Una nuova economia per il diritto. Alcune riflessioni sulla legge

I temi con cui questa Rivista si affaccia al mondo – una nuova economia per il diritto ed un nuovo diritto per l’economia – ruotano intorno a due autentici universi, irti di problemi e domande senza risposta. Carica di incertezze esistenziali è specialmente la parola “diritto”: che cosa significa questo termine, questa espressione? Difficilissimo dirlo; Kant quasi rideva dei giuristi che non sapevano neppure definire l’oggetto di cui si occupano. Ben consapevoli di questo, con la parola “diritto” noi qui intenderemo semplicemente l’ordine razionale dei rapporti umani, che nell’economia ha il suo primo fondamento. Ci occuperemo quindi di alcuni strumenti da cui tale ordine nasce o, più precisamente, che vorrebbero crearlo e indirizzarlo. Il diritto ha infatti una pluralità di “fonti”, come con grande eleganza si dice. Regina tra tutte è la consuetudine – l’uso ripetuto ed abituale di comportamenti essenzialmente simbolici, che li trasforma in regola dal cui rispetto discendono conseguenze certe e accettate da tutti. Sarebbe molto bello cercarne le tracce nella vorticosa società in cui viviamo: si pensi ad es. alla c.d. lex mercatoria, di cui tanto si parla. Ma “non fur da ciò le proprie penne”, come dice il Poeta. Ci si deve fermare a livelli più limitati e modesti. Nelle pagine che seguono, dedicheremo così alcune riflessioni ad uno dei più diffusi ed usuali strumenti da cui dovrebbe nascere il diritto – in realtà lo strumento di elezione per questo processo. Si tratta della legge.

1. Che cosa sia la legge è a tutti noto. Al di là degli auspici e dell’enfasi che ne hanno accompagnato l’affermarsi nei nostri sistemi costituzionali (la si è detta, ad es., atto che esprime la volontà generale, la quale quindi, quasi per sua natura, deve essere generale ed astratta; dunque “uguale per tutti”), l’unica cosa certa è che si tratta di un forte atto di volontà politica, vincolante per tutti, pressoché insindacabile nei suoi contenuti: “fonte del diritto”, appunto.  Per la sua formazione sono dettate solo poche disposizioni nella Costituzione e nei regolamenti parlamentari; salvo che per l’approvazione, la loro violazione è per altro irrilevante per la sua efficacia. Non occorre ricordare che addirittura più volte le leggi sono state approvate con il voto di fiducia al governo. Nessuna norma ne disciplina la razionalità e la stessa leggibilità. Per convincersene, basta scorrere una qualunque legge finanziaria degli ultimi anni: sono costituite tutte da un paio di articoli, articolati in oltre 1000 commi. Riguardano ogni possibile argomento, senza alcun ordine. Sembra che in Italia solo una manciata di persone ne conosca l’intero contenuto. Di tutto ciò si possono dire tante cose, ma non è il momento di farlo.

Rileva qui un altro punto. Un atto di volontà, “fonte del diritto”, deve per definizione farlo sgorgare da sé: deve cioè mirare ad incidere in un dato ordine di rapporti umani, per modificarlo secondo la volontà che lo ispira. Deve mirare a creare diritto, un diritto diverso: esserne fonte, appunto. E questo è uno snodo complessissimo. Come può un atto di volontà, in quanto tale, modificare una realtà – appunto un assetto ordinato di rapporti umani?

