La cornice istituzionale della Public Company negli Stati Uniti e nel Regno Unito

1. Introduzione [1]

La public company, intesa come la società quotata ad azionariato diffuso (Bearle e Means, 1932; Coffe Jr., 2001), costituisce una tipica istituzione dei Paesi anglosassoni. Autorevoli studiosi hanno infatti rilevato come essa sia un’eccezione negli altri ordinamenti, dove invece la regola è rappresentata da società con uno o più azionisti di riferimento che, controllando l’assemblea attraverso la proprietà concentrata, scelgono gli amministratori ed hanno così il controllo della società stessa (La Porta et al., 1999; Enriques, 2008). Allo stesso tempo, le public companies negli Stati Uniti e nel Regno Unito sono caratterizzate da un quadro regolamentare diverso. La nostra analisi parte quindi dall’osservazione che la public company costituisce un equilibrio stabile in due distinti ordinamenti giuridici.

Il nostro obiettivo è capire se a tale diversità è legata una diversa distribuzione del controllo tra amministratori e azionisti, se cioè non solo il quadro regolamentare sia diverso ma sia differente anche la concreta distribuzione dei poteri tra i due soggetti principali della public company. In questo caso si potrebbe parlare di due diverse tipologie public companies. Il nostro contributo cerca altresì di individuare le caratteristiche comuni del quadro giuridico della public company nei due Paesi e di formulare alcune ipotesi riguardo agli aspetti che appaiono determinanti per l’esistenza di tale istituzione. L’obiettivo finale è di offrire elementi di riflessione al dibattito italiano circa gli elementi necessari per la nascita della public company in Italia e circa le diverse tipologie di tale istituzione tra le quali è possibile scegliere.

Il secondo capitolo di questo lavoro si concentra sulla diversa distribuzione del controllo tra amministratori e azionisti nei due Paesi; il terzo capitolo cerca di descrivere l’importanza del controllo illustrando i vari benefici che possono essere tratti attraverso di esso dagli amministratori. Il quarto capitolo conclude formulando delle ipotesi circostanziate sugli aspetti salienti che un ordinamento deve avere per fare della public company un equilibrio stabile e sulle diverse “ricette” di public company tra le quali è possibile scegliere.

2. La cornice regolamentare della public company negli Stati Uniti e nel Regno Unito e il potere di controllo sulle società

L’ordinamento statunitense, ed in particolare il diritto dello Stato del Delaware – Stato dove gran parte delle società quotate nei mercati americani hanno la loro sede legale e quindi sono sottoposte alla disciplina legale dettata per esse – prevede una particolare distribuzione dei poteri fra amministratori ed azionisti. A differenza del Regno Unito (e di molti ordinamenti dell’Europa continentale, a cominciare da quello italiano), il diritto del Delaware delinea un tipo di società a controllo manageriale, cioè una società in cui i poteri di gestione sono concentrati nelle mani degli amministratori [2].

Si può sostenere che il diritto del Delaware attribuisce poteri tali agli amministratori che essi hanno la possibilità dell’esercizio del controllo, della conservazione del controllo e della cessione del controllo (Bianchi, Bianco et al., 2005; Pacces, 2008). Nel Regno Unito, invece, l’equilibrio dei poteri appare più spostato a favore degli azionisti con riferimento a tutti e tre i profili.

2.1 Esercizio del controllo

Quanto al primo aspetto, negli Stati Uniti gli amministratori hanno quasi tutti i poteri di gestione della società; solo alcune decisioni richiedono il voto assembleare e tali risoluzioni possono essere proposte esclusivamente dagli amministratori stessi. Esse sono costituite, in primo luogo, dalle modifiche allo statuto, le cessioni di asset importanti, lo scioglimento o la fusione della società (Bebchuk, 2007). I soci non hanno un potere di iniziativa, cioè di promozione di questioni da portare dinanzi l’assemblea – se si escludono le precatory resolutions. Queste ultime sono deliberazioni assembleari che non vincolano gli amministratori, i quali possono disattenderle senza andare incontro a sanzioni civili o di altra sorta. L’amministratore può peraltro essere non più nominato dall’assemblea, e ciò potrebbe rappresentare una conseguenza tale da allineare la volontà degli azionisti con quella del management.

