La crisi finanziaria.
La globalizzazione tra tecnica e politica

1. Quando si discorre di “globalizzazione” si fa riferimento essenzialmente alla organizzazione capitalistica della ricchezza[1]. In questa prospettiva quel fenomeno crea una profonda integrazione tra paesi e popoli del mondo, determinata dall’enorme riduzione dei costi dei trasporti e delle comunicazioni e dall’abbattimento delle barriere artificiali alla circolazione internazionale di beni, servizi, capitali, conoscenza, persone[2].
In realtà, alla parola può essere attribuito un senso diverso: la globalizzazione non organizza il sistema capitalistico per tutti, bensì esporta, su base mondiale, la tecnologia e logica occidentale, quest’ultima depurata da ogni incrostazione metafisica. In questa diversa prospettiva, la globalizzazione non è la condivisione di un comune sentire, che vince barriere, limiti e ostacoli, bensì l’aggressione, fondata sulla forza economica, astrattamente portatrice di benessere e ricchezza, verso chi quella ricchezza non conosce ancora[3].
Comunque si voglia intendere il fenomeno, è indubbio che questi abbia aspetti positivi: pure il capitalismo ha una sua fede, fondata sulla possibilità di aumentare in modo indefinito le capacità di realizzare scopi e di inventarne di nuovi. Ed è altrettanto innegabile che l’apertura del commercio internazionale, ad esempio, ha aiutato molti paesi a crescere in modo rapido e a ridurre l’isolamento di quelli in via di sviluppo; ancora, il fenomeno ha consentito di affrontare il problema della povertà e certamente ha consentito la creazione di una coscienza mondiale di problemi globali, realizzata attraverso l’interconnessione, che ha dato vita anche a violente forme di protesta contro il fenomeno, fondate tuttavia proprio sulle tecniche proprie di questo. E’ indubbio che questi aspetti positivi debbano essere considerati. Ma è altrettanto indubbio che la globalizzazione non ha ridotto la povertà nel mondo e l’economia di mercato non ha portato finalmente prosperità a quelle nazioni che non ne avevano. E’ in questa prospettiva, allora, che va considerato l’argomento che vuole la globalizzazione come aggressione del mondo occidentale verso il pianeta. Ed è sempre in questa logica che si pone, allora, la riflessione, portata dai critici, per cui l’eliminazione delle barriere commerciali nei paesi poveri, imposta dall’occidente, che ha nei loro confronti conservato le proprie, avrebbe determinato l’effetto di abbattere il reddito da esportazione di questi, reddito sul quale sovente si è retta l’economia reale di molti paesi in via di sviluppo. Esportare il fenomeno globalizzazione e conservarne le redini: questi sarebbero i capisaldi su cui l’occidente ha fondato l’ordine economico mondiale.
Quale delle tesi esposte ha più fondamento? Una analisi realistica e priva di preconcetti ideologici deve muovere da altri presupposti.

2. La nostra riflessione è sull’oggi, all’indomani dell’inizio di una crisi mondiale di cui non si riescono a cogliere le cause e di cui sono imprecisati gli effetti[4]. E muove da una constatazione: che l’integrazione avviene piuttosto rapidamente a livello di sottosistemi, ma non altrettanto a livello di sistema. Così, se il sottosistema finanziario o quello militare o scolastico tendono indubbiamente e rapidamente a una unità, il medesimo fenomeno non viaggia alla medesima velocità sul piano del sistema. Come è stato ben osservato la globalizzazione “si sta verificando, primariamente, non dal punto di vista del capitalismo, né sul piano del movimento del capitale, ma sul piano tecnologico”[5]. E’ la tecnica, che priva di limiti e sbarramenti, tende a ricondurre tutto a se stessa. Si pensi alle reti globali per cogliere come, a livello di sottosistema, non solo la globalizzazione in quel settore sia un fatto accaduto, ma come quel sottosistema sia diffuso e inarrestabile. Una tecnica, al fine, funzionale a se stessa, mezzo e scopo al tempo stesso.
3. Altrettanto sul piano economico e nel mondo delle istituzioni?
Muoviamo dal primo interrogativo.
Comunque si voglia intendere l’economia è un dato obiettivo che la fine del socialismo reale abbia determinato la vittoria del capitalismo, il suo definitivo affermarsi sulla scena mondiale. Basti riflettere sulla crescita accelerata della finanza negli ultimi vent’anni, dovuta anche all’avvenuto collegamento elettronico dei mercati, e sull’affermazione di una serie di innovazioni sia dell’economia finanziaria che della digitalizzazione. Accanto a ciò si pensi a tutti i nuovi beni (gli strumenti finanziari derivati) che hanno, oggettivamente, trasformato il mondo finanziario sino a sconvolgerlo e, soggettivamente, determinato una euforia anche in soggetti prima del tutto estranei al mondo della finanza. Non ha rappresentato uno ostacolo, da un lato, la complessità dei beni e delle operazioni, ormai superati i limiti strutturali attraverso il collegamento dei mercati finanziari, e, dall’altro lato, la paura, attraverso la fede incondizionata nella nuova finanza.

