Riflessioni sulla crisi

Se è difficile individuare cause specifiche delle turbolenze recenti sui mercati finanziari, si possono indicare alcuni fattori che hanno contribuito alla loro gravità: fra questi, politiche monetarie accomodanti; ricerca, da parte degli investitori, di più alti rendimenti (search for yield); ampio utilizzo dell’innovazione finanziaria; opacità e squilibri nei bilanci degli intermediari. Dalla crisi provengono poi spunti di riflessione, ad esempio sulla struttura della vigilanza bancaria e finanziaria e sull’operatività delle banche. Conviene soffermarsi su ciascuno di questi aspetti.

Per parecchi anni, in specie dopo gli eventi del 2000-2001, i tassi d’interesse sono stati tenuti a livelli assai contenuti, in particolare negli Stati Uniti, e la liquidità è stata molto abbondante.

Di fronte a rendimenti bassi, per il motivo appena detto, sulle attività finanziarie più sicure, e all’ampia liquidità disponibile, gli investitori si sono diretti verso attività più rischiose, dal punto di vista sia geografico (mercati emergenti), sia dei prodotti finanziari, sia degli emittenti, nell’attesa di più elevati rendimenti. Si è di conseguenza alzato il prezzo di queste attività e lo spread rispetto a quelle più sicure s’è considerevolmente ridotto. I rendimenti, così ridotti, non hanno più riflesso in molti casi il grado effettivo di rischio, né le agenzie di rating, attribuendo un alto rating a tali prodotti, hanno cautelato gli investitori da tale dissociazione tra rischio e rendimento (stupisce però che investitori istituzionali guardino in modo apparentemente acritico a tali valutazioni). Una elevata correlazione si è stabilita tra i prezzi di attività diverse, determinando bassi premi al rischio, nonostante quest’ultimo fosse, sui vari assets, diverso. Un fenomeno, questo, ampiamente sottolineato in anticipo, con toni preoccupati, dalle autorità di  vigilanza del Regno Unito, Bank of England e FSA, nei loro reports sulla stabilità finanziaria, in seminari e interventi di loro esponenti.

L’erogazione di credito a bassi tassi di interesse, nel contesto suddetto, ha riguardato anche l’attività bancaria al dettaglio, in particolare il settore dei mutui ipotecari, soprattutto, ma non solo, nei paesi anglosassoni. Essa si è associata a un elevato indebitamento delle famiglie e a bolle speculative (anche se questo termine è controverso) nel settore immobiliare. In questo settore, particolarmente nei paesi anglo-sassoni, si è accesa la spia della turbolenza in connessione con la risalita dei tassi, con palesi difficoltà nel servire i prestiti contratti e sgonfiamento, attuale o atteso, dei valori immobiliari. Ma il calo di valore di questi crediti e, come subito si vedrà, dei titoli ad essi collegati, è  in effetti comune a tutte quelle attività finanziarie caratterizzate, per i motivi già detti, da un underpricing of risk.
Rinvenire nella crisi dei sub-prime mortgages la causa delle recenti turbolenze è come indicare in Sarajevo la causa della prima guerra mondiale.

L’estrema difficoltà di individuare le dimensioni del repricing, della crisi cioè, deriva principalmente dal massiccio uso dell’innovazione finanziaria, che – con ampio utilizzo dei derivati e della titolarizzazione, anche dei suddetti mutui – ha comportato trasferimenti del rischio (di tasso, e soprattutto di credito) fra diversi operatori, banche e non-banche. Infatti, a quale prezzo tali trasferimenti siano avvenuti, e per quali importi, è arduo precisarlo. Le transazioni avvengono al di fuori dei mercati regolamentati, il pricing di tali strumenti è difficile e opinabile soprattutto per la scarsa liquidità di queste attività, il loro reporting, pubblico o alle autorità, è scarso o inesistente. Le informazioni di quest’ultime sull’entità del risk transfer e sull’allocazione finale del rischio sono aneddotiche, non sistematiche e si basano principalmente su rilevazioni delle banche vigilate esposte nel settore e sulla cosiddetta market intelligence, colloqui spesso informali con gli operatori.

Il trasferimento del rischio di credito, attraverso strumenti quali i derivati e operatori che agiscono non in copertura ma speculativi quali gli hedge funds, contribuisce all’efficienza dei mercati e provoca una sua più’ ampia distribuzione presso operatori che hanno capacità e appetito per assumere il rischio stesso. E invero, ad esempio, in assenza di tale trasferimento le conseguenze della crisi sui mortgage lenders, e forse sull’intero sistema bancario americano, sarebbero state, forse, ancor più pesanti. Tuttavia, la accresciuta possibilità di originare e poi distribuire il rischio ha probabilmente indotto i lenders a criteri più rilassati nella valutazione del rischio (moral hazard). Di conseguenza, il rischio non solo si è più ampiamente distribuito, ma è anche, nel complesso, cresciuto. Inoltre, la stessa idea che esso approdasse spesso presso non-banche, meno suscettibili di generare pericoli di stabilità sistemica, e meglio in grado di assorbirlo, ha mostrato limiti quando questi operatori hanno subito perdite rilevanti.