La legislazione nel Regno Unito riconosce agli azionisti poteri di controllo penetranti nei confronti degli amministratori. (Becht, Franks, Mayer e Rossi, 2007). Gli azionisti hanno il diritto di proporre risoluzioni all’assemblea annuale. Inoltre, gli investitori che detengono almeno il 10% del capitale azionario hanno il potere di chiedere la convocazione di un’assemblea straordinaria. Il consiglio di amministrazione è poi soggetto ad ogni indirizzo preso con risoluzione dagli azionisti. Sulla base di una norma inderogabile gli azionisti possono in ogni momento sostituire i consiglieri di amministrazione per mezzo del voto in assemblea straordinaria convocata per tale scopo. Il diritto del Regno Unito non considera la moderna corporation come una “democrazia puramente rappresentativa” (Bebchuk, 2005). Alcuni autori ravvisano peraltro nei fatti una forte passività degli investitori nei confronti degli amministratori, per cui tale passività lascerebbe l’esercizio del controllo in capo agli amministratori (Black e Coffee, 1994; Goergen e Renneboog, 2001; Pacces 2008; ma vedi in senso contrario, Santella, Baffi Drago e Lattuca, 2008).

2.2 Conservazione del controllo

Gli amministratori negli Stati Uniti hanno anche poteri di conservazione del controllo. In primo luogo, essi possono ricorrere alla sollecitazione di deleghe per concentrare i voti sui candidati da loro scelti in occasione del rinnovo del consiglio di amministrazione. Anche un soggetto diverso dal management può ricorrere ad una proxy solicitation, ma vi è una asimmetria nella disciplina delle raccolte di deleghe compiute dagli amministratori e quelle attuate da soggetti esterni: mentre per quanto concerne gli amministratori le spese sono a carico della società, anche nel caso in cui risulti che la richiesta non abbia prodotto il risultato desiderato, cioè la nomina dei consiglieri di amministrazione indicati dall’incumbent board of director, per quanto concerne i soggetti esterni le spese sono a loro carico, tranne nel caso in cui risultino vincitori nella contesa. Forse anche per tale motivo le proxy fights sono così rare nelle società quotate (Bebchuk 2005; Bebchuk, 2007). In questo modo di fatto il board of directors si autoperpetua o quanto meno si caratterizza per il fatto che l’ingresso in esso avviene per cooptazione. La difesa del controllo si realizza anche attraverso l’istituto dello staggered board, in forza del quale nell’elezione dei consiglieri di amministrazione solo un terzo di essi può essere sostituito. In società che adottano tale caratteristica statutaria, per ottenere il controllo del consiglio di amministrazione un soggetto esterno dovrebbe compiere due proxy solicitations in due anni successivi. Infine la conservazione del controllo si esprime anche in atti che gli amministratori possono compiere in caso di takeover ostili: lo strumentario di poison pills e tecniche difensive che si possono utilizzare per contrastare un takeover, senza bisogno del voto assembleare, sono tali per cui si sostiene che valga la regola del “just say no” (Pinto e Branson, 2004).

Nel Regno Unito la conservazione del controllo da parte degli amministratori appare più difficile dato il bilanciamento di poteri a favore dell’assemblea degli azionisti. Deve inoltre tenersi presente che le misure difensive in caso di takeover ostili sono vietate dalla legislazione.

Vi sono, peraltro, alcuni elementi che sembrano indicare che la conservazione del controllo sia in parte possibile anche per i managers nel Regno Unito, sia pure con modalità diverse dagli Stati Uniti. La conservazione del controllo si fonderebbe sulla possibilità di raccogliere deleghe a spese della società; tale attività può essere compiuta da un soggetto esterno solo a proprie spese (Goergen e Renneboog, 2001). Alcuni studiosi fanno poi notare che la corporate governance britannica “penalizza anche il mero esercizio del controllo attraverso la concentrazione stabile della proprietà azionaria, imponendo in tal caso il riconoscimento di cospicui poteri di governance alla minoranza (…): ad esempio la necessità di far approvare le operazioni infragruppo dalla minoranza della società controllata, l’obbligo di riservare alla minoranza l’elezione della maggior parte dei membri del consiglio, il diritto di veto su qualunque operazione sul capitale che possa diluire il peso percentuale degli azionisti non controllanti” (Bianchi, Bianco et. al., 2005, pp. 177-178; vedi inoltre Becht a Mayer, 2001). Infine deve rilevarsi come l’acquisizione del controllo totalitario risulti particolarmente costosa, richiedendo la corresponsione dell’intero premio di controllo a tutti gli azionisti. La nostra conclusione è che la conservazione del controllo per il management nel Regno Unito sembra essere possibile ma in misura ridotta rispetto agli Stati Uniti.