2. L’ esperienza del diritto civile offre un grande insegnamento. L’atto regolatore per eccellenza, il contratto, non esaurisce la creazione del nuovo ordine dei rapporti. Come ictu oculi appare, al contratto deve seguire una complessa attività materiale, attraverso la quale soltanto si realizza l’ordine dei rapporti voluto dalle parti. Il fenomeno prende il nome, straordinariamente significativo, di “adempimento”. È tanto significativo, perché è improprio: l’adempimento è per sua natura proprio delle obbligazioni, che possono avere un’origine qualsiasi, dal fatto illecito alla legge, dalla successione al contratto. Non a caso nel codice civile italiano si dice che il contratto è una delle fonti dell’obbligazione; e nel Libro IV, dedicato alle obbligazioni, sono compresi anche i contratti – dopo la disciplina delle obbligazioni, come spetta ad un fenomeno di specie rispetto al genere. E non a caso anche per la violazione del contratto torna l’adempimento in negativo, l’in-adempimento, che riassume così la sua non-esecuzione, la non-ottemperanza ad esso. Pagato il prezzo, realizzata l’opera o consegnato il bene, il circolo si chiude. Un altro ordine si è definito, esattamente come, ad onta del contratto, quest’ordine non c’è se il prezzo non è stato pagato o il bene è rimasto presso il venditore.

È facile immaginare l’obiezione: è vero che la realizzazione dell’ordine voluto dalle parti dipende dal loro adempimento; ma proprio per l’ipotesi che questo non accada spontaneamente c’è un giudice che si può adire. Sennonché in questo modo il processo di creazione del nuovo ordine si allarga e si complica in maniera terribile: poiché le parti non hanno saputo “volere” fino in fondo, vale a dire, creare il loro nuovo diritto (il nuovo ordine dei loro rapporti), una struttura più vasta, terza e indifferente, può essere adita, affinché da essa scaturisca il diritto, anche quando è fallita la volontà delle parti. Noi siamo abituati a questo, e consideriamo perfettamente fisiologico il ricorso al giudice e, prima ancora, l’esistenza stessa sua e di un apparato che lo ingloba e lo mette a disposizione di chi non è riuscito a creare l’ordine dei rapporti da lui voluto. Merita però ricordare che in tutto ciò non vi è nulla di essenziale. Per quanto se ne sa, ad es., in Giappone per le parti è umiliante non essere riuscite a comporre la loro lite. Anziché ricorrere al giudice, preferiscono valersi di avvocati mediatori e compositori. Il suo ruolo, da noi così centrale, sembra essere lì marginale.

Una corretta lettura del fenomeno impone dunque di dire che il processo di creazione del diritto – dell’ordine dei rapporti disegnato dal contratto – può anche svolgersi di fronte ad un giudice. Questo non è però il proprium della vicenda, per l’insuperabile ragione che al giudice si giunge solo al ricorrere di due condizioni. La prima, ovvia, è che una parte del contratto (il creditore di una prestazione) deve ritenersi insoddisfatta dell’adempimento dell’altra: deve ritenere cioè che l’ordine dei rapporti voluto non si sia realizzato. La seconda è che questa parte insoddisfatta unilateralmente decida di ricorrere al giudice. Anche questo sembra ovvio, ed in un certo senso lo è. Ma in realtà, rispetto al contratto ed all’attuazione dell’ordine con esso disegnato, la decisione di adire il giudice è eversiva. Significa infatti che, ritenendo non “naturalmente” realizzato l’ordine definito con il contratto, si chiede che un terzo sostituisca il suo comando alla riottosa volontà della controparte – ovvero, che questo terzo d’autorità concreti l’ordine mancato dei rapporti. Nel linguaggio corrente, che “faccia giustizia” e così facendo (ri)stabilisca il diritto.

3. Nel diritto civile, dunque, il nuovo assetto dei rapporti umani voluto con il contratto non sorge, non diventa nuovo ordine, nuovo diritto, se esso non è concretamente voluto al di là del contratto, se cioè non vengono volontariamente adempiute le obbligazioni che ciascuna delle parti si è assunta. Se questo accade e le parti restano reciprocamente inadempienti, si può giungere al paradosso della consensuale disapplicazione del contratto e quindi al mantenimento dell’ordine precedente. Il contratto, come icasticamente si dice, resta lettera morta. L’ordine nasce insomma dalla volontà di crearlo.

