Imprevedibilità delle conseguenze dell’urbanistica negoziale: l’urbanistica italiana tra mancato rispetto del principio di concorrenza e rischio di procedure di infrazione per aiuti di Stato

L’urbanistica, italiana e non solo, non ha mai molto considerato il rispetto del principio di concorrenza[1]. O, almeno, la necessità di una esplicita convivenza con esso, neanche da quando la sua incidenza nei processi decisionali in materia di allocazione di risorse pubbliche e nella gestione di beni e servizi pubblici è divenuta centrale. E, più in generale, nella regolazione del mercato[2].
La allocazione dei diritti di costruire – un tempo, le meno impegnative «previsioni edificatorie» – è sempre stata effettuata dall’operatore pubblico, legittimo detentore del relativo potere, in base a piani urbanistici, per lo più generali, ritenuti capaci allo stesso tempo di:

contenere, in nome dell’interesse pubblico e più recentemente anche dell’interesse generale, l’esercizio della discrezionalità amministrativa, stabilendo la ubicazione, la specializzazione funzionale e la quantità di tali diritti (per realizzare abitazioni, attività sociali, attività produttive, attività di servizio, ecc.); nonché i tempi e le modalità di trasformazione di tali diritti in opere edilizie;
contemperare, nella allocazione degli stessi, gli interessi confliggenti dei diversi soggetti che domandano i diritti di costruire in quanto proprietari dei terreni sui quali i diritti vengono allocati.

In modo esplicito la questione della concorrenza si è posta, ma non ancora trovando un compiuto trattamento, solo nei casi:

a
della cosiddetta “urbanistica commerciale”, esplosa con la crescita delle «grandi superfici di vendita», centri commerciali e simili, che confliggono con il commercio di prossimità, di solito esército da piccoli commercianti. Ma già nota negli anni della applicazione della legge n. 426/1971, che ha subìto continui ritocchi, e più recentemente del Dlgs 114/1998 (“Bersani”, in attuazione della legge 15 marzo 1997, n. 59, “Bassanini”), che liberalizza gli orari di apertura degli esercizi commerciali, la localizzazione delle attività commerciali di vicinato, mentre disciplina la localizzazione di medie strutture di vendita (da 150 a 1500 mq) e di grandi superfici di vendita (maggiori di 1500 mq) e consente il rilascio di licenze plurime nello stesso esercizio, ripartendo i compiti per le autorizzazioni tra Comuni e Regioni;
b
della assegnazione in concessione, di varia durata, di terreni di proprietà pubblica, per lo svolgimento di attività economiche, da quelle residenziali alle varie forme di attività produttive; quello dei demani pubblici è il caso più classico, nel quale il principio di concorrenza, almeno formalmente, è rispettato: pubblicità e confronto tra le offerte;
anche se non soddisfacendo a pieno quanto impone la Direttiva CE 2006/123 (Bolkestein), la cui piena applicazione viene sistematicamente rinviata: i casi del commercio ambulante, degli stabilimenti balneari, ecc.
Il principio di concorrenza è ovviamente rispettato anche nel caso delle aste; ad esempio, per la cessione (“valorizzazione”) delle proprietà pubbliche;
c
più recentemente, nei casi di confronto concorrenziale tra proposte di trasformazione urbanistica, allorché si applica la procedura dell’art. 18 della l. n. 179/1992, che disciplina lo “pseudo strumento” urbanistico del «programma integrato» (PI), anche di iniziativa privata;
d
quando i comuni formano i «piani operativi», allocando i diritti di costruire programmati con i “piani strutturali comunali” (PSC), in applicazione delle leggi urbanistiche regionali cosiddette di “seconda generazione” (cioè quelle emanate dopo il 1995).
Si tratta di una modalità ancora poco utilizzata in realtà, che si rifà a quella a suo tempo introdotta dalla legge n. 10/1977, all’art. 13, che recava il «programma pluriennale d’attuazione». Strumento in disuso, anche se ancora in vigore, almeno in circoscritte situazioni.

