Considerazioni e divagazioni sul correttivo al codice degli appalti e il project financing

1. Premessa
Se lo stimato barone Charles Louis de Secondat, in arte Montesquieu, fosse vissuto oggi ed avesse scritto le “Lettere Persiane” nel primo ventennio del terzo millennio, non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di descrivere con stupore nel suo acuto epistolario uno strano paese ai cui abitanti la ricchezza fa ribrezzo.
Ovviamente in questo paese altrettanto ribrezzo vi fanno le azioni e le idee che portano alla creazione di ricchezza, non solo quella individuale, ma quella diffusa, per tutta la popolazione la quale invece mette regolarmente alla porta, a volte pure in malo modo, le persone che anche dall’estero verrebbero volentieri ad investire le loro cospicue risorse non solo finanziarie, ma anche intellettuali, e che invece vengono accolte a braccia aperte in altre contrade dove trovano tempi rapidi, cortesia, disponibilità.
Sì, perché solo con questa curiosa sindrome si spiega il fatto che la popolazione di questo paese lascia che ad arricchirsi siano quei pochi che invece, sagacemente, hanno capito che ai loro concittadini la materia della creazione del valore provoca l’orticaria, tanto che, attraverso i loro delegati pubblici, che appartengano al potere legislativo o a quello esecutivo ha poca importanza (il giudiziario ha una storia a parte, ma ha le sue belle responsabilità), continuano tranquillamente a strutturare il loro complesso e spesso indecifrabile sistema di codici, decreti e leggi in modo tale che sembra fatto apposta per deprimere la crescita economica, quando invece è un Paese che potrebbe campare in serena dignità anche nei momenti in cui gli altri paesi annaspano nelle bufere congiunturali.
Eh sì, perché questo strano paese è tutt’altro che l’Eldorado, il mitico paese descritto in “Candide” da quell’altro birichino illuminista, Voltaire, dove la ricchezza è talmente abbondante ed alla portata di tutti che la popolazione non si cura se un forestiero si porta via muli e montoni carichi d’oro e di altre preziosità.
Questo, viceversa, è un Paese in cui i delegati di cui sopra, con il beneplacito di tutta la popolazione s’intende, perché tutti bene o male un po’ di beneficio ne hanno tratto e continuano a pensare di trarne, altrimenti qualcosa farebbero, negli ultimi 40 anni hanno fatto sì che, col debito accumulato, venisse eroso in maniera forse irreversibile non tanto il valore creato annualmente dal sistema economico, quanto il “patrimonio”, cioè quella cosa che dovrebbe essere granitica e non intaccabile, semmai da incrementare, in quanto destinata alle generazioni future.
In quanto alle povere generazioni future, se oggi, in questo preciso istante, in virtù di una bizzarra quanto improbabile inversione delle correnti neuroniche di tutta la popolazione di questo strano Paese, il corso degli eventi e delle scelte si indirizzasse verso la creazione di ricchezza, forse non ne basterebbero quattro per ridurre il debito e ricostituire il patrimonio destinato, a sua volta, alle ulteriori generazioni a venire.
In un immaginario scenario fantascientifico in cui sia possibile viaggiare avanti e indietro nel tempo, le guerre future non saranno più tra popolazioni di un paese e quelle di un altro, ma tra varie generazioni, in cui le generazioni future muoveranno una guerra spietata a quelle precedenti, per punirle di averle messe in brache di tela con la loro sciagurata incapacità di governare in modo saggio e gestire il patrimonio, sia quello naturale che quello artificiale.
Attenzione, onde evitare equivoci, bisogna chiarire subito che in questa sede per ricchezza si intende il frutto generato dal valore. Sì, perché oggi non è poi così scontato che questo concetto sia chiaro e questo ha fatto molto gioco a quei pochi che sono riusciti ad accumulare ricchezze sull’ignavia dei molti.
Ormai, nella disperata rincorsa alla liquidità, si è persa di vista la sottile (si fa per dire) differenza tra plusvalenza e valore aggiunto. In altre parole il modo con cui si consegue la liquidità non ha più molta rilevanza e tutto ciò, ovviamente, a discapito della costruzione del valore, cioè dell’economia e quindi del patrimonio, a cominciare da quello pubblico. La plusvalenza, viceversa, molto più facile e rapida da conseguire per quei pochi che lo sanno fare, è una partita di giro, che passa di mano in mano a seconda dell’audacia, dell’abilità e della spregiudicatezza dei giocatori al tavolo verde.
Un bel mosaico sinottico di questa situazione, che, se qualcuno si mettesse seriamente a descriverlo, renderebbe un gran servizio agli abitanti di questo Paese, è il Bilancio dello Stato.