4. In realtà queste conclusioni devono essere generalizzate. Al di là del contratto, sembra infatti certo che nessun atto di volontà, né legge, né testamento, né qualsivoglia altro strumento unilaterale o negoziale, possa modificare ex se vuoi l’ordine dei rapporti, vuoi i comportamenti umani. Nessun atto di volontà crea ex se diritto. Pone soltanto le regole, secondo cui i rapporti dovranno ordinarsi ed i comportamenti svolgersi. Si pensi da un lato al testamento e dall’altro al limite di velocità o al divieto di sosta. Perché il testamento si traduca in ordine dei rapporti c’è addirittura la necessità pregiudiziale che la successione venga accettata; occorre poi che gli eredi ed i legatari si accordino sull’ esecuzione del testamento. Allo stesso modo, perché il precetto sul limite di velocità o sul divieto di sosta divenga ordine concreto occorre che i guidatori rallentino fino a rispettare il limite prescritto, esattamente come nessuno deve fermarsi, dove è imposto il divieto.

Anche qui l’ovvia obiezione è che il rispetto della volontà testamentaria può essere invocato di fronte ad un giudice e che per le violazioni delle norme sul traffico ci sono fior di sanzioni. Ma, di nuovo, così facendo si introducono elementi totalmente estranei al testamento o alla disciplina dettata per regolare il traffico. Si porta l’attenzione sul dissenso e sulla violazione della regola, evitando la domanda cruciale: perché il testamento, la prescrizione sul traffico, la norma, insomma, non sono stati rispettati? Perché, fonti del diritto come sono, non sono divenuti ordine dei rapporti e dei comportamenti che volevano ordinare – diritto, insomma? Perché, quindi, è necessario pensare ad un giudice e ad un sistema di sanzioni per conseguire questo risultato in un momento successivo?

5. La risposta a questo interrogativo è univoca e coerente con quanto si osservava a proposito del contratto. Essa è che la traduzione di qualunque norma da precetto in diritto – in ordine dei rapporti e dei comportamenti – richiede un contributo esterno alla norma stessa. Come accade per il contratto, così dalla legge ed in genere da qualunque atto regolatore nascono obbligazioni o altri vincoli personali, strumentali per raggiungere l’assetto voluto da tali atti. L’esistenza del diritto dipende dall’adempimento di queste obbligazioni e solo da esso. La norma sul limite di velocità diviene diritto se – e quando – gli n conducenti si adeguano, rispettando il vincolo personale che la legge pone in capo a ciascuno, né più né meno di come viene rispettato il contratto se i venditori vendono macchine nuove e non macchine usate come nuove. Così, e solo così, i rapporti si ordinano secondo una regola – dunque, secondo diritto.

Merita osservare che nella massima parte dei casi la legge non crea rapporti reciproci di credito e debito, per cui ogni parte ha interesse ad adempiere, per avere l’ adempimento dell’altra: al contrario essa configura assetti che, con qualche approssimazione, potrebbero essere equiparati ad una imposizione unilaterale di obbligazioni di fare, non fare o fare in un dato modo. A favore del rispetto della norma non opera dunque il gioco degli interessi, come nel contratto. Essa dovrebbe venir rispettata il solo fatto che esiste e che qualcuno, per una ragione qualsiasi, ne divenga “destinatario”. Perché la legge si traduca in diritto si richiede insomma che, pur nell’assenza di un rapporto di credito-debito in capo ai singoli – e quindi di un loro concreto interesse –, essi si comportino in conformità ai suoi precetti.

Il paradosso è che questo avviene, certo non sempre, ma in misura altrettanto certamente significativa.
E di qui il problema dal quale si deve procedere per affrontare quello cui queste note sono dedicate, di che cosa significhi il fatto che, a volte sempre, a volte in molti casi, la legge venga rispettata e quindi tradotta in diritto, e che a volte questo mai accada. Che cosa ne è della legge?

