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Intervento alla giornata di studio su Sergio Steve, promossa dalla Società italiana di economia pubblica, tenutasi a Roma presso l’Università di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Economia, il 27 febbraio 2009

di - 24 Aprile 2009
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6. La cultura dell’indipendenza. Il conflitto con l’imitazione-ripetizione

La ragione critica è non solo e non tanto un concetto astratto, quanto un fatto reale del mondo: è la concreta capacità di pensare criticamente, di ciascuno di noi come individuo. Ho riflettuto spesso sull’enfasi quasi ossessiva di Steve sulla distinzione tra le cose già dette e quelle nuove, tra la ripetizione e il ripensamento personale, tra l’imitazione e l’originalità, sulla sua insofferenza verso la riproposizione sterile di ciò che è già noto, sulla sua censura di una modalità di insegnamento e formazione (culturale e professionale, specie a livello universitario, ma non solo), nella quale anziché promuovere la capacità delle persone di distinguere il lavoro intellettuale proprio da quello altrui, la si vanifica. Ma in fondo, si potrebbe dire, che male c’è a ripetere e a educare a ripetere, a memorizzare e educare a memorizzare? Nel lavoro scientifico pochi hanno le doti per aspirare veramente all’originalità, alla scoperta, all’innovazione. Gli altri dovranno accontentarsi di studiare e imparare ciò che già si sa, di ripeterlo, e di farne corrette, meccaniche applicazioni. Nella vita professionale e ordinaria servono risultati, nozioni, tecniche, competenze per risolvere i problemi. L’esercizio della ragione critica è un optional di cui la stragrande maggioranza delle persone può fare a meno senza perdere nulla. E invece non è vero. Esso è il fondamento morale dell’indipendenza e dignità dell’uomo. La responsabilità di distinguere tra la ripetizione passiva e la comprensione critica è una responsabilità morale, verso sé stessi e verso gli altri, che tocca in modo particolare il mestiere di ricercatore e di insegnante. Nella ricerca non si devono utilizzare tesi o risultati solo perché sono state sostenute o ottenuti da altri, per quanto autorevoli. Bisogna comprenderli criticamente in modo da farli diventare propri, e allora non saranno più ripetizioni, ma elementi vivi del proprio lavoro indipendente e responsabile. Il vero pensiero critico, quello del genio come quello dell’uomo comune, è sempre per definizione originale. Una mente passiva non è un difetto dell’intelligenza, da cui solo i più dotati sarebbero immuni, bensì una colpa morale di cui tutti in uguale misura possono essere portatori. Nell’insegnamento, educare alla ragione critica significa educare all’indipendenza e responsabilità, nel lavoro e nella vita. La consapevolezza di questa potente valenza morale della ragione critica nella ricerca e nell’insegnamento è anch’essa un’eredità che ritengo di aver ricevuto da Steve.

7. L’economia è storia ma la storia non è economia

Diverso tempo fa, parlando con Steve di non ricordo quale problema dell’economia politica, egli rispose lapidariamente a una mia domanda dicendo che in verità l’economia è storia, e nient’altro che storia. In un recente scambio di idee con il mio amico e collega Stefano Fenoaltea gli confessavo quanto invidiassi il suo essere economista da storico anziché da teorico, e per dar forza alla mia dichiarazione gli riferivo di quel giudizio di Steve. Fenoaltea mostrò ovviamente di condividerlo, ma anche di ritenerlo insufficiente, dicendo che andrebbe integrato o sostituito con il giudizio, più forte, che in realtà anche la storia stessa è economia. Senza pretendere di dare qui un’interpretazione autentica del giudizio di Fenoaltea, mi sento tuttavia di dire che in quei termini Steve non lo avrebbe condiviso. Ritengo di aver ereditato da lui il convincimento che mentre è vero che l’economia è storia, non è vero che la storia sia economia. Gli interessi, le motivazioni, gli impulsi, i pensieri, i sentimenti che muovono le azioni e la vita degli uomini sono un mare senza fondo. Pensare che gli interessi economici, quelli che ruotano intorno al soddisfacimento dei bisogni tramite la produzione, lo scambio e il consumo, siano i soli che muovono la vita degli individui e della società, o comunque i soli che vi hanno un ruolo determinante, costituisce una visione riduttiva del mondo sociale. La realtà del mondo sociale è più complessa della realtà dell’economia, che pure lo è già molto. Anzi, attribuire ai fatti e interessi economici un ruolo esclusivo o assolutamente predominante nel determinare la dinamica storica della vita individuale e sociale può indebolire la capacità di analizzare e spiegare in modo soddisfacente quegli stessi fatti.

8. Il conflitto con l’ideologia. La confusione tra economia e moralità

Nel corso di tanti anni Steve è diventato un nemico sempre più intollerante dell’approccio ideologico nello studio dei fatti sociali e nel disegno delle politiche pubbliche. Mi sono chiesto molte volte quale fosse nella sua mente il fondamento razionale di tale intolleranza. Può darsi che Steve non fosse interessato più di tanto a un chiarimento per sua natura di carattere filosofico. La sua mente lucidissima sapeva riconoscere a vista gli argomenti ideologici e i difetti tipici delle ideologie, senza bisogno di ricorrere alla filosofia. Per parte mia ritengo di poter individuare quel fondamento razionale nella capacità naturale di Steve di distinguere le questioni economico-sociali da quelle morali, fermo restando che distinguerle non significa negare che tra i due piani possano, o debbano, esistere relazioni. La moralità riguarda i valori o fini ultimi, ossia principi universali che danno alla vita un significato assoluto. L’economia riguarda gli interessi o bisogni strumentali, ossia i fatti, le cose e le condizioni contingenti del mondo considerate strumentalmente utili in relazione al perseguimento di fini ulteriori. Gli argomenti ideologici confondono i principi etici universali con i fatti sociali contingenti, attribuendo a determinati fatti e condizioni contingenti del mondo sociale un significato assoluto che essi come tali non possono avere. Smascherare gli argomenti ideologici significa semplicemente smascherare questa confusione grossolana, razionalmente insostenibile. Non significa affatto sostenere che il possesso di autentici valori morali non possa o non debba condizionare fortemente la vita privata e pubblica, economica e non economica, di un individuo. Tutt’altro. Non solo quel possesso (quando c’è) condiziona le preferenze e scelte economiche di ciascuno, ma ancor più, il possesso individuale diffuso di virtù morali e civili svolge sicuramente un ruolo importante, ancorché non sufficiente, nel buon funzionamento dell’economia e della politica.

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