Non il Bilancio di questo o di quell’anno però, ma una visione complessiva dell’andamento del Bilancio diciamo più o meno dal 1980 in poi. Non bisogna essere dei Nobel in economia per capire che, al netto delle sottigliezze finanziarie destinate ai sacerdoti del tempio e da essi solo intellegibili, il bilancio di uno Stato è quasi elementare: da un lato ci sono le entrate che, grosso modo, coincidono con gli introiti delle tasse e delle imposte e dall’altro c’è la spesa. La spesa, a sua volta, si compone di due partite fondamentali, quella corrente e quella in conto capitale.
E qui casca l’asino.
La spesa in conto capitale dovrebbe servire per realizzare gli investimenti pubblici, per esempio le infrastrutture, cioè mantenere, ammodernare e incrementare il “patrimonio”. La spesa corrente serve principalmente per remunerare l’apparato amministrativo, insomma, grossolanamente, per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici.
Da un certo momento a questa parte, diciamo verso i primi anni ’80, la spesa corrente ha cominciato ad essere utilizzata, prima surrettiziamente, poi in modo sempre più sfacciato, per andare a coprire anche il debito pubblico, perlomeno gli interessi (se qualcuno cominciasse a chiedere indietro il capitale comincerebbero i guai seri).
Una notazione interessante: l’emissione di titoli obbligazionari da parte dello Stato fino ad un certo momento, se non mi sbaglio fino a metà degli anni ’70, era consentita per legge solo in conseguenza di eventi eccezionali, tipo calamità, catastrofi, ecc. per consentire di drenare disponibilità per fare fronte a tali eventi. Da un certo momento in poi, invece, il ricorso al debito cominciò ad essere utilizzato in modo molto più disinvolto per coprire i flussi sempre più incontrollati della spesa corrente, un po’ per l’ipertrofia e l’inefficienza dell’apparato pubblico, ma eternamente ambitissimo bacino di voti per la politica, un po’ per gli interessi montanti del debito, insomma, il cane che si mangia la coda. È interessante ricordare che si era in tempi in cui i tassi di interesse e l’inflazione correvano su valori a 2 cifre e per un periodo oltre il 20%, per cui, se da un lato era molto oneroso ripagare un debito, dall’altro investire in titoli di Stato dava grandi soddisfazioni, per cui la popolazione italiana, notoriamente formichina, taceva e riscuoteva laute cedole.
Però, a poco a poco, i costi della politica, dell’apparato e, mettiamocelo senza nasconderci dietro un dito, l’avvento pernicioso delle Regioni (quelle con la R maiuscola, quelle con la r minuscola fanno e faranno sempre parte della storia millenaria di questo Paese) a partire dal ’74, che hanno costituito e costituiscono il peggiore buco nero ed emblema di inutilità ed inefficienza della storia d’Italia dal 21 aprile del 753 A.C., continuando a gonfiarsi senza limiti, costrinsero i “governanti” a trovare soluzioni che gli consentissero di raschiare il secchio. E quale invenzione migliore di quella di cominciare a contrarre la spesa in conto capitale per spostarla sulla parte corrente?

Certo! Perché le entrate sono una coperta stretta, non puoi caricare di ulteriori balzelli un Paese già tra i più tartassati del mondo. La coperta non puoi allargarla come ti pare a seconda che ti servano più soldi: i cittadini e le aziende, già ben spremuti, quello possono versare e se poi ci metti quell’altra simpatica componente dell’evasione fiscale più alta d’Europa il gioco è fatto: se tiri la coperta verso il corpo i piedi restano scoperti, cioè gli investimenti. E, attenzione, per investimenti non è che ci si riferisce necessariamente a mega-infrastrutture episodiche, tipo, mondiali, olimpiadi, G di vari numeri…7, 8, ma al minimo per poter consentire a questo Paese una vita dignitosa.
A me per esempio viene abbastanza da ridere (amaramente) quando si sollevano proteste vibranti ed indignate all’indomani di eventi disastrosi di dissesto idrogeologico, smottamenti, inondazioni, esondazioni, crolli di viadotti, ecc, per non parlare delle ricostruzioni dei vari terremoti che periodicamente colpiscono il nostro territorio. Provate ad andare a chiedere a chi veramente sa come stanno le cose (e naturalmente non ve lo dirà mai perché al lavoro ci tiene anche lui) come mai, al di là del colpevole di turno, del ritardo nei soccorsi, del piccolo o grosso truffatore che ha lucrato sul cemento di scarsa qualità, ci si mettono 7 anni per “non” ricostruire l’Aquila, quando alla fine degli anni ’70 una intera regione è stata ricostruita in 5 anni dalle nude mani dei suoi abitanti che dichiararono che non volevano contributi dallo Stato, anzi, come dicevano loro, perché io c’ero, da Roma. Provate a chiedere, per esempio, qual è oggi il rapporto tra dotazione finanziaria e filiera delle responsabilità nei confronti della tenuta idrogeologica del territorio e in quante mani passa il cerino, prima di spegnersi, delle leggi, ordinanze, tra Stato, Regioni, Comuni, Autorità di bacino, Province, ASL, ATO (ex consorzi acquedottistici), commissari e chi più ne ha più ne metta.