La localizzazione dei centri finanziari in alcune importanti città, peraltro, non ha nulla a che vedere con il concetto di territorio nazionale; anzi, esattamente il contrario; la localizzazione coincide con la denazionalizzazione di quei centri finanziari, fondati -come è stato ben osservato – su una spazialità diversa da quella della territorialità nazionale[6].
I recenti fatti hanno, tuttavia, sconvolto il fenomeno e trasformato l’euforia in terrore.
L’identità è dissolta.
4. Cosa ha generato la crisi? L’occasione è il c.d. mutuo subprime, che è il mutuo concesso dalle banche ad una clientela di scarsa o media affidabilità, dunque non prime, ma subprime. In alcuni casi, quei mutui sono stati concessi anche in assenza di un mortgage (ipoteca) sulla casa, di conseguenza, con bassissime probabilità di essere ripagati.
Detti mutui sono stati concessi proprio per consentire l’acquisto della prima abitazione e, per tale ragione, sono stati definiti “mutui residenziali”.
Per ridurre il proprio rischio, le banche che avevano concesso mutui subprime, hanno proceduto ad effettuare cessioni in massa dei propri crediti a società veicolo ovvero ad altre banche, le quali versavano alle prime un corrispettivo pari alla metà del valore del credito stesso.
Le società/banche cessionarie, per ridurre il rischio di default connesso ai crediti acquistati, hanno poi proceduto ad imponenti operazioni di cartolarizzazione, attraverso l’emissione di prestiti obbligazionari.
I bond emessi a valle dell’operazione subprime erano, però, titoli molto complessi.
Segnatamente, le banche cessionarie dei subprime hanno emesso titoli detti ABS (Asset Backed Securities), ovverosia obbligazioni che pagavano cedole a interesse prefissato, fisso o variabile (la cui garanzia era rappresentata dai subprime).
Gli stessi ABS sono poi stati “rimpacchettati con altri bonds“, i CDO (Collateralized Debt Obligations), titoli a reddito fisso che derivano dall’aggregazione di diverse attività soggette a rischio di credito.
I CDO sono stati, poi, “impacchettati” in ulteriori CDO e/o in CDS, “Credit Defalut Swap” e quest’ultimi in ulteriori CDO.
In sostanza, le banche non hanno proceduto ad operazioni di cartolarizzazione c.d. “pure“, bensì hanno creato titoli del tutto nuovi e per lo più consistenti in filiere di obbligazioni alternate a derivati (swaps e futures) (detti titoli, in ambiente finanziario, sono stati denominati, per tale ragione, “titoli salsiccia”).
La diffusione progressiva di questi titoli ha fatto sì che anche banche “terze” rispetto alla catena subprime (dunque né cedenti né cessionarie) hanno cominciato ad “operare in CDO e CDS” e questo non solo a scopo di lucro, ma anche di garanzia: hanno utilizzato, cioè, questi titoli a garanzia del rimborso di debiti nei confronti di altre banche (attività c.d. di “collateral“).
L’aumento progressivo dello squilibrio tra liquidità e finanzia derivata ed il c.d. “fattore interdipendenza” tra banche d’affari sono state considerate le due cause principali del collasso dell’intero sistema.

