Il Sistema Idrico Integrato tra conflitti d’interesse e ruolo delle Autorità di vigilanza.

“La buona gestione dell’acqua deve essere materia di pianificazione da parte delle autorità competenti.”, così titolava il Paragrafo 9 della “Carta Europea dell’Acqua”, adottata dal Consiglio d’Europa nel lontano 1968, statuendo che <<l’acqua è una risorsa preziosa che ha necessità di una razionale gestione secondo un piano che concili nello stesso tempo i bisogni a breve ed a lungo termine>>.

Già alcuni decenni orsono, dunque, gli Stati d’Europa presero ad occuparsi del problema della corretta gestione delle risorse idriche nazionali, discutendo e soffermandosi intorno alla necessità di adottare modelli gestionali lineari ed efficienti, che fossero in grado di coniugare le esigenze presenti con quelle future delle popolazioni, dell’industria e dell’agricoltura, in un quadro generalizzato di crescita della domanda a fronte di una sostanziale stabilizzazione delle disponibilità complessive.

A quarant’anni di distanza, mentre la gran parte degli Stati firmatari di quella Carta sembra essersi dotato di assetti regolatori e gestionali stabili e fruttuosi, in Italia il dibattito politico e giuridico sul modello di gestione più efficiente per un corretto impiego delle risorse idriche nazionali appare ancora ben lontano dal potersi considerare concluso, alimentato da cicliche contrapposizioni  tra quanti spingono nella direzione di una sempre più marcata privatizzazione del sistema e quanti, invece, sostengono la necessità di un ritorno ad una gestione interamente pubblica dell’acqua.

L’esperienza italiana ha finito, così, per partorire un modello ibrido nel quale, a vario titolo ed in varie forme, hanno trovato ingresso sia i privati che il pubblico, senza, tuttavia, che venissero mai realmente e compiutamente definiti ruoli ed attribuzioni di ciascuno dei soggetti coinvolti.
Quello che si è venuto a delineare è un sistema in costante divenire, non sufficientemente perfetto ed in quanto tale non idoneo ad assicurare quella buona gestione dell’acqua che, come evidenziato in apertura, dovrebbe consentire il soddisfacimento pieno delle esigenze presenti e future della nostra società.

L’attuale Servizio Idrico Integrato nasce con la Legge 36/94, meglio nota come Legge Galli, e si fonda, almeno nelle intenzioni del legislatore dell’epoca, su alcuni capisaldi fondamentali:
a)    la netta distinzione e separazione dei ruoli e delle funzioni di governo da quelli di gestione;
b)    l’ampliamento delle dimensioni territoriali dei sistemi di gestione dei servizi idrici;
c)    la spinta decisa alla liberalizzazione.

Un insieme di obiettivi che dovevano consentire di trainare il sistema precedente, caratterizzato da un’elevata frammentazione (circa 9 mila diversi enti di gestione di servizi idrici), verso quello dei cd. Ambiti Territoriali Ottimali che, per ragioni di efficienza, efficacia ed economicità delle gestioni, ma anche per esigenze di carattere ambientale, dovevano assumere dimensioni territoriali considerevolmente più ampie rispetto a quelle comunali e rendere possibile, finalmente, l’approdo a gestioni di tipo industriale, così da assicurare l’accorpamento di funzioni e servizi, e consentire lo sfruttamento, con economie di scala e di scopo, dell’intero ciclo delle acque (distribuzione, raccolta e depurazione).

L’Ambito Territoriale Ottimale veniva a porsi come la circoscrizione geografica delimitante i confini della rete infrastrutturale e della gestione del servizio sulla quale esercitare una potestà di governo e regolazione unitaria, quasi sempre coincidente con il territorio provinciale.

Definiti gli Ambiti Territoriali, scorporate le funzioni di governo da quelle di gestione del servizio, con affidamento al soggetto pubblico delle responsabilità di determinazione, controllo e garanzia degli standard qualitativi e quantitativi dei servizi erogati, nonché di programmazione e definizione dei costi e degli investimenti, ed affidamento al soggetto privato (o misto) della gestione, con compiti tipicamente imprenditoriali, quali la produzione e distribuzione del servizio a fronte della riscossione delle tariffe previste, il percorso di industrializzazione del sistema idrico nazionale poteva immaginarsi, in buona sostanza, concluso.