Sta di fatto che, fino verso la fine degli anni ’80 le cosiddette Leggi Finanziarie, in particolare nel lavoro preparatorio della Relazione Previsionale e Programmatica, contenevano una serie di indicazioni molto articolate e complesse sulla allocazione di cospicue risorse da destinare alle infrastrutture, che, nella gran maggioranza dei casi, rientravano in parte nei quadri programmatici di interventi a rete di ampio respiro ed in parte in interventi puntuali (rete ferroviaria, eliminazione dei passaggi a livello, porti commerciali, ricostruzione del Belice (!!!). Gli interventi, descritti puntualmente nella RPP, trovavano poi sintetica concretizzazione nella famosa “tabella C”, che riportava: a) gli investimenti ancora in fase di completamento, b) i nuovi progetti di investimento, d) le somme andate in perenzione che potevano essere riallocate.
Stenderei poi un pietoso velo sulle decine di miliardi che questo Paese (con in prima fila le Regioni) non è riuscito a spendere dai Fondi Strutturali perché richiederebbe un articolo a parte.
San Tommaso Moro scrisse la meravigliosa Preghiera del Buonumore, il cui ultimo versetto suona più o meno così: “Dammi, o Signore, il senso dell’umorismo, concedimi la grazia di comprendere uno scherzo, affinchè conosca nella vita un po’ di gioia e possa farne parte anche ad altri”.
Bisognerebbe svegliarsi ed addormentarsi sempre recitando questa preghiera, per non essere sopraffatti dalla rabbia e dal pianto, pensando alle generazioni future e nel constatare oggi quanto sia rimasto nel bilancio dello Stato destinato alla spesa per investimenti. L’ultimo atto ipocrita della beffa consiste nel neanche tanto strisciante tentativo di trasferire quel poco che resta del conto capitale nella spesa corrente attraverso le cartolarizzazioni, i bond e i canoni di disponibilità, spostando il fulcro dell’attività di una società civile dall’economia alla finanza.
Delle volte, preso dallo sconforto, per trovare una spiegazione a tutto ciò non mi resta che appellarmi alla nota teoria del grande Carlo M. Cipolla, che risale al 1976, dove, come l’universo in continua espansione, gli occupanti del terzo quadrante del suo asse cartesiano sono in inarrestabile crescita.

2. Il Codice degli Appalti, il suo Correttivo e la Finanza di Progetto
Io vorrei scusarmi per questo lungo sfogo, e molti, dei pochi che mi leggeranno, si chiederanno, ma che c’entra tutto ciò con il Correttivo del Codice degli appalti? E, soprattutto, che c’entra col Project Financing? Purtroppo c’entra, eccome. Se non si guarda in prospettiva storica un evento, si tratti pure di un decreto legislativo apparentemente di interesse di una nicchia di addetti, e soprattutto non si cerca di assumere una visione più elevata dall’altezza uomo, ma diciamo, ci si pone a quota “elicotteristica”, non si riuscirà mai ad avere percezione non dico delle soluzioni, ma perlomeno delle cause e delle debolezze di un provvedimento e delle conseguenze che ne discendono.
Non vorrei annoiarvi citando di nuovo le Lettere Persiane, ma, se fossero scritte oggi, Usbeck parlando dell’Italia, scriverebbe a Rika: è veramente uno strano Paese, pensa che al vertice dell’importantissimo sistema dei lavori pubblici, delle infrastrutture e di tutto ciò che riguarda i rapporti dell’apparato pubblico con il territorio ed il resto della popolazione c’è un organismo che si chiama ANAC. Caro Rika, l’unica conclusione logica che ne posso trarre è che tutti gli italiani sono corrotti, e lo sono a priori, da quando nascono, se l’autorità che si occupa dalla realizzazione di un’autostrada alla distribuzione dei cibi negli asili nido o all’acquisto di matite per un ufficio postale si chiama in questo modo. Ma allora, visto poi che la ricchezza fa ribrezzo a tutto il Paese, perché non ne fanno un unico grande carcere, mantenuto dallo Stato, come quel film di Carpenter in cui New York era diventata una enorme prigione controllata all’esterno dall’esercito e al cui interno se le davano di santa ragione bande di vario tipo facendosi la guerra per il possesso di fazzoletti di territorio?