6. È superfluo dire che in una società complessa, tendenzialmente senza confini, come quella dei tempi in cui viviamo, il solo proporre questo problema – che cosa significhi il fatto che una legge venga o non venga spontaneamente osservata – dà ingresso ad infinite discussioni, fino a negare che il problema stesso esista. La ragione è semplice: tutta la nostra storia recente ha posto il giudice al centro dell’esperienza giuridica. Sia esso il giudice statale o il giudice privato, si ritiene che dalla sua decisione dipende il formarsi del diritto. La sua mediazione è essenziale. Le parti non si mettevano d’accordo, si dice; hanno fatto ricorso al giudice che, decidendo la causa, per loro ha voluto; così il diritto è affermato.

Ma, come già si è accennato,  così il problema viene spostato, non risolto: quale è il significato di questa accettazione del giudice e della sua pronuncia? perché le parti hanno accettato l’uno e l’altra? La stessa domanda ci si deve porre per il caso in un certo senso inverso: che cosa significa il fatto che spesso, indubbiamente non sempre, una sentenza venga impugnata? e che, dopo la sua conferma e addirittura riconferma, spesso venga ancora resistita in sede di esecuzione? È pacifico che il codice di procedura civile preveda tanto le impugnazioni quanto le procedure formali per l’esecuzione; ma è altrettanto vero è che i mezzi di impugnazione e le opposizioni all’esecuzione (o, addirittura, agli atti esecutivi) non sono come le pietanze di un menu al ristorante, tra cui si può scegliere a piacere: sono strumenti di guerra, legale fin che si vuole, ma guerra, che, in certi casi, viene condotta fino allo stremo delle forze.
Al di là di tutte le considerazioni di ordine filosofico, sociologico, di psicologia politica e sociale che si possono fare, un punto sembra certo. Fallito il tentativo di realizzare spontaneamente l’ordine prefigurato nel contratto, si ammette che possa essere invocato l’intervento di un terzo. Il percorso non tanto è condiviso (questo accade per l’ arbitrato), quanto fa parte del “tessuto sociale” per usare una formula tanto comoda quanto equivoca. “Cerchiamo insomma di non litigare; se mai andremo davanti al giudice”: questo è il dialogo tra le parti che non occorre immaginare, perché spesso lo si sente.

Il nocciolo della questione è dunque che se le parti dissentono sull’esecuzione del contratto e su quale debba essere il loro assetto ordinato di rapporti – il loro diritto comune –, esse a priori tacitamente concordano sul fatto che tale realizzazione non passi attraverso la guerra, ma la mediazione di un terzo, il “giudice”; vogliono che l’ordine dei loro rapporti nasca non solo dall’esecuzione che ciascuna darà alle proprie obbligazioni, ma, eventualmente, anche da quanto deciderà chi dovesse essere chiamato ad “interpretare” il contratto e dire quali sono le sue “vere” regole. Come è palese, questo è ben altro che puro diritto civile; è qualche cosa che investe la struttura stessa della società e l’ appartenere ad essa. È tanto forte nella sua vis atractiva da prevalere sulle disfunzioni di cui tutti, ogni giorno parlano, in tutte le sedi.

Se poi si considera l’arbitrato, il discorso è ancor più evidente. Nonostante una certa diffidenza che l’istituto si è guadagnato negli ultimi anni, all’arbitrato si continua a ricorre con una pattuizione ad hoc quando si condivide l’idea che per definire l’ordine in concreto sia necessaria una valutazione dei rapporti resa da persone di fiducia delle parti. Qui è chiarissimo che le parti hanno concordato ex ante sulla possibilità di non riuscire a realizzare un assetto soddisfacente dei loro rapporti – il loro diritto –; di nuovo hanno concordato di rinunciare alla guerra e di adire un giudice privato per ciò che si denomina la risoluzione della controversia, ma in realtà è la ricerca dell’ordine non raggiunto.