Il passaggio da un sistema frammentato sulle singole comunità locali ad uno strutturato su dimensioni territoriali importanti, e quindi in grado di offrire bacini di utenza sostanziosi, avrebbe dovuto favorire il ricorso ad investimenti rilevanti, specie sotto il profilo infrastrutturale, consentendo l’ammodernamento della rete, in gran parte vecchia già decenni orsono, così da migliorare la qualità del servizio e renderlo, anche economicamente, più vantaggioso (attraverso la tariffazione) sotto il profilo della gestione.

Possiamo, allora, oggi considerare raggiunti tutti questi importanti obiettivi? Possiamo affermare di beneficiare di un servizio idrico efficiente ed in linea con gli standard europei? Qual è lo scenario prodotto dagli interventi legislativi succedutisi dal 1994 ad oggi?

Questi interrogativi sembrano trovare alcune risposte nelle numerose, quanto dettagliate, osservazioni formulate dal Comitato di Vigilanza sull’uso delle Risorse Idriche, contenute nella Relazione annuale al Parlamento per l’anno 2007.
Va premesso che tali osservazioni non inducono all’ottimismo ed anzi rafforzano le convinzioni di quanti considerano gli obiettivi indicati dalla legge di riforma ancora lontani dall’essere pienamente conseguiti.

Anche l’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici, nell’ultima Relazione al Parlamento, relativamente agli esiti dell’indagine conoscitiva sul sistema idrico nazionale, ha affermato <<Un annoso problema è rappresentato dalla rete ormai obsoleta che evidenzia ingenti perdite d’acqua. Nell’ultimo trentennio gli investimenti nel settore (prelievo, manutenzione, distribuzione, fognatura, depurazione) si sono ridotti di circa due terzi, passando da una media di investimenti di 2,3 mld di euro nel 1985 ad una spesa di poco superiore ai 700 milioni di euro nel 2005. La rete degli acquedotti ha mediamente 32 anni di vita…Un terzo degli acquedotti italiani non è stato oggetto di interventi di manutenzione straordinaria negli ultimi 20 anni….Direttamente legati alla vetustà degli impianti ed alla diminuzione degli investimenti sono i problemi delle perdite di rete, un mix di perdite fisiche involontarie, volontarie, allacciamenti abusivi e usi non contabilizzati…Le stime evidenziano che mediamente il 42% del volume di acqua erogato viene disperso..>>.

L’efficienza di ogni sistema dipende fortemente dal quadro regolatorio di riferimento e tanto più questo appare chiaro e puntuale e tanto più può essere in grado di definire con sufficiente certezza ruoli e funzioni, responsabilità ed obiettivi, nonché di prevedere ed evitare fenomeni elusivi di aggiramento delle norme e, quindi, delle finalità che le stesse si prefiggono di conseguire.
Proprio questi paiono i punti dolenti ed i limiti dell’attuale sistema!

In particolare, le critiche del Co.Vi.RI. si sono appuntate sugli aspetti inerenti la separazione dei ruoli, di governo e gestione,  evidenziando una situazione di sostanziale debolezza, istituzionale e tecnica, dei soggetti chiamati ad assolvere le funzioni di governo rispetto a quelli affidatari della gestione, nonché l’emergere di un diffuso quanto dannoso “conflitto di interessi” tra le due posizioni.

Gli Enti locali, in virtù dei compiti loro affidati dalla riforma del 1994, tra cui quello di mantenere il controllo del servizio idrico attraverso la nomina di propri rappresentanti nelle Autorità d’Ambito, hanno finito per assumere tanto la veste di regolatori quanto quella di partecipanti alla gestione del servizio, ricevendo da queste partecipazioni importanti afflussi di risorse per i propri asfittici bilanci.
Si è, così, venuta a creare una confusione, o meglio, una tendenza alla sovrapposizione di ruoli e competenze idonea a configurare un vero e proprio “conflitto di interessi”, che ha rallentato quel processo virtuoso di trasformazione dell’assetto del sistema idrico nazionale, che nelle intenzioni del Legislatore della riforma doveva essere uno dei punti qualificanti del nuovo modello.