3. Il Correttivo – Poche e deludenti novità per le concessioni e per la Finanza di Progetto
Facciamo ora finalmente atterrare il nostro elicottero e confrontiamoci sul terreno di questa piccola componente del sistema del nostro strano Paese. Questo benedetto Codice degli Appalti che appassiona così tanto gli italiani da volerne ogni tanto una nuova puntata, manco si trattasse delle indagini del Commissario Montalbano.
Come ogni serie che si rispetti, anche le versioni del Codice degli Appalti, perlomeno dal 1994 in poi, vengono precedute da illazioni, voci di corridoio, soffiate “ma è vero che il commissario morirà?”, “non lo so, così dicono, ma pare però certo che ritornerà l’appalto integrato, col progetto definitivo”. Si fanno addirittura dibattiti e convegni (attività che manda in sollucchero gli italiani) sul testo ancora non approvato.
Chissà, forse alla fine quello che tiene vivo l’interesse di questo strano popolo non è la cosa in sé, ma le aspettative e il dibattito che crea, l’apparire piuttosto che l’essere.
Una ultima riflessione prima di scendere come speleologi nelle doline del Codice e tra le stalagmiti del Correttivo. Riflessione forse pleonastica, visto che tutti più o meno sanno come funziona la pubblicazione e l’entrata in vigore di un provvedimento legislativo in questo Paese, anch’essa degna di rientrare in una lettera persiana: un signore, o un gruppo di signori, animati dalle migliori intenzioni, stendono una proposta o un disegno di legge. La proposta comincia a passare il vaglio di varie commissioni, fa avanti ed indietro neanche fosse una pallina da ping pong, nel frattempo si insinuano suggerimenti ed emendamenti di lobby di vario genere, spesso con interessi contrapposti, ma comunque fortemente coinvolte nel settore toccato dal provvedimento, che vengono accettati, rigettati, inseriti come cunei di legno nei punti più improbabili del testo, spesso sperando che passino inosservati. Poi il provvedimento va nelle aule, a volte ritorna in commissione, e finalmente vede la luce.
Cosa vede la luce?

Una “creatura” che farebbe rabbrividire la stessa Mary Shelley, che si muove a scatti dietro impulsi elettrici, che non ha più nulla delle sembianze originali che la avevano ispirata e che semina il panico tra gli operatori che vengono travolti dal suo percorso, salvo una categoria che si frega soddisfatta le mani pregustando anni di riti esoterici: gli avvocati.
Bene, caliamoci ora con corde e torcia ancora più dentro la materia specifica: il tanto atteso Correttivo del Codice degli Appalti, cioè il D.lgs 56/17 che corregge il D.lgs 50/16.
In particolare, in questo breve scritto, per restare in tema dell’intervento di capitali privati per la realizzazione di opere pubbliche seguendo il fil rouge del mio articolo precedente, verrà trattata quella parte che si occupa delle concessioni, per vedere se ci sono finalmente novità eclatanti che potrebbero portare una ventata di novità.
Delusione totale. Per carità, ci sono sicuramente delle modifiche che faranno la gioia di chi ama i dibattiti, i seminari, i gruppi di studio, così come nel Medio Evo c’erano le dispute tra dolciniani e spirituali, tra albigesi e bogomili, ma di cose sostanziali, che potrebbero far esclamare: “oh, finalmente si cambia rotta” e aspirare a qualcosa che sia veramente attrattivo nei confronti dei capitali privati per la realizzazione di opere pubbliche, neanche l’ombra.
Se si dovesse sintetizzare con una allocuzione che si usava tanto tempo fa, direi che si tratta dei soliti pannicelli caldi.
D’altra parte non potrebbe essere altrimenti se si continua a lavorare sui ramicelli con potature, legature ed innesti, e non si mette mano al tronco, anzi, alle radici.
Entrando nel merito, ritengo che sarebbe sterile e di difficile lettura saltellare analiticamente da una correzione all’altra, dando per scontata la conoscenza da parte di chi legge del testo precedente, e soprattutto della discendenza da cui proviene lo stesso Codice del 2016. Credo invece che sia più utile fare un ripasso critico di tutta la sezione dedicata alle concessioni dal Codice, nelle sue componenti più importanti, richiamando alla fine, dove capitano, le novità del Correttivo.

4. La confusione e l’intreccio di tre forme relative alle concessioni
Dunque, in sostanza stiamo parlando di quella sezione del Codice che va dall’art. 164 all’art. 191, considerato che ci sono alcuni argomenti apparentemente di corollario, come le Società di Progetto e la Cessione di immobili in cambio di opere, che viceversa “potrebbero” essere di fondamentale importanza per l’incontro tra capitale privato e opere pubbliche e non solo.