Non molto diversa la situazione di altri paesi. Tra quelli «meno distanti» dal nostro, la Francia. Anche in questo paese la questione della concorrenza in urbanistica emerge soprattutto nel caso dell’«urbanistica commerciale»[3] e in quello della “contrattazione urbanistica”[4].
Quindi la concorrenza in urbanistica emerge ed è praticata ancora non del tutto compiutamente nell’acquisizione di diritti di costruire, limitatamente a queste fattispecie: commercio, concessione e valorizzazione di patrimoni e demani pubblici, confronti concorrenziali nella applicazione dell’art. 18 della l. n. 179/1992; formazione dei piani urbanistici, quando è previsto che il passaggio dal cosiddetto “piano strutturale comunale” e simili – in base alle ricordate innovazioni introdotte dalle Regioni nella architettura della pianificazione a partire dal 1995 – a quello “operativo” avvenga previo l’espletamento di confronti concorrenziali.

1. Il principio di concorrenza nella cura che ne fa l’autorita’ garante della concorrenza e del mercato
Queste fattispecie di applicazione e/o rispetto del principio di concorrenza, per quanto limitate – la nostra ipotesi è che la loro applicazione dovrebbe riguardare tutta la allocazione di diritti di costruire anche in ordine alla oramai, di fatto, avvenuta separazione tra diritto di proprietà e diritto di costruire – non sono oggetto della «cura» che del principio di concorrenza è stata affidata alla speciale Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che vigila sulla applicazione della legislazione antimonopolistica della UE (l. n. 287/1990), garantendo cioè la tutela della concorrenza e del mercato, contrastando le pratiche commerciali scorrette nei confronti dei consumatori e delle microimprese, tutelando le imprese dalla pubblicità ingannevole e comparativa, nonché vigilando affinché nei rapporti contrattuali tra aziende e consumatori non vi siano clausole vessatorie.
Il fine ultimo – si trascurano altre funzioni dell’Autorità (conflitto di interesse, rating di legalità) – sembra soprattutto essere la tutela del consumatore.
Quale potrebbe essere il consumatore tutelato dall’Autorità nel caso dell’urbanistica? Ovviamente della pianificazione urbanistica o, più precisamente, del potere di pianificazione assegnato ai soggetti pubblici che pianificano l’assetto del territorio e l’uso del suolo.

Difficile rispondere. In astratto si potrebbe sostenere che le eventuali restrizioni al mercato determinate da piani urbanistici che riducessero al limite a zero l’offerta di terreni edificabili avrebbero da un lato l’effetto di far aumentare i prezzi dei terreni edificabili già sul mercato, con conseguenze evidenti per gli acquirenti e in generale di chi domanda i terreni per svolgere attività economiche, dall’altra quella di far convergere l’azione dei trasformatori solo sull’esistente. In generale sulla città, consolidata e in via di consolidamento. Quindi una «guerra» tra trasformatori: costruttori, developers, ecc., che potrebbero essere identificati come le imprese in concorrenza tra loro.
Nel caso si massima restrizione nell’offerta di suoli si determinerebbe con buona possibilità quel fenomeno che Isabelle Baraud Sarfaty[5] ha teorizzato come la fine della “città gratuita”: il meccanismo è piuttosto semplice. Quando si agisce solo sulla città esistente il costo delle operazioni, anche di rigenerazione urbana, è molto elevato.
Solo pochi sarebbero in grado di sostenerlo. Sia i produttori che gli acquirenti (anche in affitto) degli immobili. Tanto più che la trasformazione dovrebbe essere accompagnata da una elevata valorizzazione immobiliare, in specie della attività/funzioni ospitate: solo così si potrebbe poter disporre, ovviamente attraverso il prelievo fiscale, delle risorse capaci di finanziare comunque la città, nella parte pubblica; in genere quella dei servizi alla popolazione e delle infrastrutture di base. Appunto attraverso la tassazione di questi plusvalori. Densità più elevate di popolazione ed edilizie, sarebbero inevitabili.
E, soprattutto, nel caso di inerzia dei promotori o per difficoltà del mercato, strettamente connesse, si avrebbero possibili perdite di entrate per i comuni.
Quindi maggiori costi della città per gli utenti, non sufficientemente compensati dai risparmi pubblici, effetto delle maggiori economie di scala e di agglomerazione derivanti da densità insediative più elevate.
Questo scenario – considerazione a margine del nostro ragionamento sulla concorrenza in urbanistica – dovrebbe interrogare i tanti sostenitori entusiasti del cosiddetto «consumo zero» di suolo.