2.3 Cessione del controllo

Potrebbe immaginarsi a questo punto che il cambiamento del controllo sia inattuabile nelle public company statunitensi, in quanto l’arroccamento (l’entrenchment) degli amministratori è molto elevato. Gli amministratori, tuttavia, pur avendo il potere di conservazione del controllo, sono incentivati a non ostacolare un tentativo di acquisizione dello stesso in forza di alcune previsioni normative. Gli amministratori, infatti, possono beneficiare di una buonuscita (il golden parachute) che incentiva la cessione del controllo. Inoltre, l’ordinamento del Delaware permette ad essi di negoziare con il soggetto che intende acquisire il controllo il pagamento di una somma ulteriore (il side payment) in cambio dell’impegno di non ostacolare un takeover.

Anche nel Regno unito il cambiamento del controllo necessita normalmente dell’accordo degli amministratori. I pacchetti azionari detenuti degli amministratori fanno sì che una offerta ostile sia difficilmente praticabile. La mancata cessione del loro pacchetto di azioni, infatti, determina come conseguenza che essi diventino azionisti di minoranza nella società, con tutti i diritti che, come abbiamo visto, ad essi derivano. Viene in considerazione, in particolare, la già citata regola del whitewash, per cui una operazione con parti correlate deve essere approvata dalla maggioranza della minoranza: gli amministratori, con i loro pacchetti azionari che si aggirano mediamente all’11% (Goergen e Renneboog, 2001), possono essere di ostacolo ad ogni operazione di tal sorta (Pacces, 2008). Gli autori citati non escludono peraltro, che acquisizioni ostili avvengano sul mercato inglese. D’altra parte, come fanno notare Santella-Baffi-Drago-Lattuca (2008), il voto in assemblea di alcuni tra i maggiori investitori istituzionali attivi nel Regno Unito mostra un alto livello di consenso nei confronti del management, consenso che sembrerebbe smentire l’esistenza di un alto livello di entrenchment in questo paese.

 

2. 4 L’autonomia statutaria e vincoli regolamentari

In entrambi i Paesi esaminati il quadro regolamentare lascia spazio all’autonomia statutaria. Sono possibili strumenti di rafforzamento del controllo quali dual-class shares e azioni privilegiate senza diritto di voto. Negli Stati Uniti, ma non nel Regno Unito, sono ammesse anche le poison pills e le altre tecniche difensive. Questa possibilità è particolarmente interessante al momento della nascita della public company, quando l’imprenditore cede la proprietà sul mercato cercando di mantenere il controllo.

Sebbene qui non si voglia entrare nel merito della questione circa l’efficienza o meno del modello societario della public company, vale la pena di osservare che studi empirici (Coates IV, 2000; Daines e Klausner, 2001) hanno evidenziato come gli statuti delle società che compiono IPO negli Stati Uniti abbiano clausole che rafforzano l’entrenchment degli amministratori. Nel Regno Unito i dati disponibili (ISS et al., 2007) mostrano invece che le società di recente quotazione non fanno ricorso a strumenti di rafforzamento del controllo (diversamente da quanto accade per le società già presenti in borsa da tempo e di maggiori dimensioni, le quali comunque vi fanno un ricorso più limitato che in altri paesi europei), anche se queste stesse società sono caratterizzate da un azionariato più concentrato.

Quindi, anche se la teoria economica (Jensen e Meckling, 1976) ravvisa negli amministratori degli agent degli azionisti e quindi ritiene necessario un potere di controllo del principal, negli Stati Uniti le scelte autonome degli imprenditori che si accingono a cedere la proprietà mostrano una preferenza ad inserire clausole negli statuti che rendano marginale il ruolo degli azionisti nella vita della società. Nel Regno Unito, il minore ricorso a questi strumenti sembrerebbe indicare un maggiore potere dissuasivo degli investitori. Anche nei casi in cui l’imprenditore non si rassegna a diventare un puro agent degli azionisti ma scelga di trattenere una quota delle azioni al fine di mantenere il controllo, sembra che soltanto in una minoranza di casi questo tentativo riesce: secondo Goergen (1998 e 1999) entro sei anni dall’IPO un terzo delle società del Regno Unito sono scalate, un terzo si è trasformato in public company, e solo un terzo rimane controllato dalla famiglia fondatrice; questi risultati vengono confermati anche da un più recente studio (Mayer, 2008).