Approfittando dell’occasione del Correttivo per rileggersi il Codice, appare innanzitutto la schizofrenia della sua strutturazione, in particolare per quanto concerne il comparto che, nelle varie declinazioni, si occupa di concessioni.
Proviamo a spiegarci semplificando con un argomento specifico:
Innanzitutto, gli articoli dal 164 al 178 parlano di concessioni, gli articoli dal 179 al 181 parlano di Partenariato Pubblico Privato, l’articolo 183 parla di Finanza di Progetto, gli articoli dal 184 al 191 parlano di strumenti accessori che sono nell’orbita del mondo delle concessioni (e forse qualche cosa si riferisce anche alla disciplina degli appalti).
L’insieme è un patchwork di indicazioni a scacchiera dove per capire compiutamente come funziona il regime delle concessioni e un ciclo di vita completo di una procedura bisogna andarsi a leggere anche quello che c’è scritto sul PPP e sul PF e viceversa, tornando delle volte a quello che c’è scritto varie decine di articoli precedenti.
Ma non era meglio, tutto sommato, la vecchia versione della 109/94 dove l’esordio del Project era semplicemente identificato, all’italiana, come forma di concessione di costruzione e gestione e dove la differenza consisteva unicamente su chi presentava il progetto da mettere a gara, una volta la P.A. e una volta il privato? E dove la filiera del processo si sviluppava in maniera abbastanza lineare e consequenziale?
No, era troppo semplice.

5. Le permute degli immobili pubblici
Prendiamone atto ed esaminiamo ora a campione un elemento, particolarmente interessante, la cui introduzione già nel lontano 2002, poi reiterata nel D.lgs 163 del 2006 (art. 143, comma 5) ed oggi confermata, costituì una novità che, nell’immaginario di chi come me, ingenuamente, sognava una visione sincretica ed ecumenica della gestione del territorio e della creazione del valore, evocò scenari possibili di grande integrazione tra la realizzazione delle infrastrutture in questo Paese e l’intervento del capitale privato.
La ciliegina era in sostanza costituita dal possibile avvio di un processo virtuoso di valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico: la possibilità che la P.A., per compensare eventuali insufficienze del solo capitale privato nel conseguimento dell’equilibrio economico in fase di realizzazione e gestione di un’opera pubblica, consentisse il riconoscimento di un “prezzo” sotto forma di immobili pubblici disponibili da cedere al concessionario.
Mai idea brillante fu più sottovalutata e mal sfruttata.
Se la sua portata fosse stata ben compresa avrebbe potuto dare la stura da un lato alla realizzazione di opere di interesse del territorio che non potranno mai contare su finanziamenti pubblici in conto capitale e dall’altro ad un sistematico processo di recupero e valorizzazione dell’immenso patrimonio immobiliare pubblico italiano che, bel lontano oggi dal costituire un valore, così come è gestito costituisce un disvalore ed una voce al passivo dello Stato e degli enti locali.
Con il Dlgs 50/16 la situazione, forse con la pia intenzione di rendere più efficace la trovata, si è viceversa ulteriormente complicata: ciò che prima era sintetizzato in un’unica lapidaria affermazione, ora si ritrova polverizzata senza un apparente nesso logico in ben tre punti: a) nell’art. 165, comma 2 (concessioni), b) all’art. 180, comma 6 (Partenariato Pubblico Privato), c) addirittura in un articolo interamente dedicato, il 191, che candidamente ne parla come se in precedenza non fosse mai stato citato e, a leggerlo in modo asettico, sembrerebbe potersi applicare anche agli appalti, cioè a una disciplina trattata ben 160 articoli prima, visto che si parla di bandi gara tout court e non di concessioni. L’unico articolo dove non se ne fa cenno, e dove forse avrebbe avuto un senso inserirlo, è il 183, quello relativo alla finanza di progetto.
Ora però questo provvedimento che meriterebbe un plauso a chi lo ha immaginato, di fatto non ha quasi mai funzionato e rischia di andare a lastricare le vie dell’inferno, insieme a tante altre buone intenzioni.
Perché?
Per spiegarlo occorre calarsi un attimo nella galassia del patrimonio immobiliare pubblico e dei vani tentativi che da 20 anni a questa parte vengono esperiti per cercare di valorizzarlo.

Il patrimonio pubblico si divide sostanzialmente in tre categorie: quello disponibile, cioè quello per cui non c’è in sostanza nessun impedimento alla sua cessione in vendita o in affitto, quello indisponibile, cioè quello che è nel pieno utilizzo della P.A. e quello demaniale, ovvero quello che costituisce patrimonio inalienabile dello Stato, delle Regioni, delle province e dei Comuni, comprese coste, spiagge, strade, ecc.