Per il Co.Vi.RI  <<L’effetto di questo doppio ruolo dei Comuni e del modo in cui lo hanno interpretato, è stato che “le scelte di governo” del SII sono spesso state dettate o subordinate agli assetti ed agli interessi della gestione, piuttosto che a quelli dei cittadini, delle comunità locali e dell’ambiente>>.
Ciò vuol dire che le esigenze di cassa degli enti locali hanno finito per condizionare, in termini fortemente negativi, le scelte di governo della rete ed in primis quelle sugli investimenti infrastrutturali delle Autorità d’Ambito, con riflessi evidenti sulla qualità dei servizi prestati alla collettività.

Su tale situazione hanno pesato, poi, anche ulteriori aspetti, tra cui il forte deficit di conoscenze e competenze tecniche delle Autorità d’Ambito che ha contribuito ulteriormente ad indebolirne il ruolo rispetto a quello del gestore, con ciò determinando nel funzionamento del SII una vera e propria <<asimmetria di informazione, di conoscenze e competenze fra il committente istituzionale ed il gestore>>. Si è avuto, così, uno spostamento del peso decisionale in favore di quest’ultimo, con il risultato che in molti casi le Autorità d’Ambito non sono riuscite ad esercitare adeguatamente il loro ruolo di governo e cosa ancor più grave che <<le informazioni e le conoscenze su cui si sono formate le decisioni provenivano principalmente, se non esclusivamente, dai gestori, passati, attuali e spesso futuri, con la conseguenza che in parecchi casi le decisioni sono state condizionate, se non “suggerite”, dai gestori stessi, piuttosto che frutto di una autonoma valutazione dei problemi, dei bisogni e delle opportunità che si proponevano>>.

Inoltre, le designazioni delle cariche di governo, effettuate dagli Enti locali, associati nella “forma di cooperazione” prescelta, sono state, quasi sempre, subordinate a logiche di equilibrio politico, ricadendo, molto spesso, su persone prive delle necessarie e basilari competenze tecniche ed amministrative. Ciò ha contribuito non poco a snaturare il carattere ed il ruolo stesso delle Autorità, privandole, molto spesso, di effettiva capacità e forza di intervento.

L’insieme di queste osservazioni descrive una situazione reale ben diversa da quella immaginata e voluta con la riforma del 1994, e con i successivi interventi di modifica, nella quale le Autorità d’Ambito sembrano svuotate di reali e concrete funzioni ed attribuzioni, per apparire, solo formalmente, titolari di compiti di vigilanza, regolazione e pianificazione strategica del sistema. E’ sufficiente pensare che i componenti delle Autorità d’Ambito, alle quali spettano le funzioni di governo e vigilanza, vengono nominati dagli enti locali, a loro volta azionisti delle società di gestione del servizio idrico integrato.

Questo stato di cose, che ha riflessi molto concreti e diretti sulla vita delle persone, delle aziende e quindi sull’intero sistema-paese, è stato agevolato da scelte legislative incomplete che hanno permesso, ad esempio, un massiccio ricorso alle procedure di affidamento in house. I riflessi sulle Tariffe, estremamente disomogenee, anche indipendentemente dalla qualità del servizio erogato, e la drastica  riduzione delle risorse destinate agli investimenti, devono suonare come campanelli d’allarme sulla effettiva  propensione dell’attuale assetto di governo del SII a promuovere sviluppo piuttosto che a sfruttare rendite di posizione acquisite.
Proprio questa metodologia di affidamento e gestione del servizio, divenuta prevalente, ha favorito il sorgere di un innaturale intreccio di ruoli tra controllore e controllato, tra regolatore e gestore, che ha frenato lo slancio riformatore del ‘94, rispetto alla direzione auspicata di una piena liberalizzazione ed industrializzazione del settore.

Infatti, benché prevista ed introdotta come forma di affidamento residuale ed eccezionale, nei casi in cui gli enti pubblici titolari del capitale sociale si trovino ad esercitare un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi ed a condizione che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano, oltre a trovare riscontro in “obiettive ragioni tecniche od economiche”, è divenuta, in breve, vero e proprio strumento di gestione ordinaria del Servizio Idrico Integrato.

Alcuni dati forniti possono aiutare a comprendere meglio le dimensioni del fenomeno: gli ATO previsti a livello nazionale sono 92, di questi ben 67 hanno effettuato l’affidamento del SII a 106 soggetti gestori, i quali sono stati individuati nel seguente modo:

a)    5 mediante affidamento con gara a privati;
b)    31 con affidamento in favore di società a capitale misto, sia con partner selezionato mediante procedura ad evidenza pubblica (n.15) che con socio quotato in borsa (n.16);
c)    64 a società interamente pubbliche;
d)    6 con altre tipologie non pienamente in linea con le forme previste dall’art.113 del Dlgs 267/00.