Sono conseguite infatti svendite dei titoli più facilmente liquidabili (donde, i cali di borsa, che, almeno all’inizio della crisi, sono apparsi più un by-product della turbolenza, che generati da difficoltà contestuali dell’economia reale), e una necessaria maggior attenzione verso le esposizioni bancarie nel settore. Inoltre, il generale calo delle attività finanziarie, riallineatesi al rischio, ha portato alla quasi paralisi del mercato dei prestiti interbancari, nel timore di insolvenza della controparte. L’illiquidità non è assoluta: denaro (più denaro) affluisce verso le attività sicure, come titoli di Stato. Ma se la liquidità difetta dove serve, una banca illiquida diventa potenzialmente una banca insolvente, nonostante la bontà del suo portafoglio prestiti: un portafoglio di mutui sul quale il costo del funding viene a eccedere il rendimento dei mutui stessi rende l’intermediario esposto all’insolvenza; l’apertura degli spread sulle diverse scadenze mette in evidenza questo problema.

I richiamati avvertimenti delle autorità di controllo sul repricing e sul  rischio di illiquidità non hanno impedito che un problema grave sorgesse proprio nel comparto solo apparentemente più lontano dalla finanza innovativa, quello della banca al dettaglio. Il “modello” della Northern Rock, basato su una ampia titolarizzazione dei mutui attraverso finanziamenti dal mercato monetario, e meno sul funding stabile e a basso costo dei depositanti al dettaglio, è entrato in crisi col prosciugamento di quel mercato. L’organo di vigilanza ha affrontato il tradizionale dilemma: non incoraggiare il moral hazard della banca – alternativa particolarmente avvertita in un sistema che fa del non-zero failure uno dei principi cardine – e quindi non intervenire, ovvero concedere liquidità alle banche bisognose di essa in nome della stabilità sistemica. In tal modo, a parte tecnicismi legali che molti hanno trovato eccessivi, si spiega il cambio di direzione delle autorità.

Il termine “organo di vigilanza” qui usato riflette la circostanza che, nel RU, è improprio riferirsi ad un ente specifico, essendo la struttura della vigilanza tripartita fra banca centrale, FSA e Tesoro: una struttura a lungo difesa, con successo, anche in letteratura, contro l’idea di un accentramento della vigilanza stessa, assumendo l’opportunità di separatezza tra responsabilità di politica monetaria e di vigilanza. Argomenti possono addursi a favore dell’una o dell’altra tesi: la crisi ne porta uno, pesante, a favore dell’accentramento e propone, semmai, una diversa dicotomia: tra vigilanza di  stabilità (banca centrale), e di trasparenza e di tutela dell’utente al dettaglio dei servizi finanziari (cd “twin peaks supervision”).

Il bank run cui s’è assistito è dove le due vigilanze si incontrano, la vera protezione del depositante venendo in primis dalla stabilità della banca, più che da sistemi di assicurazione dei depositi operanti a posteriori e che, nei loro limiti, se salvano il depositante dal morir di fame, non salvano il sistema da una conseguenza ben peggiore, la perdita di fiducia nella moneta: infatti – cosa sovente trascurata da chi assimila i depositi a un qualsiasi prodotto finanziario – i depositi sono moneta ed è compito primario della Stato tutelarne la stabilità: come tali, sono la civile alternativa a tenere i soldi “sotto il materasso”. Ne consegue che il depositante deve avere la ragionevole certezza che il suo denaro in banca sia comunque salvaguardato.

Questo obiettivo comporta o un forte intervento pubblico (banca centrale o bilancio pubblico) in caso di insolvenza della banca, beninteso abbandonando alla propria sorte chi ha messo nella banca capitale di rischio (in tal senso ciò non contrasta col principio del non-zero failure); oppure, nell’impossibilità di seguire questa strada perché basata sul sussidio pubblico, che il contesto normativo non consente, una ridefinizione dell’attività bancaria. Uno studioso della Brookings, Robert Litan, lanciò 20 anni fa l’idea – talora ripresa successivamente – della narrow bank.  Egli si chiese What should banks do?[1] ((R. Litan, What should banks do?, The Brookings Institution, 1987)) Rispose che il narrow banking restringe le entità bancarie facenti parte di istituzioni finanziarie altamente complesse e diversificate all’investimento del loro attivo solo in attività sicure e prontamente liquidabili, così rendendo trascurabili i rischi di credito, di mercato e di controparte; mentre le altre attività verrebbero divorced dalla raccolta dei depositi e finanziate sui mercati  unsecured. Tale approccio, nota Litan, taglierebbe il nodo gordiano tra raccolta dei depositi e attività di credito e investimento. La stessa assicurazione dei depositi sarebbe non necessaria, o strettamente collegata alle attività permissibili ove queste andassero oltre quelle sicure e liquide.

Anche senza evocare drastiche riforme, né tornare anacronisticamente al modello menichelliano di separazione tra comparti d’attività secondo le scadenze onde evitare mismatchings, che i modelli di gestione del rischio dovrebbero far ritenere superato, è certamente auspicabile un rinnovato dibattito sulla stabilità e sulla tutela del depositante, che anche un paese finanziariamente sofisticato come il RU dimostra di non poter eludere. E’ ipotizzabile che l’intensità di tale dibattito sarà proporzionale alle ricadute della crisi: solo in tal senso, ognuno sarebbe disposto a rinunciarvi.

Note

1. R. Litan, What should banks do?, The Brookings Institution, 1987