I responsabili di questo patrimonio costituiscono un minestrone straordinariamente variegato che va dall’Agenzia del Demanio (cui compete, per esempio, anche la responsabilità di edifici sdemanializzati, come carceri dismesse o immobili di competenza della Difesa che non assolvono più allo scopo originario), alla Cassa Depositi e Prestiti, la quale ha ricevuto moltissimi immobili in dote da Fintecna, dalle partecipate pubbliche (vedi EUR SpA), fino agli enti locali, senza contare enti di diritto pubblico, come le IPAB, dove si consumano turpitudini irriferibili sui loro enormi patrimoni immobiliari e gli Istituti Autonomi Case Popolari (ora regionalizzati come le ASL).
La stragrande maggioranza di questo patrimonio: a) versa in uno stato di degrado vergognoso, b) è iscritto al bilancio dell’ente cui compete a valori che matematicamente non corrispondono al valore effettivo di mercato (che, en passant, ma è bene dirlo, spesso è sotto lo zero perché gli immobili, a causa della loro nascita super partes, sono spesso sprovvisti di legittimità urbanistica ed edilizia), c) è improduttivo in quanto gestito allegramente con percentuali di mancata riscossione dei canoni che fanno spavento.
Ma, la cosa più raccapricciante è che, nell’era digitale dove anche il Comune di 300 anime ha ormai un sito web in cui campeggia pomposa la sezione “amministrazione trasparente”, di questo oceano di immobili non esiste una vera anagrafe coordinata e razionalizzata, che sia in grado di riferire “univocamente” lo stato di consistenza, i titoli abilitativi, la conformità urbanistica, il vero valore di mercato, eccetera.
Come è pensabile, in una situazione come questa, di voler efficacemente inserire in una legge fondamentale dello Stato, quale è il Codice degli Appalti, una indicazione, teoricamente sacrosanta, che equipara gli immobili alla valuta corrente come contropartita economica per la realizzazione di opere pubbliche, senza che si sappia di che cosa realmente si sta parlando, cioè di quale è il valore di mercato di questo patrimonio?
Infatti, da quando è stata introdotta, questa opzione non ha mai funzionato, o quantomeno non ha mai determinato una vera leva sistematica di svolta nel regime delle concessioni. Gli immobili che, raramente, vengono messi nel pacchetto di una operazione legata alla realizzazione di opere pubbliche sono immancabilmente inappetibili per l’operatore perché degradati, costosi da valorizzare, spesso privi dei documenti minimi per la conformità urbanistica, in una parola, dei bidoni, tant’è vero che l’Art. 191 al comma 2, non senza far pensare vagamente alla coda di paglia, parla di immobili la cui dismissione sia già stata programmata e i precedenti tentativi di vendita siano andati deserti.
Il tutto perché? Perché come la maggioranza delle cose pubbliche in Italia, non si è “fatto sistema”. E perché non si è fatto sistema? Ma è semplice, perché fare sistema significa scompaginare il meccanismo capillare dei piccoli interessi polverizzati su tutto il territorio, meccanismo alimentato dalla incomunicabilità dello Stato con le Regioni e tutti gli altri enti locali.
L’occasione sarebbe d’oro, perché prenderebbe due piccioni con una fava: da un lato consentirebbe l’avvio di una vera e non farsesca valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico disponibile, dall’altro costituirebbe una interessantissima leva per supportare lo sviluppo di quelle opere che solo in parte possono conseguire l’equilibrio economico-finanziario con la gestione e l’apporto di capitale privato.
Il Correttivo, che, rimettendo le mani al tutto, avrebbe potuto essere un’ottima occasione per non dico stravolgere, ma perlomeno cercare di incanalare meglio questa tematica, cosa ci recita sul tema degli immobili pubblici in conto prezzo? Vediamo:

Il tema della valorizzazione del patrimonio pubblico, in ogni caso, è di una vastità tale che meriterebbe una trattazione a parte.
Siccome però io sono un fervido assertore della massima: “se non porti una soluzione fai parte del problema”, ecco che provo ad avanzare una proposta, che poi in realtà non è neanche tanto originale, perché se ne parla perlomeno da 20 anni: così come c’è una banca del sangue, una degli organi per i trapianti e altre di importanza basilare per la perpetuazione della specie, un’idea potrebbe essere quella di creare una “banca dell’immobile pubblico”, intendendo per “banca” principalmente un sistema informatico accessibile a tutta la P.A. ed agli operatori privati accreditati che costituisca quella famosa “anagrafe” da costruire progressivamente e di cui ce ne è un bisogno estremo.