Sembra quindi che il quadro regolamentare abbia un ruolo importante nel definire il rapporto tra azionisti e management all’interno del modello public company da due diversi punti di vista. In primo luogo, la disciplina imperativa[3] influenza l’equilibrio dei poteri all’interno dei due modelli societari; in secondo luogo lo stesso diritto derogabile, come indicano alcuni studi anglosassoni, influenza i risultati finali (Sunstein e Thaler, 2003).

 

3. I benefici del controllo

Abbiamo visto nella sezione precedente che i poteri di azionisti e amministratori sono diversi nei due Paesi considerati, con delle ricadute in termini di grado e forme di entrenchment possibili per gli amministratori nei due Paesi. La domanda che ci poniamo a questo punto riguarda il modo in cui nei due Paesi l’entrenchment è di fatto utilizzato dagli amministratori, in altre parole quali benefici essi ne derivino, e quali siano gli strumenti di tutela utilizzati dagli azionisti contro possibili abusi. Se da un lato l’entrenchment può essere visto come una condizione chiesta dall’imprenditore-manager per cedere la proprietà della sua impresa, dall’altro senza adeguate garanzie gli investitori esterni non sono in linea di principio disposti a entrare nel capitale di quella impresa.

Si hanno quindi da un lato i benefici che l’imprenditore (il management) trae dalla gestione dell’azienda e dall’altro l’interesse degli azionisti a non essere vittime di pratiche espropriative da parte del management stesso e ad avere strumenti sufficienti a garantirsi il ritorno atteso dal proprio investimento. Secondo la letteratura in materia, attraverso il controllo si possono ottenere tre tipi di benefici: i diversionary benefits, i distortionay benefits e gli idyosincratic benefits.

I diversionary benefits si caratterizzano per il fatto di essere benefici ottenuti attraverso lo spostamento (lo sviamento) di ricchezza dalla società controllata ad un altro soggetto: tipici casi sono il tunneling o gli stipendi molto elevati non proporzionati al contributo prestato dal manager all’azienda. In tali ipotesi non vi è una inefficienza, ma un semplice trasferimento di ricchezza.

I distortionary benefits sono i benefici che l’amministratore, agent degli azionisti, ottiene attraverso comportamenti di moral hazard (tipici esempi, l’aereo o l’appartamento di lusso, il lavorare con minore impegno o, forse più gravemente per gli azionisti, la scelta di persone amiche ma non adatte per i posti chiave della società). Ne risulta una gestione aziendale non orientata all’efficienza.

Questi due tipi di benefici finora descritti vengono definiti come “cattivi”, nel senso che vanno contro gli interessi degli azionisti. Autorevoli studiosi (La Porta et al., 1999, Bebchuk, 1999; Bebchuk e Roe, 1999) sostengono che la presenza di benefici contrari agli interessi degli azionisti sia un dissuasivo per l’investimento azionario non di controllo e una motivazione per l’inesistenza di public companies in un certo paese. Una prima conclusione è quindi data dal fatto che la presenza di public companies è ostacolata dalla possibilità di estrarre benefici privati “cattivi”.

Gli idyosincratic benefits sono invece quei benefici che derivano dalla posizione di rilievo di cui si gode quando si occupano posti apicali di una società (il piacere per il successo, l’appartenenza ad una élite, il potere politico che si può esercitare e così via). Tali benefici vengono anche definiti “buoni” o “remunerativi” in quanto non sono in contrasto con gli interessi degli azionisti. In linea di principio si potrebbe dire che rispetto a questi benefici la distribuzione dei poteri tra management e azionisti esterni sia neutrale, in quanto entrambe le parti hanno interesse a favorire l’appropriazione di questi benefici. Tuttavia, il management può temere che un cambiamento del controllo della società possa determinare una sostituzione di esso e quindi il venir meno degli idyosincratic benefits, dei quali gli amministratori verrebbero così espropriati. Questo spiega perché secondo alcuni studiosi (Pacces, 2008) un certo grado di entrenchment faciliterebbe la cessione della proprietà da parte dell’imprenditore e quindi la nascita della public company. Tuttavia l’entrenchment è allo stesso tempo una delle condizioni per l’appropriazione dei diversionary e dei distortionary benefits. Anche in questo caso, la soluzione adottata nei due Paesi dipende dal quadro regolamentare e dalla volontà negoziale di azionisti e amministratori.

