria aggiornata e con alto livello di formazione” non sembra appropriato. Il mercato sa scegliere e gli avvocati veri sanno benissimo che per continuare a lavorare e combattere occorre tenersi sempre aggiornati e quindi studiare sempre; dal canto loro, gli Ordini stanno svolgendo una assai meritevole opera per facilitare questo processo di formazione continua, in attuazione dell’art. 13 del Codice deontologico forense (“È dovere dell’avvocato curare costantemente la propria preparazione professionale…”). Il punto cruciale è un altro: ed è che gli avvocati, i quali dichiarano di trarre dalla professione un reddito ai limiti della sopravvivenza, non hanno alcun interesse a formazione ed aggiornamento, per l’insuperabile ragione che il loro vero interesse è un altro: nascondere i redditi veri e/o portarsi a casa una pensione.
Il thema disputandum diviene così molto preciso. Per un verso è fuori di ogni dubbio che la Cassa di previdenza debba fare il suo dovere e quindi verificare l’effettivo esercizio della professione ed i veri redditi dei suoi iscritti quasi nullatenenti, di concerto con la Guardia di finanza. Questo è un suo compito istituzionale, al quale deve attendere con la stessa sollecitudine con cui persegue chi versa i contributi con un giorno di ritardo. Si può dare per certo che verifiche fiscali condotte su un numero sufficientemente significativo di iscritti che non denunciano veri redditi produrrebbero l’effetto virtuoso di cancellazioni in massa dagli albi e quindi dalla Cassa.
Per un altro verso, si deve capire bene che cosa significhi solidarietà tra liberi professionisti sul piano previdenziale. Nessuno discute del suo fondamentale rilievo in linea di principio (non si dimentichi che tutti i grandi studi legali, non solo americani, hanno un proprio fondo pensioni). Il problema è quello della sua struttura e quindi dei suoi limiti. Sembra a noi che un sistema previdenziale finanziato integralmente da tutti i beneficiari delle prestazioni future, e da essi soltanto, debba fondarsi su un rapporto di proporzionalità con quanto versato da ciascuno, corretto dalla quotazione dei rischi, impliciti al sistema stesso: che vanno dalla durata residua della vita alla morte precoce, dall’invalidità ai superstiti. Vi sono insomma redditi diversi e rischi uguali per tutti, che devono essere condivisi. La matematica attuariale sa benissimo come si risolvono questi problemi.
Ciò che si colloca all’infuori di ogni principio di solidarietà è l’idea che una pensione minima debba essere assicurata a tutti gli avvocati liberi professionisti, a prescindere dall’entità dei loro guadagni e quindi delle contribuzioni – ed ovviamente all’infuori di sinistri invalidanti specifici. Questo significa infatti porre la pensione di avvocati che non hanno contribuito alla Cassa (o lo hanno fatto in misura risibile) a carico degli avvocati che contribuiscono in misura proporzionale al loro reddito: in termini brutali, espropriarli senza causa. Nulla, che faccia scattare il vincolo della solidarietà, è infatti accaduto a chi non ha sostanzialmente mai contribuito alla Cassa. Nell’ordinamento generale non vi è traccia di ciò: la pensione è commisurata alla retribuzione e quindi alla contribuzione; nessuno ha diritto ad una sorta di vitalizio per il solo fatto di essere in vita oltre una certa età. Certo esistono assegni di povertà; sono tutt’altra cosa.
La realtà è dunque che il problema degli avvocati (e della loro Cassa di previdenza) non è quello del loro numero in assoluto, ma quello degli avvocati che tali non sono, sia perché evadono tutto l’evadibile, sia perché dichiarano di esercitare questa professione al solo fine di sfruttare la struttura previdenziale che la accompagna.
Quali rimedi? Al primo si è già accennato. Chiunque dichiara redditi bassi o bassissimi deve essere indagato. Deve dimostrare di avere difeso, di avere reso pareri, di avere insomma assistito, poco quanto si vuole, ma di averlo fatto e di aver fatto questa attività e nessun’altra. Spetterebbe poi alla Cassa dimostrare che se questo anche fosse vero, l’interessato o l’interessata comunque non esercita con continuità o ha altri rapporti, fonti di reddito e porre il problema del permanere dell’iscrizione all’albo.
Il secondo rimedio è più sofisticato. Bisogna rendere la Cassa concorrenziale. Questo si può fare certo con norme positive sul funzionamento della Cassa che, come tutti sanno, durano l’espace d’un matin, nel senso che possono venir abrogate sei mesi dopo, magari con decreto legge. Ma la si può rendere concorrenziale in un altro modo: consentendo agli avvocati che vi abbiano interesse di trasferire la loro posizione all’INPS o, eventualmente, all’INPDAP. La Cassa insomma sappia gestirsi, sappia misurarsi con il mercato, non butti il danaro altrui per opere di dubbia beneficenza, sulle quali comunque nessuna condivisione è stata chiesta. Si vedrà presto che cosa succede.
Semplice a dirsi. Ma vi è una difficoltà. La vera sollecitazione al cambiamento dovrebbe venire dalla Cassa di previdenza. Essa paga ogni mese le pensioni a migliaia di iscritti da cui ha avuto contribuiti risibili, andando incontro a crisi sicura, come le tavole statistiche che essa pubblica inequivocabilmente dimostrano. Poiché il consiglio di amministrazione della Cassa è eletto dagli avvocati, e tra essi circa il 30% denuncia un reddito lato sensu sospetto, è facile pensare che la sollecitazione al cambiamento non sia a portata di mano.

Note

1.  La Cassa di previdenza degli avvocati ha numeri un po’ diversi: nel 2006, 136.818 iscritti alla Cassa più 52.592 iscritti agli albi e non alla Cassa (dovrebbe trattarsi degli avvocati dipendenti degli enti pubblici), per un totale di 189.410.

2.  Dato ricavato dalla Relazione per Procuratore Generale presso la Cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

3.  Sono gli ultimi dati statistici pubblicati dalla Cassa di previdenza (La Previdenza Forense, n. 3 del 2008, p. 256 segg.)