Questo strumento si chiamerebbe “banca” perché in effetti dovrebbe contenere il concetto di mutualità e circolarità non solo delle informazioni, ma anche dei cespiti stessi: un operatore che è potenzialmente interessato a fare degli investimenti pubblici a Siracusa, potrebbe trovare di interesse l’acquisizione e la valorizzazione di un immobile ad Aosta. La proposta rasenta l’utopia se non la follia, me ne rendo conto, per tutta una serie di motivi che però potrebbero essere mitigati se solo si cominciasse a contrarre la frammentazione degli organismi di potere che si nascondono dietro l’ipocrisia della presunta democrazia e del principio di autodeterminazione dei territori, asserzione demagogica che in 40 anni ha portato allo sfacelo la nostra finanza pubblica (qualcuno prima o poi mi dovrà spiegare, per esempio, perché scendendo le scale mobili dell’aeroporto di Dubai io mi debba trovare davanti un cartellone che mi magnifica le bellezze del Molise e non quelle dell’Italia, come se a Dubai, dove a stento sanno dov’è l’Italia, fosse scontato sapere dove sono il Molise o la Val d’Aosta).

Se per esempio Cassa depositi e Prestiti e Agenzia del Demanio, la mano sinistra e la mano destra del MEF nel settore degli immobili pubblici, dove l’una non sa quello che fa l’altra, costituissero un unico archivio, una unica “stanza di compensazione” per tutto il patrimonio immobiliare pubblico, compreso quello degli enti locali e delle partecipate, sarebbe già un enorme passo avanti nel contributo alla creazione di valore del nostro sciagurato Paese.

6. Il Progetto di Fattibilità
Adesso si chiama Progetto di Fattibilità.
In tutto il mondo continuano a chiamarsi Studio di Fattibilità da un lato e Progetto Preliminare dall’altro (o Master Plan o Concept o Progetto di Massima, come vi pare, l’importante è che abbia certe caratteristiche). Da cosa nasce questa necessità di voler “incrociare” due documenti sostanzialmente diversi come si fa con un bassotto e un segugio? Io credo fondamentalmente che dipenda dal fatto che da quando è stato introdotto ufficialmente il concetto di Studio di Fattibilità nel sistema degli appalti in Italia, e cioè dai primordi della Merloni, nessuno sia mai stato veramente in grado di codificare che cosa sia uno Studio di Fattibilità, perché non è mai entrato a fare veramente parte della nostra cultura, per cui alla fine qualcuno ha pensato: sai che facciamo? Fondiamolo col Progetto Preliminare, così tutto diventa più “unificante”: mettiamo cioè insieme uno strumento ben delineato e definito nei suoi contenuti, il Progetto Preliminare (come era nel Regolamento Attuativo) con uno strumento non codificato e articolato nei suoi contenuti.
Il risultato è che se già prima c’era una bella incertezza nel definire (e quindi valutare) i contenuti di uno Studio di Fattibilità, ma se non altro era confinata ad esso, ora la confusione sarà totale e riguarderà anche il Progetto Preliminare, che bene o male una sua messa a fuoco negli anni l’aveva raggiunta.
Secondo voi qual è il motivo di questo bel pasticcio? Io una idea me la sono fatta.
Ricordiamo intanto che in questa sede ci stiamo occupando di quella parte del Codice che dovrebbe trattare in un modo o nell’altro il coinvolgimento del capitale privato nella realizzazione di opere pubbliche (me la cavo così, perché confesso che nel momento di dare una definizione alla frase precedente non sapevo più se definirla col nome di concessioni, di Partnership Pubblico Privata o di Finanza di Progetto).
Per trovare un accenno al Progetto di Fattibilità in questa sezione dobbiamo andare a spulciare al comma 2 dell’art. 183, quello che si occupa della Finanza di Progetto.
Per trovarlo in altre sezioni del Codice bisogna risalire di 160 articoli, fino ai commi 5 e 6 dell’art. 23.
Nella sezione III, quella dedicata alle concessioni, non ve ne è altra traccia.
Dopodiché sono andato a cercare quali fossero le condizioni progettuali di pubblicazione di un bando che prevede la partecipazione del capitale privato. Nella sezione delle concessioni non ho trovato nulla.  Sono passato alla sezione IV, Partenariato Pubblico Privato e al comma 1 dell’art. 180, scopro che, cosa peraltro anticipata al comma 1, ultimo periodo dell’art. 59, il contratto di PPP può avere ad oggetto “anche” la progettazione di fattibilità e quella definitiva. Il mio entusiasmo viene subito brutalmente smorzato dalla lettura del Correttivo, dove lapidariamente si sopprime questa possibilità.