2. Il principio di concorrenza nella fase della citta’ che si ricostruisce su sé stessa
A queste considerazione si può obiettare – l’obiezione è quella classica – che con l’allocazione dei diritti di costruire di fatto si ripartiscono beni pubblici teoricamente indivisibili a fini di utilità pubblica. Quindi le questioni inerenti la concorrenza ed il mercato non sarebbero rilevanti nelle procedure di allocazione di questi beni, compreso il suolo, tanto più che questo bene è in larga misura di proprietà privata.
Tale posizione è ulteriormente esaltata dai sostenitori della transizione dai beni pubblici ai meno confinabili concettualmente ed operativamente «beni comuni». La letteratura in proposito è divenuta oramai strabordante.
Al contrario, la ripartizione di beni pubblici in nome del bene pubblico/collettivo, per di più operata da operatori pubblici detentori del potere di pianificazione, dovrebbe far cadere ogni possibilità di dubbio sulla bontà e fondatezza del ricorso all’uso positivo della concorrenza.
In realtà non è così e tutti ne sono consapevoli. Non si comprende perché di fronte a ciò non si possa cambiare il modo di allocare i diritti di costruire, esito finale della ripartizione di beni pubblici espliciti quale il suolo; ed impliciti, quali l’aria, l’acqua, ecc. Ragioni di tradizione e di pigrizia intellettuale? Ragioni di interesse, rappresentate nel «potere di piano»? Tutto ciò non si comprende più oggi che l’urbanistica è divenuta esplicito «scambio» tra il potere di piano e il potere di trasformazione reale del suolo sia da parte di operatori e privati che pubblici, che operano comunque con un atteggiamento orientato al mercato.
Probabilmente entrambe. Ma anche altre ragioni si intravedono e sono di carattere pratico: dall’architettura della pianificazione, alla formazione della domanda pubblica, alla sua declinazione nell’allocazione di diritti di costruire, nelle quali-quantità, nelle forme, nei modi e nei tempi di sfruttamento di questi, sino alle forme di redistribuzione dei plusvalori e della compensazione dei minus valori, cioè alla tassazione.

3. Il vulnus alla logica del piano urbanistico generale rappresentato dalle varianti urbanistiche: la messa in concorrenza come modalità per rilegittimarne la validità
Il problema della concorrenza, cioè del rispetto del principio, si fa ancora più acuto nel caso delle varianti agli strumenti di pianificazione. Ed è un problema di sempre, per tutte le tipologie di varianti, ad eccezione di quelle “generali”, in pratica veri e propri nuovi strumenti di pianificazione.
Il problema riguarda infatti sia il caso delle varianti di area o “puntuali” che quello delle varianti “di settore” che possono avere ad oggetto l’assetto viario, le attrezzature di servizio alla popolazione, settori funzionali (attività produttive varie), ecc.
E combinazioni di settori funzionali: la variante “a verde e servizi”, è un classico esempio.
Le varianti sono fisiologiche, per quanto una certa critica radicale tenda a demonizzarle. Di solito sono mal viste dal fondamentalismo urbanistico perché risponderebbero solo ad esigenze particolari di qualche portatore di interesse (contro l’interesse pubblico generale cristallizzato nel piano). Da parte dei critici “a prescindere”, infatti, si sottovaluta il problema che l’urbanistica opera sempre in regime di incertezza, come ogni disciplina che cerca di prefigurare il futuro. Anche il piano più conservativo – quello che prevede poca o nulla trasformazione di nuovi suoli -, avrebbe bisogno di «aggiustamenti» continui per poter rispondere al mutare continuo di esigenze e condizioni.
Come riportare quell’interesse particolare a quello più generale? Questo è il problema.
È a questo punto che entra, e può perfino aiutare a risolvere il problema, la questione della concorrenza.
È indubbio che la variante rappresenti un «vulnus» al principio della contemperazione contestuale e sincronica degli interessi identificato nel piano che si vuole o deve variare.
Pure nella fondata acquisizione che il piano è un atto unitario a contenuto diseguale. Con la variante si inficia l’aspetto della unitarietà, mentre si «flessibilizza», adattando il piano a nuove esigenze e condizioni, quello del contenuto/contenuti.
La variante urbanistica è di fatto la risposta alla variazione continua della domanda di città, data la impossibilità, stante l’attuale sistema di pianificazione, di realizzare davvero la cosiddetta «pianificazione continua» o «processuale».

