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L’azione collettiva risarcitoria: spunti di riflessione.

di - 19 Dicembre 2008
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L’art. 36 d.l. n. 112 del 25 giugno 2008 (convertito dalla l. 6 agosto 2008, n. 113), sotto la rubrica “class action” dispone: “Anche al fine di individuare e coordinare specifici strumenti di tutela risarcitoria collettiva, anche in forma specifica nei confronti delle pubbliche amministrazioni, all’art. 2, co. 447, della l. 4 dicembre 2007, n. 244, le parole decorsi centottanta giorni sono sostituite dalle seguenti: decorso un anno”.

Al di là del lessico impiegato, il senso della norma è univoco. Si tratta: 1) di rivedere struttura, caratteristiche e contenuti dell’art. 140 – bis del codice del consumo, oggetto di consistenti e diffusi rilievi critici (quando non di vere e proprie rampogne) da parte della dottrina giuridica e non solo (ma anche di associazioni dei consumatori, di associazioni d’imprese, di opinion makers, di forze sociali etc.); 2) di estendere la tutela risarcitoria collettiva (o, almeno, di prevedere meccanismi di estensione della disciplina) nei confronti della p.a. A dispetto della rubrica, in lingua inglese (manifestamente in conflitto con le numerose disposizioni, tra le quali segnalo solo l’art. 122 del codice di procedura civile e l’art. 9 dello stesso codice del consumo, che impongono l’uso della lingua italiana), non mi pare che la revisione possa/debba riguardare anche il modello adottato, nel senso della sua trasmigrazione dall’azione collettiva risarcitoria alla class action statunitense. A ciò osterebbero sia il contenuto della disposizione (si fa infatti pur sempre riferimento a “strumenti di tutela risarcitoria collettiva”, che mi sembra espressione sinonima a quella) sia la comparazione con altri paesi europei, sia infine gli stessi orientamenti dell’Unione europea (v. Congresso di Lisbona del 9 – 10 novembre 2007).

Sul piano generale, degli obiettivi, una disciplina dell’azione collettiva risarcitoria mira fondamentalmente a tutelare insieme e contestualmente: i)interessi seriali “dispersi”; ii) interessi dell’impresa alla predeterminazione del danno; iii) effettività della giustizia civile. Mira cioè, in una parola, ad una maggiore efficienza del sistema nella tutela di valori basici, fondanti della società civile.

Se strutturata attraverso tecniche giuridiche ottimali, consente infatti: 1) di ridurre i costi di accesso alla giustizia a carico dei singoli danneggiati, così da incrementare l’efficacia deterrente dell’enforcement privato; 2) di diminuire il carico di lavoro degli uffici giudiziari attraverso la concentrazione in un unico procedimento di una pluralità di istanze simili; 3) di predeterminare una volta per tutte il danno che il soggetto responsabile è chiamato a rifondere a causa della condotta illecita, riducendo l’alea derivante dalla dispersione del contenzioso in una pluralità di procedimenti; 4) di realizzare effetti di deterrenza, stimolando gli operatori a tenere comportamenti virtuosi nei confronti dei contraenti in senso lato “deboli”.

Il “successo” dell’istituto dipende in primo luogo dall’ambiente giuridico nel quale viene a calarsi. Quello italiano è caratterizzato da importanti limiti istituzionali, difficilmente valicabili. Essi sono principalmente riconducibili: i) alla presenza del principio costituzionale della tutela dei diritti, sancito dall’art. 24, che preclude la estensione del giudicato di rigetto dell’azione collettiva o di massa nei confronti di quanti non abbiano partecipato al giudizio; ii) alla quantificazione del risarcimento del danno, che deve essere strettamente correlata alle perdite patrimoniali subite come diretta conseguenza dell’illecito (lucro cessante e danno emergente), senza possibilità per il giudice di accordare risarcimenti aventi finalità sanzionatoria come i c.d. “danni punitivi”, esclusi anche dalla giurisprudenza più recente (v., in particolare, Cass. 19 gennaio 2007, n. 1183).

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