3.1 I diversionary benefits

Un confronto dei sistemi statunitense e del Regno Unito mostra che in entrambi i Paesi la possibilità per il management di conseguire diversionary benefits sembra essere limitata.

Nel Regno Unito la norma del whitewash obbliga gli amministratori che vogliano porre in essere un’operazione in conflitto di interessi a sottoporla all’approvazione dell’assemblea degli azionisti con l’obbligo di astensione degli azionisti interessati. In altre parole, nel Regno Unito le operazioni in conflitto di interessi devono essere approvate da una maggioranza della minoranza.

Negli Stati Uniti la prevenzione di comportamenti espropriativi passa attraverso il controllo sulle decisioni degli amministratori esecutivi esercitato da una maggioranza di amministratori indipendenti e, ex post, dal ricorso degli azionisti alla court litigation. L’ordinamento del Delaware attribuisce una notevole importanza – fra i vari doveri fiduciari (fiduciary duties) – al duty of loyalty (Shleifer, 2008), che si concreta nel controllo giurisdizionale delle scelte compiute dagli amministratori in situazioni di conflitto di interesse. Si potrebbe sostenere che questo dovere di lealtà nei confronti degli azionisti non trovi pratico rispetto in quanto nessun azionista ha gli incentivi necessari ad adire le vie legali. Gli azionisti di una public company tendono infatti ad avere un comportamento che viene definito di “apatia razionale”: ciascun socio, detenendo una piccolissima quota della proprietà della società, non ha interesse ad attivarsi per controllare l’operato del management, in quanto egli finisce per sopportare i costi della sua azione giudiziale mentre i benefici vengono ripartiti fra tutti gli azionisti. Si ha un problema di free riding (Bainbridge, 2008). E’ allora ragionevole supporre che nessun socio abbia interesse a ricorrere al giudice per veder rispettato il duty of loyalty. Qui viene in soccorso il diritto processuale statunitense che prevede meccanismi di aggregazione degli interessi individuali, meccanismi congiunti a regole che incentivano gli avvocati a sopportare interamente i costi dell’azione legale. Viene cioè in soccorso all’apatia razionale dei soci l’istituto della derivative suit congiunto con quello delle contingent fees. Ciò significa che gli studi legali hanno un incentivo, grazie alle contingent fees (che possono aggirarsi anche intorno al 25-30% del risarcimento del danno ottenibile) a cercare un azionista che sia disposto ad agire in giudizio – senza peraltro sopportare costi in quanto questi ultimi rimangono a carico delle law firms [4] . È possibile riscontrare tutti questi profili nella tabella 1.

Non è chiaro quale dei due sistemi di controllo dei diversionary benefits sia il più efficace, o se entrambi lo siano nella stessa maniera. Come riportato da Armour (2008), vi sono al riguardo diversi punti di vista, anche se i dati forniti dallo stesso autore sembrerebbero far propendere per una maggiore efficacia del sistema in vigore nel Regno Unito. Nella stessa direzione portano i dati forniti da Santella-Baffi-Drago-Lattuca (2008), i quali mostrano che alcuni tra i maggiori investitori istituzionali fanno registrare percentuali di voto a favore del management in assemblea superiori nel Regno Unito rispetto agli Stati Uniti.

3.2 I distorsionary benefits

I distortionary benefits sono tanto più appropriabili quanto minori sono i meccanismi per il controllo delle scelte del management a disposizione degli azionisti. Da questo punto di vista la situazione nel Regno Unito sembra mostrare un maggiore controllo degli investitori grazie a dei poteri molto maggiori che negli Stati Uniti. Come abbiamo già osservato e come anche illustrato nella tabella 1 gli azionisti nel Regno Unito dispongono di maggiori diritti rispetto a quelli previsti negli Stati Uniti per indirizzare l’operato degli amministratori. Un gran numero di decisioni degli amministratori deve essere approvato dagli azionisti, a cominciare dal bilancio e dalle operazioni sul capitale. Le decisioni riguardanti l’indirizzo che la gestione della società deve seguire possono essere prese in qualunque momento dagli azionisti. Al contrario, negli Stati Uniti il potere di controllo sugli amministratori è più limitato e passa soprattutto per l’elezione degli amministratori. La nostra ipotesi è che questo tipo di benefici siano più appropriabili da parte degli amministratori negli Stati Uniti grazie al maggiore spazio di discrezionalità riconosciuto dal quadro regolamentare statunitense agli amministratori. Anche questa ipotesi sembra confortata dal comportamento degli stessi azionisti. L’adesione riscontrata da Santella-Baffi-Drago-Lattuca (2008) di alcuni tra i più importanti investitori istituzionali alle proposte degli amministratori risulta più alta rispetto agli Stati Uniti, cosa che farebbe propendere per una presenza di distortionary benefits inferiore.