La questione è quindi quella di dare uno statuto nuovo alla variante e più in generale alla cosiddetta «urbanistica per operazioni», nozione più precisa anche se meno usata, di quella di «urbanistica di progetto» e/o «per progetti»[6].
Il caso, di grande attualità, della realizzazione dello stadio della Società Sportiva Roma Calcio a Roma, può illuminare su molti punti della problematica[7].
Sono note le vicende del progetto reso possibile dall’art. 1, commi 303-306, l. n. 147/2013 (legge finanziaria), che consente ad una società di calcio di proporre la realizzazione di una struttura di sua proprietà per la pratica di questo sport a patto che l’operazione sia in «equilibrio economico».
Vale a dire che non gravi sulle finanze pubbliche.
La proposta viene valutata dal comune competente sotto tutti i profili; in particolare l’«impatto» che questa avrà sulla situazione di fatto e quella di piano.
Quindi l’opera dovrà essere «inserita» nel piano, previa una variante, con tutto quello che precede e consegue alla sua approvazione.
Molto probabilmente dalla valutazione potrà emergere la necessità che l’opera debba essere resa compatibile con lo stato di fatto e con il contesto programmatico per mezzo di altri interventi qualitativamente e ulteriori quantitativamente rispetto a quelli già previsti dal proponente, ma sempre compatibili con il cosiddetto «equilibrio economico», per quanto riguarda l’accessibilità, l’ambiente, ecc. Senza conti cioè per la collettività.
Chi fa fronte ai maggiori costi di questi interventi?
È a questo punto che si può determinare lo scambio tra potere di piano e trasformatore. Quest’ultimo si potrà far carico dei maggiori costi, ma a condizione che l’intervento possa essere accompagnato da volumetrie aggiuntive per ospitare ulteriori attività economiche.
La legge citata esclude che si possano realizzare residenze[8]. Quindi solo ulteriori attività commerciali, uffici, ecc., rispetto a quelli già programmati con il piano urbanistico vigente oltre quelli esistenti e/o in corso di realizzazione.
Un problema in sé è quello della realizzazione delle opere di urbanizzazione che, superando la cifra di 5.225.000 €, dovranno essere messe a gara da parte dello stesso trasformatore, di fatto stazione appaltante[9].
Sull’entità di tali opere, nel caso di Roma, vi è poi la questione del cosiddetto «contributo straordinario» che il privato deve versare al comune nelle operazioni di trasformazione urbanistica: (art. 20 delle Norme Tecniche di Attuazione del PRG; il contributo è pari a 2/3 della valorizzazione, stimata secondo le modalità di calcolo definite nella delibera consiliare 128/2014)[10].
Ed è proprio la mancata attenzione all’impatto sulle previsioni di trasformazione/diritti edificatori già allocati, dal PRG vigente, prodotto dall’«entrata in campo» dei diritti edificatori ottenuti in controprestazione di opere pubbliche, che preoccupa e dovrebbe preoccupare il decisore pubblico, regolatore del mercato.
Nessuno ha finora rilevato esplicitamente questo impatto. Che sarà tale da alterare il mercato come regolato dal piano vigente, con conseguenza anche sul piano funzionale e morfologico della città[11].
Nel caso di specie, di fatto, si creerà una nuova polarità urbana, cioè una nuova «porzione di città», del tutto non prevista dal piano vigente, probabilmente molto più attrattiva e quindi maggiormente appetibile rispetto a quelle programmate dal PRG vigente.
Il caso della localizzazione del nuovo stadio è esattamente questo: oltre l’impatto immobiliare, ci sarà anche quello funzionale-morfologico. A distanza ravvicinata il piano vigente prevede una cosiddetta «centralità» (Acilia – Madonnetta), con lo scopo di riqualificare una parte della periferia sud di Roma.
Il nuovo intervento come interferirà con la previsione di realizzare questa centralità? Si tenga conto che dal 2008 ad oggi, data di approvazione del piano vigente, delle numerose centralità previste, praticamente nessuna è stata pienamente realizzata. Ciò a testimoniare non solo di una certa astrattezza di questa ipotesi programmatica, ma più in generale della debolezza del mercato immobiliare[12].
A completamento della riflessione sull’impatto della nuova consistente immissione sul mercato di diritti edificatori (nel caso equivalenti a 5-600.000 mc circa), si deve considerare l’aspetto della tassazione dei terreni già destinati a uffici ed altro previsti dal piano vigente. Soprattutto, ma in astratto non solo, quelli più vicini. Questi diritti di edificabilità potenziale, sono infatti tassati (d.l. 223/2006, convertito in l. n. 248/2006, “Visco-Bersani”), mentre i nuovi lo saranno solo a seguito dell’adozione della relativa variante.
Cosa potrà succedere il giorno che per effetto della nuova previsione perderà di valore quanto già programmato dal piano vigente: richieste di restituzione di tasse, cause per danno? Il tema degli «oneri negativi» – conseguenza della tendenza dei proprietari oramai molto diffusa a rinunciare ai diritti di costruire già loro assegnati -, che è già sul tavolo di molti comuni, dovrebbe far pensare prima di trattare con sufficienza questo problema, sempre più accentuato per via della persistente crisi economica che si riflette in quella edilizia.