Passo all’art. 181 e finalmente trovo quello che faticosamente cercavo dall’art. 59 in poi: le procedure di affidamento. E qui, al comma 2, scopro che “le amministrazioni aggiudicatrici provvedono all’affidamento dei contratti ponendo a base di gara il Progetto Definitivo…”.
Ma di quali contratti stiamo parlando, visto che siamo nella sezione del PPP? Anche di quelli relativi alle concessioni di costruzione e gestione? Evidentemente sì, perché nell’apposita sezione non se ne fa cenno e in qualche modo la modalità di affidamento di queste concessioni andrà pure regolato.
Vado oltre e arrivo all’art. 183, il mio preferito, quello della Finanza di Progetto. Qui vi sono due opzioni:

Se saltiamo a piè pari al comma 6 dell’art. 187, quello che parla di leasing nelle OOPP, si dice che “la stazione appaltante (anche questo fatto di chiamarle una volta amministrazioni aggiudicatrici e una volta stazioni appaltanti non rende facile la vita al lettore) pone a base di gara almeno un Progetto di Fattibilità e l’aggiudicatario provvede alla predisposizione dei successivi livelli di progettazione e all’esecuzione dell’opera.
All’art. 188, dove si parla di contratto di disponibilità, al comma 3 si ribadisce che il “bando di gara è pubblicato…ponendo a base di gara il Progetto di fattibilità” e omettendo di dire “almeno”.
Insomma, al privato, che dovrà realizzare l’opera di tasca sua contando di rientrarvi solo con l’esercizio della gestione (fatta eccezione naturalmente delle situazioni in cui il pubblico corrisponde un canone di disponibilità pieno – e qui torniamo all’affermazione di qualche pagina fa, dove la spesa in conto capitale viene magicamente tramutata in spesa corrente) non resta che esercitare un completo controllo sul proprio futuro (cioè fare il progetto sin dalle primissime fasi) solo nella modalità Promotore (art. 183, comma 15).
Quindi, in definitiva e riassumendo, nel Codice degli Appalti, anche in quella parte che si dovrebbe preoccupare di incentivare l’intervento del capitale privato, con l’esclusione del Project Financing (e non è detto che in un futuro non troppo lontano non si riesca a mettere mano anche a tale scandalosa libertà che ancora si è lasciata al privato) alla Pubblica Amministrazione spetta comunque il compito di fare il progetto di fattibilità.
Perché ti accalori tanto? Potrebbe dire qualcuno. Perché in una strategia di sviluppo del territorio, funzione a cui lo Stato ha abdicato da tempo, lo Studio di Fattibilità (lo chiamo così proprio per distinguerlo dal fantomatico Progetto di Fattibilità) è forse lo strumento più importante di tutti. Ed è tanto più importante (abbinato quell’altro strumento misterioso e semitrascurato: “il quadro esigenziale”) per quella modalità di realizzazione di un’opera, privata o pubblica poco importa, in cui il fattore critico di successo è costituito non tanto nel riuscire a farla quanto nel gestirla negli anni successivi.
Lo Studio di Fattibilità, ancor prima di cominciare a dimensionare e delineare le forme di un’opera, ha il delicatissimo compito di individuare se l’opera:

Questi pochi punti contengono un mondo di approfondimenti che il nostro Codice sfiora appena e il cui sviluppo è improbabile che possa essere affrontato dalla Pubblica Amministrazione, non voglio dire per mancanza di professionalità, per non offendere nessuno, ma se non altro per la mancanza di risorse finanziarie adeguate.
Invece il Codice, senza approfondire l’argomento, carica sulle spalle della P.A. l’onere di svolgere il Progetto di Fattibilità nei 6/7 delle modalità di affidamento lavori.
Perché il Codice trascura una fase così importante del processo di sviluppo delle OOPP con la partecipazione del capitale privato?
Perché, una volta di più, tutto nasce dal solito vecchio peccato originale di avere voluto innestare tutto il variegato mondo della partecipazione del capitale privato nelle opere pubbliche dentro il regime degli appalti, dove l’attenzione del legislatore si concentra tutta sulla fase dell’esecuzione e non su quella della gestione (andarsi a leggere a questo proposito, per avere una conferma, l’art. 170 – siamo in pieno regime di concessioni – e cercare, invano, un qualche riferimento alla dimostrazione di avere una solida e attestata capacità gestionale).
Se così non fosse stato, lo Studio di Fattibilità sarebbe, come è in altri paesi, uno degli strumenti più importanti di tutto il processo di sviluppo, non solo di un’opera, ma di crescita di un territorio e di creazione del valore, cioè di quella famosa ricchezza che al nostro Paese fa tanto ribrezzo.