Da ciò emerge che in ben il 60% dei casi si è proceduto ad affidamento diretto in favore di società pubblica con la formula dell’in house.

Secondo quanto si apprende dal Co.Vi.RI l’in house è stato, negli anni, sempre più frequentemente utilizzato <<per perpetuare le precedenti forme della gestione del servizio idrico e, comunque, per preservare il potere di controllo degli enti locali…in casi in cui esistevano società per azioni aventi causa da preesistenti aziende speciali, queste sono state talvolta trasformate nei soggetti destinatari dell’affidamento del servizio secondo la forma dell’in house, oppure è stata creata una società contenitore i cui soci sono ex aziende speciali o enti locali>>.

Il frequente ricorso a tale forma di affidamento ha, tra l’altro, sollevato perplessità anche nelle istituzioni comunitarie, specie per quanto attiene alla tutela della libera concorrenza, che l’UE considera minacciata dalla eccessiva disinvoltura con la quale l’in house viene adottato in taluni settori e mercati.
Gli stessi giudici comunitari, in più occasioni, hanno richiamato al rispetto dei requisiti e delle condizioni che giustificano il ricorso all’in house.

L’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici non ha mancato di prendere posizione sul tema. Nella propria Relazione Annuale al Parlamento per il 2007, dando conto dei risultati dell’indagine conoscitiva condotta sul settore idrico nazionale, ha affermato, impietosamente, che le principali criticità determinate dal sistema vigente sono da individuare, tra le altre, nella <<sovrapposizione delle competenze di indirizzo e controllo con quelle della gestione con evidente contrapposizione di interessi; nel diffuso affidamento del servizio a società “in house”, a società miste con soci privati individuati senza procedura di gara o ancor peggio con affidamenti diretti o a trattativa privata>>.

L’Autorità si è, poi, soffermata su alcuni aspetti particolarmente significativi dell’attuale sistema ed è entrata nel merito delle questioni reali: <<Nella sostanza, alla data del 30 ottobre 2007 solo il 47% degli ATO ha provveduto alla realizzazione del servizio idrico integrato così come previsto dalla normativa emanata nel 1994. Difficoltà di tipo culturale e tecnico-organizzativo, la prevalenza di logiche campanilistiche ereditate dal passato, nonché le difficoltà legate agli affidamenti in-house in relazione alle sentenze della Corte di Giustizia europea, hanno fatto si che l’azione riformatrice prefigurata dal legislatore, ed in particolare la netta distinzione del momento di indirizzo e controllo (proprio del soggetto pubblico) da quello della gestione (proprio del soggetto affidatario), non sia sta sostanzialmente realizzata neanche negli ATO in cui si è proceduto agli affidamenti del servizio….E’ altrettanto evidente come l’ingresso di nuovi imprenditori nel settore sia stato solo marginale. Ne risulta un panorama di operatori certamente ridotto, ma costituito da imprese legate ad assetti proprietari pubblici e ad un dimensionamento, al più interregionale, afflitto da un macroscopico nanismo se il confronto si sposta ai competitori internazionali>>.

Le disfunzioni del sistema idrico nazionale, caratterizzato da opere incompiute ed acquedotti fatiscenti si riflettono oltre che sulla qualità dei servizi erogati, tra l’altro estremamente disomogenea tra le varie aree del Paese, anche sull’osservanza ed applicazione delle norme di legge. Per queste ragioni, come rilevato opportunamente dallo stesso Comitato di vigilanza sulla rete, la determinazione dei livelli di servizio non dovrebbe essere affidata esclusivamente alle Autorità d’Ambito e, quindi, confinata in ambito locale ma <<dovrebbe avvenire a partire da livelli minimi garantiti e secondo regole e parametri fissati a livello regionale e nazionale>>.

All’accentuazione della gravità e del numero delle emergenze del servizio idrico ha corrisposto, infatti, un  significativo incremento delle deroghe alla normativa sui contratti pubblici.
Per queste ragioni, l’Autorità di Vigilanza sui contratti ha, conclusivamente, affermato che <<Se l’impianto normativo …appare coerente e funzionale, è invece certo che la sua attuazione, a 14 anni dalla emanazione della L.36/1994, è ancora in fase di realizzazione>>.