5. Il mutuo è stata l’occasione della crisi, che affonda in radici più profonde. L’osservazione del fenomeno porta alle seguenti riflessioni:
a) il superamento dei limiti, concetto su cui si fonda la sovranità, è stato visto come la rimozione di un impedimento, presupposto per il raggiungimento del benessere collettivo. In ciò tutti si sono identificati[7]. La finanza globale, priva di territori, è apparsa onnipotente, ragione di euforia perché generatrice di benessere.
La crisi ha tutto sconvolto. L’assenza di limiti, intesi come a-territorialità, rende debole gli stati nazionali, impotenti o quasi di fronte alla finanza globale e ai suoi attuali problemi.
b) L’euforia si è trasformata in terrore. Raramente ciò è accaduto. Perché?
In primo luogo, perché l’estremismo, anche psicologico, porta a questi eccessi. E’ normale, di fronte a fatti sopravvenuti, trasformare l’entusiasmo in tragedia, senza percorrere tappe intermedie.
In secondo luogo, perché l’assenza di limiti determina un duplice effetto: da un lato, impedisce ogni reazione efficace adottata all’interno di un limite; così la reazione dei singoli stati nazionali è reazione all’interno di tanti limiti, che nulla possono nei confronti di un fenomeno, prima fisiologico, oggi patologico, che li trascende; dall’altro lato, l’avvertita sensazione di una incapacità di reagire della politica, chiusa nei propri territori. Se il territorio fonda il potere politico, questa si muove in quell’ambito[8]. La crisi mondiale non può essere affrontata dalla Russia o dall’America, è una crisi diversa, dove la reazione non può essere locale, ma planetaria; e tuttavia non esiste una autorità planetaria, che si ponga al di sopra dei territori.
In terzo luogo, perché la tecnica ha soppiantato la politica, nel senso che nel sotto sistema economico, è questa l’unica forza, incontrollata e incontrollabile[9].
In quarto luogo -e di qui l’angoscia- perché sinora siamo stati abituati ad individuare un nemico, contro il quale combattere e vincere o soccombere[10]. Il nemico, ora, non c’è, non è Lehaman Brothers o il subprime; il nemico non è fuori di noi, ma è in noi, nel senso che l’identità ci porta ad essere nemici di noi stessi. Contro chi si combatte, allora? Chi si sconfigge o da chi si viene sconfitti? Il nemico invisibile è il sottosistema, che non ha regole, non ha volti, non ha luoghi ed è fuori dal tempo.
E’ questa l’angoscia con la quale dobbiamo convivere.

6. E le istituzioni?
Qui il discorso diventa dolente.
L’assenza di un nemico rende tarda la reazione.
Ma ciò che più preoccupa è la diversa velocità con la quale il fenomeno “globalizzazione” si muove.
Rapido e penetrante nei sub sistemi, non trova risposta adeguata nelle istituzioni. Si pensi, a modo di esempio al “caso scolastico”, dove l’uniformità che governa il fenomeno si muove ad una diversa velocità rispetto alla reazioni di singoli stati, dove si alternano spinte all’adeguamento e brusche frenate che intendono nostalgicamente ripercorrere strade antiche; oppure, alla sanità, dove il progresso della scienza ha creato un mercato del lavoro che supera qualsiasi barriera o limite; così è facile pensare che, tra breve, vi saranno medici indiani o cinesi che offriranno un servizio efficiente in Europa ovvero analizzeranno dati nei loro paesi a un costo largamente inferiore a quello dei paesi occidentali.
Si pensi, infine, all’assenza di una politica globale, dovuta alla mancanza di una istituzione sovranazionale, che possa rispondere alla crisi finanziaria; così ciascuno stato risponde come può, ma resta in realtà in balia del mercato globale e delle sue violente oscillazioni.
L’assenza di programmazione e di reazione appaiono davvero inquietanti.
7. La tecnica sovrasta così la politica; la diversa velocità con la quale corre non lascia spazio ad analisi ottimistiche. I sub sistemi, sempre più globalizzati, si impongono ai sistemi propri di ogni paese, li trascendono, sino al punto di renderli inutili. E’ questa l’angoscia con la quale dobbiamo convivere; l’assenza di un controllo del reale dovuto alla tecnica, che sembra trascendere gli uomini che l’hanno generata. Viene alla mente la città di Metropolis, un incubo che non resta sullo schermo, ma che assale gli spettatori!

Note

1. Severino, Il destino della tecnica, Milano, 1998,p. 55.

2. Stigliz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino,2002, p. 9.

3. Acute riflessioni in Cammilleri-Gotti Tedeschi, Denaro e paradiso, Milano, 2004, p. 78 ss.

4. Non si vuole, qui, mettere in discussione l’affermazione, ormai divenuta un dogma, di considerare la globalizzazione come un fenomeno monolitico, che coinvolge nazioni, territori, diritti, economie, tutti posti sullo stesso piano e destinatari dei medesimi effetti, Un fenomeno che si muove al di fuori dei luoghi, determinando una de-strutturazione dell’esistente in favore di un nuovo ordine planetario, fondato sull’assenza dei luoghi rappresentati dagli stati, dalla morte del concetto di cittadinanza e, soprattutto, dall’assenza dell’elemento temporale che quei concetti presuppone: sul punto cfr. Sassen, Territorio, autorità, diritti, Milano, 2006.

5. Severino, L’identità della follia, Milano, 2007, p. 129.

6. Sassen, op. cit., p. 334.

7. Severino, L’identità della follia, cit., p. 13 ss.

8. Irti, Norme e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari, 2001; Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2005.

9. Sul punto Severino, L’identità della follia, cit., spec. p. 113 ss.

10. Irti, La tenaglia, Roma-Bari, 2008.