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Intervento alla giornata di studio su Sergio Steve, promossa dalla Società italiana di economia pubblica, tenutasi a Roma presso l’Università di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Economia, il 27 febbraio 2009

di - 24 Aprile 2009
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9. Storia e teoria. L’economia è scienza ma non è la fisica della società

Ho già detto di aver ereditato da Steve il convincimento che l’economia sia fondamentalmente storia. Se è così, se l’economia è un programma di ricerca storica, qual è in esso il posto della teoria? La questione è stata tante volte autorevolmente dibattuta da economisti e storici economici. Per rimanere nei confini del tema di questo incontro – l’eredità di Steve – prendo spunto da Robert Solow, che scrive (Social Research, estate 2004) ‘… sorge spesso la domanda – è l’economia una Scienza, o dovrebbe essere tale? – Penso che la questione sia mal posta. […] Supponiamo che la mia risposta alla prima domanda sia ‘no’. Sono allora forse votato a credere che l’economia sia o debba essere non-scientifica? Qui qualcosa non torna. Parte del problema è la differenza tra la S maiuscola e la s minuscola […] Io non rivendicherei per l’economia il ruolo di fisica della società. Ma insisterei precisamente su un approccio scientifico all’economia, con il che intendo un’obbligazione intransigente alla logica e un assoluto rispetto per i fatti’. Credo che se in questa citazione si sostituisse il nome di Steve al posto di quello di Solow nessuno se ne accorgerebbe. Può darsi che nella prospettiva del riduzionismo e del progresso delle Scienze (con la S maiuscola) verrà un giorno in cui si potrà parlare di una fisica della società perché si potranno comprendere e spiegare i fatti economici e sociali nello stesso modo in cui la fisica comprende e spiega l’evoluzione dell’universo prima e dopo il big-bang, e la formazione dei buchi neri. Secondo alcuni ricercatori, ad esempio Colin Camerer del California Institute of Technology e Herbert Gintis del Santa Fe Institute (The Economist, 26 luglio 2008), il superamento dell’economia comportamentale (una branca della psicologia come scienza molle della mente) attraverso gli sviluppi delle neuroscienze e della neuroeconomia (una branca della biologia come Scienza dura) potrebbe consentire di fare un passo avanti verso quell’affascinante e inquietante traguardo, attraverso “l’integrazione di tutte le scienze comportamentali – l’economia, la psicologia, l’antropologia, la sociologia, la scienza politica, e la biologia del comportamento umano ed animale – in un modello comune, basato sulla macchina-cervello, di come gli esseri viventi prendono le decisioni”. Ma oggi siamo lontani da quel futuro, se mai verrà, e dobbiamo accontentarci di muoverci nello spirito di Solow e Steve. L’economia è un pezzo o aspetto della storia umana generale, e i fatti economici, presenti e passati, si possono e devono conoscere, comprendere e spiegare allo stesso modo in cui si conoscono, comprendono e spiegano i fatti storici in generale. Il programma di ricerca dell’economia politica offre un sistema sofisticato di concetti e modelli teorici che, insieme a quelli dei programmi di ricerca della psicologia, della sociologia, della scienza politica, dell’antropologia, della sociobiologia, possono aiutare a comprendere e spiegare i fatti economici come fatti storici. Se aiutano sono buoni, se non aiutano sono cattivi. Punto. Ma si tratta di concetti e modelli altamente stilizzati che hanno con i fatti da spiegare una relazione molto diversa da quella che la teoria ha con i fatti nei programmi di ricerca della fisica e delle altre Scienze dure della natura. Tale diversità, implicitamente riconosciuta nel famoso e citatissimo giudizio di Max Plank riferito da Keynes, non è in alcun modo sminuita dal fatto che taluni metodi e modelli provenienti da queste Scienze si siano rivelati utili a spiegare determinati fenomeni sociali, come i crolli borsistici. Come economista Steve non era né pro né contro la costruzione di modelli teorici. Per la mia esperienza di allievo e poi di collaboratore nell’insegnamento, egli possedeva e trasmetteva da pensatore i concetti e le teorie della sua generazione (ho imparato forse più da lui che da Joseph Stiglitz lo spessore e i limiti dell’economia del benessere), ma nel suo personale temperamento di intellettuale e studioso dominava l’interesse a ragionare sui fatti economici del suo tempo senza mai staccare, per così dire, i piedi da terra, mentre era praticamente assente l’interesse a pensare a quei fatti nei termini di una visione o modello teorico stilizzato. Fare ciò non interessava a lui personalmente, ma era pronto ad apprezzare chiunque lo facesse, purché all’altezza dei suoi standard di grande pensatore critico, il che per una persona normale era praticamente impossibile.

10. Gli interessi comuni, la scienza delle finanze, lo stato

Come studioso Steve concentrava interamente la sua attenzione e il suo lavoro interpretativo sui fatti economici così come offerti dalla storia presente e passata nella loro concreta e oggettiva complessità, e non sulla elaborazione di schemi interpretativi teorici stilizzati. Ciò non poteva che portarlo a dare la massima importanza al ruolo e alla natura degli interessi che di quei fatti costituiscono la vera sostanza. In particolare ricorre continuamente nel suo pensiero il potenziale e spesso effettivo contrasto tra gli interessi privati, individuali e di gruppo, e quelli diffusi dei cittadini, e la particolare disparità di forza tra i primi e i secondi nelle società e culture acquisitive. E’ proprio da questo suo approccio di studioso sociale che ritengo di aver ereditato una particolare comprensione di ciò che identifica dal punto vista sia scientifico che civile il programma di ricerca della scienza delle finanze. Pur consapevole dei rischi di travisamento insiti nel leggere il pensiero altrui con le proprie categorie mentali, ritengo che l’interesse di una vita di Steve per la scienza delle finanze fosse motivato e ispirato, in larga misura anche se non sempre espressamente, proprio da tale particolare comprensione. L’identità scientifica della scienza delle finanze è strettamente legata alla distinzione tra gli interessi individuali rivali, che in quanto contrapposti si prestano a essere soddisfatti, sia pure in modo incompleto e imperfetto, mediante transazioni commerciali di scambio, e gli interessi individuali comuni, condivisi dagli appartenenti a una comunità politica nella loro veste di cittadini. A me pare che esista una diffusa cultura economica che non apprezza fino in fondo questo punto fondamentale, e che continua a prospettare, ad esempio, la teoria dei beni pubblici come un caso, importante ma particolare, di fallimento del mercato. Il mercato per sua natura esiste o può esistere solo dove vi sono interessi contrapposti. Dove gli interessi non sono contrapposti bensì condivisi esso non fallisce, ma, semplicemente, non esiste e non può esistere. Gli interessi comuni condivisi dai cittadini non potranno mai essere soddisfatti mediante transazioni commerciali di scambio, ma solo attraverso la cooperazione, più o meno volontaria o coattiva. Da questa constatazione di fondo derivano alcune speciali conseguenze.

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