3.3 Gli idiosincratic benefits

Per quanto riguarda gli idiosincratic benefits osserviamo in primo luogo che sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti gli azionisti riconoscono agli amministratori dei compensi in caso di perdita dell’incarico, i cosiddetti golden parachutes (Holderness, 2003; Gilson, 2004). Nel Regno Unito tali benefits potrebbero spiegare perché gli amministratori investono somme ingenti nell’acquisto di blocchi azionari, superiori a quelle investite dal management negli Stati Uniti (Pacces, 2008). Una possibilità alternativa è che l’investimento importante in azioni sia motivato prevalentemente dall’interesse al dividendo, vale a dire che vi sia un quasi totale allineamento tra gli interessi degli azionisti e dei manager.

4. Conclusioni: modello statunitense e britannico di public company

Il confronto tra l’ordinamento britannico e quello statunitense (specificamente quello del Delaware) mostra che in entrambi i sistemi sembrano essere presenti efficaci strumenti di prevenzione di comportamenti espropriativi da parte del management ai danni degli azionisti di minoranza (diversionary benefits), anche seforse l’ordinamento britannico potrebbe risultare superiore. Il diverso livello di poteri del management nei due Paesi e il più alto livello di conflittualità di alcune categorie di azionisti negli Stati Uniti rispetto al Regno unito sembrano segnalare in maniera più chiara l’esistenza negli Stati Uniti di un livello più alto di distortionary benefits, queicomportamenti opportunistici degli amministratori in danno all’efficienza aziendale.

Tutto questo ha un riflesso sull’equilibrio di forze tra amministratori e azionisti. Rispetto al dibattito su quale grado di controllo gli azionisti debbano riconoscere agli imprenditori per indurli a cedere la proprietà dell’impresa, il confronto tra i due modelli ci dice che il diritto societario è importante sia sotto forma di regole indisponibili che di norme derogabili, ed ha un effetto sulla scelta della organizzazione societaria e quindi sulla distribuzione dei poteri tra azionisti e management. A fronte di un quadro regolamentare più favorevole agli amministratori negli Stati uniti rispetto al Regno unito, nel primo Paese gli amministratori godono di un maggior grado di controllo rispetto al secondo. L’arroccamento degli amministratori non sembra essere quindi un prerequisito per la public company.

All’osservatore italiano si presentano così due modelli possibili di public company: negli Stati Uniti gli azionisti hanno a disposizione minori strumenti endosocietari per indirizzare la gestione degli amministratori e fanno affidamento, oltre che sull’intervento delle autorità di vigilanza sui mercati di borsa, sul ricorso ai tribunali grazie all’efficienza delle giurisdizioni commerciali e sulla possibilità concessa dalla legge agli studi legali di rappresentare in giudizio un gran numero di azionisti facendosi carico interamente delle spese in caso di sconfitta; nel Regno Unito gli azionisti sembrano avvalersi principalmente dei maggiori poteri di indirizzo e controllo sugli amministratori riconosciuti loro dal quadro regolamentare. Rispetto al primo modello, a fronte della recente introduzione del patto di quota lite (contingent fee) il nostro paese presenta problemi riguardo all’efficienza del processo civile; rispetto al secondo modello, la carenza maggiore appare la mancanza di strumenti efficaci per gli azionisti per prevenire che decisioni degli amministratori si traducano in comportamenti espropriativi. Ci sembra che il cammino verso la public company all’italiana passi più da Londra che da New York. Il modello britannico appare più vicino alla caratteristiche dell’ordinamento italiano per quanto riguarda la distribuzione dei poteri operata dal nostro quadro regolamentare a favore degli azionisti. E anche guardando ai passi ancora da compiere per raggiungere uno dei due modelli è probabilmente più semplice introdurre una norma che consenta ai nostri azionisti di minoranza di porre il veto ad operazioni espropriative ai loro danni piuttosto che attendere la soluzione dei problemi del nostro processo civile, soluzione che, al momento, non appare imminente.