7. A nostro avviso, la ragione per cui tutto ciò accade ha un fondamento antico e preciso. È la consuetudine. È la certezza che nel sistema esiste un “elemento”, una “componente”, una “forza” (nessuna definizione sembra possibile), capace di prevalere sulla effimera volontà dei singoli e quindi di creare l’ordine non raggiunto. Volenti o nolenti, le parti con le loro divergenti volontà arretrano di fronte al giudice. Non lo fanno perché c’è un art. 24 della Costituzione o perché c’è un codice di procedura civile, ma perché entrambe sanno di antico sapere che ci sono gli uffici giudiziari ed entrambe confidano nel loro buon funzionamento, anche se l’esperienza insegna che non è proprio vero. In parole più semplici e nette, le parti vivono il loro contrasto secondo una consuetudine della comunità cui appartengono e secondo tale consuetudine lo vogliono risolvere.

Per questo, ad un certo punto i giudizi si chiudono. E per questo chi, nel tentativo di far prevalere comunque il proprio interesse, pervicacemente insiste nello sfruttare ogni piega delle norme di diritto positivo per resistere e non adeguarsi alla decisione di un giudice, si vale sì di strumenti processuali esistenti, ma è in realtà un anarchico: pretende infatti di sottrarsi ad una fondamentale regola non scritta su cui si fondano la convivenza dei cittadini e l’esistenza stessa della comunità. Nel profondo, nega la propria appartenenza alla comunità, che vuole soltanto sfruttare.

Come, dunque, la concorde volontà di eseguire le obbligazioni nascenti dal contratto consente che si realizzi l’ordine da esso disegnato, così la consuetudine vuole che l’ ordine si realizzi anche nel caso di dissenso: la comune appartenenza delle parti alla comunità rende naturale, accettato, condiviso, il ricorso al giudice. L’ordine dei rapporti – il diritto – discende insomma dal contratto grazie alla volontà delle parti di realizzarlo o agli strumenti alternativi non fondati sulla forza che la consuetudine vuole si attivino.

8. Si può così tornare al tema da cui si sono prese le mosse: che cosa conduce ad osservare la legge e a tradurla in diritto? Sembra a noi che le riflessioni fin qui svolte possano condurre ad alcune considerazioni ulteriori.

La prima è certamente che si deve fare chiarezza su un punto pregiudiziale e sostanziale al tempo stesso. Quando si parla di “legge” e della sua esecuzione non si può fare riferimento alla legge come istituto generale, come cioè all’indistinto frutto della “funzione legislativa, esercitata collettivamente dalle due camere”, secondo le parole dell’art. 70 della nostra Costituzione. Legge è tanto l’atto, nato dall’esercizio della funzione legislativa da parte delle camere, con cui si approva il bilancio, quanto quello che ratifica un trattato internazionale o disciplina la cittadinanza o qualunque altra cosa. Per il discorso che si va facendo, le leggi devono essere considerate nella loro individualità, se così si può dire, in quanto cioè mirano a dettare uno specifico ordine nella comunità, disciplinando comportamenti concreti: per fare un esempio banale, quelle che disciplinano l’attività edificatoria e tutelano il patrimonio artistico – o pongono limiti di velocità. Straordinario rilievo hanno naturalmente le leggi penali: con esse infatti si vogliono ottenere certi comportamenti virtuosi prevedendo di punire con pene di ogni genere i comportamenti opposti.

La seconda considerazione deriva in un certo senso dalla prima. Non si può mai parlare genericamente di legge, neppure con riguardo a quelle che mirano a disciplinare comportamenti concreti. Ogni legge va vista nella sua specificità, nei risultati cui mira in un dato contesto normativo e di fatto. In relazione a questi n quadri di riferimento – a ciascuno di essi ed ai suoi protagonisti – si pone il problema di come la legge si trasformi in diritto, da regola di comportamento in comportamento regolato. Questo accade, si può ben dire, solo se si è radicato il convincimento che non si può vivere associati se una legge, due leggi, n leggi – per ciascuno le sue – non vengono osservate. Il modello ideale è l’anonimo cittadino tedesco che nel 1943 aveva disperatamente cercato l’ufficio postale presso cui pagare l’abbonamento alla radio, incapace di rassegnarsi al fatto che i bombardamenti lo avessero reso inadempiente di un’obbligazione che riteneva fondamentale.