Tuttavia, non sembra che le osservazioni ed i rilievi mossi dagli organismi di vigilanza stiano trovando puntuale accoglimento da parte di Governo e Legislatore, come testimoniato dalle nuove norme sui servizi pubblici locali di rilevanza economica (art.23-bis), contenute nel DL n.112, del 25 giugno 2008, convertito nella L.133 del 6 agosto 2008.

Le disposizioni introdotte hanno subito, tra l’altro, durante l’intero l’iter parlamentare, variazioni importanti, a riprova dei grandi e molteplici interessi che gravano sulla materia, specie per quel che riguarda gli aspetti inerenti le modalità di affidamento. Il Legislatore ha scelto dapprima un indirizzo fortemente derogatorio delle modalità di affidamento ordinario, per poi ripiegare su una formulazione più cauta, ma certamente non del tutto soddisfacente.

Inizialmente, il testo dell’art. 23-bis, comma 3, recitava  <<In deroga alle modalità di affidamento ordinario…per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire in favore di:
a.    società a capitale interamente pubblico, partecipate dall’ente locale, che abbiano i requisiti prescritti dall’ordinamento comunitario per la gestione dell’in house;
b.    società a partecipazione mista pubblica e privata, anche quotate in mercati regolamentati, partecipate dall’ente locale, a condizione che il socio privato sia scelto mediante procedure ad evidenza pubblica, nelle quali siano già stabilite le condizioni, le modalità e la durata della gestione del servizio e le modalità di liquidazione del socio al momento della scadenza dell’affidamento del servizio>>.

La disposizione così congegnata attribuiva agli enti locali ampie discrezionalità nel derogare le norme nazionali e comunitarie sulle procedure competitive ad evidenza pubblica, favorendo ulteriormente il ricorso all’affidamento in house ovvero all’attribuzione a società miste, con il solo espletamento, in questo secondo caso, della gara per la scelta del partner privato.

Un orientamento in evidente ed aperto contrasto proprio con le osservazioni formulate dall’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici e dal Co.Vi.RI, per i quali, al contrario, il superamento delle criticità non può prescindere da un ridimensionamento dell’in house e del partenariato pubblico/privato, quali strumenti non “ordinari” di gestione dei servizi pubblici locali.

Nel corso dell’iter il Legislatore ha mostrato segni di “ravvedimento” che hanno portato ad riformulazione della norma tale da prevedere che, laddove non sia possibile procedere ad un utile ed efficace ricorso al mercato, l’affidamento possa avvenire <<… nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria>>.
In buona sostanza, una vasta gamma di ragioni economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche potranno consentire agli enti affidanti di scegliere soluzioni alternative all’evidenza pubblica nella individuazione del soggetto gestore del servizio.

Non sembra, dunque, che l’intervento legislativo in commento possa ritenersi risolutivo delle problematiche esposte, sebbene il comma 10, del medesimo articolo 23-bis, contenga una delega al Governo ad intervenire per:
lett.c)  << prevedere una netta distinzione tra le funzioni di regolazione e le funzioni di gestione dei servizi pubblici locali, anche attraverso la revisione della disciplina sulle incompatibilità>>;
lett.d) <<armonizzare la nuova disciplina e quella di settore applicabile ai diversi servizi pubblici locali, individuando le norme applicabili in via generale per l’affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas, nonché in materia di acqua>>.

L’auspicio, a questo punto, non può che essere quello di un rapido ritorno ai principi ispiratori della Legge Galli, al rispetto della distinzione e separazione delle competenze tra i diversi soggetti coinvolti, quale presupposto indefettibile per una lineare e corretta gestione del business.
Occorre valutare con attenzione la posizione delle Autorità di Vigilanza, affinché alle attribuzioni loro conferite corrispondano poteri effettivi idonei a consentire un reale e pieno esercizio dei compiti istituzionali.
La commistione di ruoli tra chi è preposto alle funzioni di controllo e chi invece deve operare per lo sviluppo e la crescita del business, come ampiamente dimostrato in ogni segmento della vita economica, non è mai foriera di apporti benefici, finendo sempre per tradursi in un vantaggio per pochi ed in un danno per molti!