Tabella 1. Diritti degli azionisti e poteri degli amministratori negli Stati Uniti e nel Regno unito

Stati Uniti
Regno Unito
Azionariato diffuso
Public company
Diritti degli azionisti
F1. Dovere di fedeltà
Ex ante (il Cda deve essere composto in maggioranza da amministratori indipendenti)Ex post (F2 -F3)
Ex ante: (Whitewash)
F2. Derivative suits
Sì (Clark, 1986; Bebchuk, 2005, 2007)
Sì (la corte può negare l’autorizzazione in mancanza di evidenza sommaria oppure in presenza di talune circostanze specifiche; Companies Act 2006, part II, chap 1, section 260.-263)
F3. Patto di quota lite
Sì (chiamato contingent fees) (Clark,1986 )
Sì (chiamato conditional fee; Pacces 2008)
F5. Contesa per le deleghe
Sì (Clark 1986; Enriques 2008)
Sì (Enriques, 2008)
F6. Voto per delega
Sì (Clark, 1986; Enriques 2008)
Sì (Companies Act 2006, Part II, Chap. 3 ,sections.324-331)
F7. Facoltà di eleggere gli amministratori
F8 Facoltà di candidare gli amministratori
Possibile solo attraverso una contesa per le deleghe (proxy fight)
F9. Controllo sul consiglio di amministrazione
Principalmente attraverso la sostituzione degli amministratori
Sì (Bebchuk, 2005)
F10. Controllo delle tattiche difensive del management
Principalmente attraverso la sostituzione degli amministratori
Si (Enriques 2008)
F11. Stock options
F12. Facoltà di convocare l’assemblea da parte degli azionisti
No
Poteri degli amministratori
G1. Business judgment rule
Sì (Clark, 1986.)
No (Companies Act 2006, part II, chap 2, section. 174 e 178): l’amministratore è responsabile per negligenza verso la società; Mayson, French and Ryan, 2008)
G2.1 Regola del “Just Say No”
Sì (Enriques 2008)
No (Enriques, 2008)
G2.2 Staggered boards
No
G2.3 Raccolta di deleghe da parte degli amministratori a spese della società
Sì (Clark 1986, Bebchuk,2005 e 2007)
Sì (Georgen e Renneboog, 2001)
G2.4 Dual class shares
Permesse ma non frequentemente utilizzate.
Permesse ma non frequentemente utilizzate (ISS et al., 2007).
G2.5 Altre tecniche difensive
Sì (poison pills etc)
No (Bebchuk, 2005)
G3. Buonuscita (golden parachute)
[5]
G6 Pagamenti collaterali
Sì (Pacces, 2008)
No (Pacces, 2008)

Fonti: Clark (1986); Georgen e Renneboog (2001); Bebchuk (2005; 2007); Enriques (2008); ISSet al. (2007); Kraakman et al. (2004); Mayson, French and Ryan, (2008); Pacces (2008).

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Note

1.  Le opinioni espresse in questo articolo sono strettamente personali e non coinvolgono in nessun modo la Banca d’Italia.

2.  È importante precisare che il diritto societario del Delaware si caratterizza per essere in larga parte derogabile (Welch e Turezyn, 2007), diversamente da quello del Regno Unito (Mayson, French e Ryan 2008).

3.  Si pensi alla norma imperativa in vigore nel Regno Unito (come anche in Italia) per cui, superata da parte di un azionista la soglia del 30%, è obbligatorio per quest’ultimo lanciare un’offerta pubblica di acquisto totalitaria.

4.  Sebbene nel linguaggio tecnico la derivative suit non possa essere classificata come class action, in quanto il risarcimento è destinato alla società e non ad una classe di individui, tuttavia il meccanismo di incentivazione alla base è lo stesso: esso è rappresentato dalle contingent fees. Sono invece vere class action le azioni giudiziali che vanno a produrre la security litigation. In tal caso una law firm può agire in giudizio per chiedere il risarcimento del danno subito dagli azionisti in talune ipotesi – prima fra tutte quella della distribuzione di informazioni erronee o deliberatamente false.

5.  Limitazioni alle buonuscite sono state recentemente introdotte negli Stati Uniti: http://www.treas.gov/press/releases/2008101495019994.htm