I servizi idrici in Italia e i guasti della non-scelta

Il Welfare State è ciò che di buono ha prodotto il 1900 sull’idea ottocentesca che il benessere sociale dipenda anche dall’equità. Per alcuni decenni questo modello di stato[1] ha continuato ad affermarsi, almeno in Europa, ma poi, sul finire del secolo, si è fatto di tutto per screditarlo, accantonare i problemi di equità e restituire completa sovranità al mercato quale meccanismo capace di assicurare l’efficienza. Il generalizzato accento sul tasso di crescita del PIL ha infine portato ad individuare nell’eccesso di stato la causa della sua flessione e ne ha implicitamente imposto il ridimensionamento a favore del mercato. Sono gli anni nei quali la privatizzazione con regolamentazione gode del plauso teorico generale e molti paesi la mettono in pratica. Come di consueto, pur affermandosi anche nel nostro Paese la convinzione che sia bene privatizzare il privatizzabile e che lo stato svolga il ruolo di regolatore, il passaggio ai fatti appare molto più lungo e laborioso che negli altri paesi. In effetti è noto e consolidato che lo stato svolga alquanto male la funzione “allocativa” mentre quella “distributiva” gli sia del tutto congeniale. Dunque non si può che favorire la privatizzazione per restituire al mercato la funzione per la quale esso ha le qualità, cioè quella allocativa, e contemporaneamente attribuire allo stato il compito di vigilare affinché la fornitura dei servizi privatizzati, generalmente in monopolio, non avvenga ai danni dei consumatori. Si può infatti condividere l’idea che tutto “vada per il meglio” nella collettività se il mercato svolge la sua funzione allocativa (privatizzazione) e lo stato la sua funzione distributiva (regolazione del monopolio), ammesso che si riesca ad ottenere il meglio dei due meccanismi, mercato-stato, e non il peggio.
La fornitura dei servizi idrici, come quella di tutti i servizi pubblici locali, va vista in questo contesto ma richiede considerazioni specifiche. Innanzitutto l’acqua è un bene fondamentale senza sostituti (e ciò ha implicazioni economiche notevoli), è una risorsa in parte riproducibile e in parte non riproducibile, serve a molti usi (civili, industriali, agricoli…) spesso in conflitto data la disponibilità dell’offerta e veramente “lega” le generazioni presenti e future perchè non vi è vita né sviluppo economico se non vi è disponibilità d’acqua. Dunque l’acqua, ancor più di ogni altro bene che può essere sostituito, va privatizzata per motivi di efficienza ma occorre che lo stato (centrale o locale) possa davvero svolgere la funzione di vigilanza sul monopolio e sia nelle condizioni di attuare il grado di equità che la collettività desidera. Niente di più sbagliato, in termini di risultati economici (efficienza nell’uso e nella conservazione), che mischiare questi due aspetti e niente di più sbagliato quindi della posizione riassunta nello slogan: “l’acqua è un diritto” da cui discende che, come tale, la tariffa deve essere molto bassa. Per rendersi conto di quanto ciò sia errato basta sapere che quanto più è basso il prezzo di una risorsa naturale, tanto più vicina è la tragedia dei beni comuni[2] ovvero l’epilogo triste del suo esaurimento a cui conduce la logica del mercato. Nel caso dell’acqua, affermando che è un diritto, si fa credere che essa possa essere data a tutti, per tutti gli usi, nelle quantità richieste e ad un prezzo di accesso senza fondamento economico ovvero molto basso e tale da non assicurarne la conservazione. Ciò è fonte di gravi problemi la cui percezione non è purtroppo “immediata” ma diventano sempre più gravi e costosi col passare del tempo.
Per superare questa contraddizione bisogna fare chiarezza: l’acqua come risorsa è della collettività ma per renderla utilizzabile occorre sostenere dei costi che il mercato è in grado di minimizzare (efficienza nella gestione). Se l’efficienza così ottenuta contrasta con l’equità che la società vuol perseguire, non c’è che da correggere il risultato con l’intervento pubblico (lo stato sociale esiste proprio per questa funzione correttiva). In altri termini, privatizzata la gestione del servizio occorre farla affiancare dall’intervento pubblico che abbia il duplice obiettivo di controllare che il profitto di monopolio non superi un livello normale (regolamentazione) e di fornire a tutti, anche a coloro che non possono pagare il prezzo (tariffa) che copre tutti i costi[3], il servizio, utilizzando i normali strumenti di redistribuzione (per esempio fornire una certa quantità a prezzo nullo, oppure legando le tariffe al livello del reddito del consumatore almeno entro certe soglie, ecc.).