La terza considerazione è che, da questo momento ideale (e logico) in poi, ogni riflessione deve essere empirica: deve cioè avere ben chiaro il risultato da perseguire, e studiare in concreto quali sono gli strumenti per perseguirlo di volta in volta. Merita riflettere brevemente su un paio di casi. Il primo è un esperimento fallito solo perché abbandonato. Qualche anno fa vennero concesse detrazioni fiscali a chi faceva lavori di manutenzione a casa propria, a qualunque titolo detenuta. Ad onta delle complesse procedure prescritte (previa comunicazione ad un certo ufficio, pagamento solo mediante bonifici, etc.), l’adesione fu vastissima. È pacifico che lo Stato abbia riscosso un po’ meno per Irpef e simili dai proprietari. Ma chi ha mai dedicato un minuto a pensare all’entità delle prestazioni pagate in nero che così erano venute alla luce e che alla luce sarebbero rimaste? Con tutto il rispetto per non sappiamo chi, una tipica miopia ha impedito che, grazie ad un beneficio personale, si instaurasse una consuetudine benefica.

Il secondo esempio riguarda i limiti di velocità. Tutti sanno che per alcuni anni si è giocato alla trappola: autovelox nascosti nei luoghi più strani, pronti a colpire qualunque infrazione. L’effetto fu straordinario: solidarietà degli automobilisti che si segnalavano reciprocamente l’appostamento; fiorire di qualche piccola industria che costruiva rivelatori degli autovelox; gara continua tra guidatori che cercavano di sfuggire ai controlli per correre quanto volevano e vigili, agenti, guardie di ogni genere. Guardie e ladri, è il caso di dire. Il risultato fu nullo. Ad un certo punto a qualcuno venne in mente di giocare di anticipo e di rendere pubblica la posizione degli autovelox; dopo un primo sgomento ed un  tentativo di procedere a singhiozzo la grande maggioranza dei conducenti si adeguò. Poco dopo ancora a qualcun altro venne in mente di introdurre un controllo elettronico sul percorso – sulla velocità media e non istantanea; sembra che il numero dei morti per incidenti dovuti all’eccesso di velocità sia dimezzato nel giro di meno di un anno.

9. La fiaba insegna dunque, come avrebbe detto Esopo, che gli atti di volontà, legge inclusa, nulla sono in sé sul piano del reale. Guidano ad esso. I privati fanno e devono fare quello che vogliono. Ma il legislatore di cui qui ci occupiamo ha un compito preciso. Non basta che faccia una legge. Quando decide di adottare un simile atto di volontà politica, deve pensare e ripensare agli strumenti che la devono accompagnare perché non resti flatus vocis e si perda per strada. In un certo senso, la vera lotta, la lotta per il diritto di Jehring, comincia allora: attraversata la fase dell’astratta formulazione di un progetto in termini di legge, ci deve misurare con il concreto, per far radicare la legge nella società ed elevarla al rango di consuetudine. Come? Con quali strumenti? Lo si può dire solo di volta in volta; bisogna chiederselo sempre.

In sintesi, si può forse dire che la traduzione della legge in diritto è un processo storico fondamentale, che racchiude in sé l’essenza del politico. Se ne sono visti i passi: deve formarsi l’atto di volontà, che si esprime con la norma; devono poi maturare ed esprimersi le forze che conducono all’adesione alla norma e quindi alla sua trasformazione in consuetudine. L’essenza del politico sta in ciò, che solo in questo modo si raggiunge lo scopo avuto di mira pensando la legge, mutare e migliorare l’ordine della società.
Poiché chi collabora a questa Rivista alberga nel cuore e nella mente amore e rispetto per il diritto, si cercherà sempre di dare un contributo in questa direzione. Perché la legge divenga diritto.