4. Un nuovo statuto dell’urbanistica per operazioni e l’inversione del rapporto tra piano generale e piano attuativo, ovviamente passando per una profonda rivisitazione del piano generale
Ma, come dicono, ad esempio in Spagna, è inutile combattere contro le varianti: queste sono ad horas. Se così è, e non sembra proprio che possa essere diversamente, a meno di passare davvero ad una flessibilità del piano che renda possibile prendere decisioni in tempo reale: contrattazione e valutazione, anche d’impatto, diverrebbero la nuova forma piano[13]. Il superamento della necessità di ricorrere di continuo a varianti aveva ispirato la articolazione del vecchio piano regolatore generale della legge n. 1150/1942 in piano strutturale e piano operativo, proposta con le leggi urbanistiche delle Regioni, nella cosiddetta «seconda stagione».
Senza arrivare a questo, anche se l’uso esteso della interattività nella analisi della domanda e nella partecipazione del pubblico ai processi decisionali in urbanistica potrebbe un domani anche consentirlo: è evidente che si dovrebbero profondamente modificare gli statuti del piano e dei suoi strumenti attuativi, oltre quanto tentato da alcune Regioni con la ricordata articolazione in strutturale ed operativo del piano, in particolare lo statuto dell’«urbanistica per operazioni».