Per combinare nel migliore dei modi il meccanismo di mercato (efficienza) e quello del settore pubblico (equità), occorrerebbe dunque privatizzare la gestione, regolamentare le tariffe (prezzi) e decidere quanta (e come) redistribuzione attuare. Da anni si sostiene infatti che anche il settore idrico debba avere i lineamenti di un settore industriale e rispondere a criteri di efficienza economica, tant’è che la legge Galli del 1994 fu prodotta in risposta a queste istanze che furono poi confermate e ribadite nei successivi interventi. Senza elencare pregi e difetti della Galli e dei successivi interventi, mi limito a scrutinarla sotto il punto di vista economico delle sue capacità di far assumere un profilo industriale al settore e ottenere l’efficienza di gestione e a constatarne la scarsa efficacia. La premessa per entrambi gli obiettivi è che il settore riesca ad attirare il capitale privato che, com’è noto, risponde al segnale della profittabilità che, a sua volta, dipende dalle tariffe (o prezzi). Dunque la tariffazione NON è un aspetto marginale: in essa si traduce la filosofia dell’intervento pubblico nel settore e ne costituisce il fulcro. Ovviamente molti elementi contribuiscono al successo o insuccesso della Galli, dalla governance alla tipologia della transizione, dalla perseguibilità degli obiettivi alla tempistica, dalla scelta dei soci al ricorso alle aste, ecc., ma se si vuole che il “meccanismo del mercato” produca i risultati positivi per la collettività di cui è capace (efficienza) non si può stravolgerne la logica di base. Insomma, non è possibile ottenere l’efficienza di mercato se certi meccanismi non vengono messi in condizione di funzionare e ciò non significa rinunciare a governarlo, che anzi, in assenza di vigilanza, può produrre danni notevoli al benessere sociale (la crisi finanziaria corrente ne è un esempio). Non a caso il ritorno al mercato, ovvero le privatizzazioni con regolamentazione delle public utilities inglesi, che hanno aperto la strada a tutte le altre, mettono in evidenza come gli elementi chiave per gli incrementi di benessere sociale, siano, molto semplicemente: tariffe secondo il price cap e coefficienti di efficientamento incorporanti la necessità di investimenti[4].
L’aspetto più contestabile della leggi Galli, e al quale si lega la maggioranza dei problemi[5], è la tariffazione secondo il metodo normalizzato. Chi conosce in dettaglio il metodo, sa che ha una sua logica ma sa anche che essa è molto più vicina a quella dei prezzi “amministrati” piuttosto che al price cap, nonostante gli “sforzi” per farla apparire tale e ciò fa tutta la differenza (dirigismo vs regolamentazione). Mentre con la logica del (vero) price cap il meccanismo di mercato funziona e dunque l’allocazione delle risorse che ne consegue è desiderabile, con quella dei prezzi amministrati non si esce dall’allocazione pubblica dominata dai riconosciuti difetti del settore pubblico nella fase allocativa e ai quali si associano, inoltre, scelte di falsa socialità, ovvero tariffe dissociate dalle condizioni di costo. Superfluo forse ribadire che i costi modellati del metodo sono, purtroppo, modellati su funzioni di costo inglesi degli anni ’90 con assai scarsa rilevanza per il nostro paese oggi e che le funzioni di costo italiane sono “sconosciute” nonostante alcuni eroici tentativi di stimarle, ma utilissimo ricordare che il regolatore non ha bisogno di conoscere nel dettaglio gli aspetti gestionali perchè basta che conosca le condizioni generali del settore e le necessità di investimento per migliorare il benessere sociale. Le imprese non gradiscono rendere note le loro faccende, ma anche il regolatore non ha interesse ad affrontare costi di informazione elevati per conoscerle, mentre ha interesse a che la fornitura idrica, fognaria e di depurazione siano efficienti e di livello europeo. Se questo fosse il vero obiettivo (e non quello semplicemente dichiarato), il ricorso al capitale privato apparirebbe inevitabile ed urgente, dati i ritardi infrastrutturali del nostro paese specialmente, ma non soltanto, nel comparto depurazione. E siccome questo, come si sa, affluisce se e solo se il regolatore è credibile, le regole sono definite e certe per un dato periodo e le attese di profittabilità, conseguenti a buone pratiche di gestione, positive, non si continuerebbe a tenere il settore polverizzato e sotto controllo pubblico di tipo dirigistico (né, d’altro lato, le funzioni redistributive del WS implicano dirigismo!).
Facendo tesoro dell’esperienza accumulata in 15 anni dalla Galli, si prenderebbe atto che tariffe amministrate, forzatamente basse e slegate dalle condizioni di domanda e offerta, non rappresentano gli incentivi economici ai quali il mercato possa rispondere, e si passerebbe pertanto ad una genuina privatizzazione con regolamentazione del tipo inglese. In alternativa, se questo non piacesse, si potrebbe restaurare la gestione in economia degli 8000 e più comuni, ma si dovrebbero comunque trovare le risorse sia per gli adeguamenti infrastrutturali che per innovare nella gestione delle risorse idriche (perchè mai non si dovrebbe irrigare con acqua di riutilizzo?), oltre che per le opere di manutenzione, costantemente rinviate, ma che potrebbero per esempio ridurre le perdite dei nostri acquedotti e portarle ai livelli di quelle dei paesi europei, possibilmente i più virtuosi. Bisogna uscire dall’impasse. O si crede all’efficienza del mercato e allora bisogna creare le condizioni per farlo funzionare al meglio oppure non vi si crede e allora bisogna restare alle gestioni in economia (non mancano esempi di buona gestione). Ciò che non giova alla collettività è il miscuglio dei criteri di efficienza e di equità, perchè da ciò non segue né l’una né l’altra, e la continua incertezza sull’assetto del settore perché costringe a decisioni miopi. Ironicamente, quanto più cresce la domanda e con essa i conflitti tra gli usi, quanto più gli impegni europei rendono urgenti grossi investimenti e quanto più le sopraggiunte necessità di adattamento ai cambiamenti climatici dovuti al surriscaldamento richiederebbero innovazione (la mutata tipologia delle piogge per esempio implica adeguamenti infrastrutturali), tanto meno si fa chiarezza nell’assetto del settore, eludendone le risposte e aggravandone i problemi.

Note

1.  Barr Nicholas, The Economics of the Welfare State, Stanford University Press, 1998 (terza edizione)

2.  Hardin Garrett, The tragedy of the commons, Science, v. 162 , 1968

3.  Come da Direttiva Europea 2000/ 60.

4.  Amstrong Mark, Cowan Simon,Vickers John, Regulatory Reform. Economic Analysis and British Experience, MIT press, 5a ristampa, 1999.

5.  Ovviamente anche la “commistione” tra autorità di approvazione del piano e di controllo della gestione, non è un difetto da poco!