E la concorrenza? Proprio il rispetto del principio e applicazione della sua logica, potrebbero soccorrere in attesa di una tale rivoluzione.
Perché non aprire una procedura ad hoc sull’offerta del proponente? La valutazione comparativa delle offerte sarebbe garantita e quindi rispettato l’obbligo della contemperazione degli interessi confliggenti.
La variante avrebbe una maggiore legittimazione.
Un altro accorgimento è rappresentato dalla possibilità di valorizzare lo strumento del piano dei servizi, formato unitariamente al piano generale. In questo piano, di fatto, dovrebbe essere definito il quadro delle opere pubbliche ritenute necessarie e la loro priorità: sicurezza del territorio, risanamento ambientale, welfare urbano, reti tecnologiche, eliminazione di detrattori ambientali e/o paesaggistici, ecc.
Il vantaggio di disporre di un tale elenco «certo» di opere è quello che nello scambio tra potere pubblico di piano (e di variazione dello stesso) e controprestazione richiesta al privato, le opere da realizzare risponderebbero ad un quadro esigenziale predefinito, almeno nelle esigenze fondamentali e accertate del territorio da trasformare.
Non sarebbe, cioè, il risultato di una trattativa puntuale e casuale.
Che, ovviamente, può prestarsi ad arbitrarietà decisionale sino alla acquisizione forzata del consenso, per non dire di aspetti che possono interessare il codice penale.
La storia delle cosiddette «compensazioni» che accompagnano la realizzazione di opere pubbliche è maestra. Soprattutto quando queste – come invece dovrebbero – non sono in «link» con l’opera principale.

5. Un ulteriore vulnus al diritto della UE: il rischio della procedura di infrazione per aiuti di Stato[14]
Questo delle controprestazioni, allorché sono espresse in opere pubbliche, è un caso che presenta ulteriori interessanti profili, in specie quando le controprestazioni sono consistenti economicamente.
Oltre il problema già ricordato dell’obbligo della gara, si può profilare un altro problema.
In fondo queste opere, funzionali alla valorizzazione di una porzione di territorio di proprietà privata e nella quale si svolgeranno attività private anche se di uso pubblico/collettivo, rappresentano un vantaggio per il privato. Più o meno grande, a seconda della loro entità.
Il privato in tale modo viene «aiutato» dall’operatore pubblico, che gli consente di sostenere il costo di realizzazione ed anche di gestione in determinati casi, con la concessione di volumetrie aggiuntive la cui vendita rende possibile realizzare le opere d’urbanizzazione. A guardare alle concessioni demaniali, ad esempio quelle portuali, che presentano notevoli analogie con la contrattazione in urbanistica e nelle quali il rischio di avvio di procedure di infrazione per aiuti di stato è tutt’altro che teorico, sorge il dubbio. Basterebbe vedere quante sono le procedure aperte in molti dei più grandi porti italiani.
Quando il valore economico della controprestazione è elevato e le opere di urbanizzazione che vengono realizzate non rispondono a interesse generale, ma solo allo specifico scopo di rendere realizzabile l’opera/attività privata, non si pone il problema, appunto, di incorrere nella procedura d’infrazione per aiuti di Stato? Che in definitiva sono sempre forme di non rispetti del principio di concorrenza. Anche perché l’opera pubblica in sé non è garanzia di interesse pubblico di una trasformazione urbanistica.

6. Prime conclusioni tentative
Le preoccupazioni di cui sopra – vulnus al principio di concorrenza e rischio di infrazione per aiuti di stato -, forse sono eccessive.
Ma non sembrano infondate e comunque tali da richiedere l’attenzione degli studiosi e forse anche della speciale Autorità Antitrust, se non altro per fugare queste preoccupazioni.
E, più in generale, per progettare una profonda rivisitazione della nostra legislazione urbanistica, soprattutto quella statale, alla quale è affidata la cura e la disciplina della proprietà immobiliare.
Progettazione necessaria non solo per risolvere le questioni alla base dei progetti di legge sul «governo del territorio» che giacciono da tempo in Parlamento o delle leggi urbanistiche e/o di “governo del territorio” regionali, continuamente in revisione, ma anche quelle sollevate in questo scritto.

Note

1.  Alfredo Gigliobianco e Gianni Toniolo (a cura di), in Concorrenza, mercato e crescita in Italia: il lungo periodo, Collana storica della Banca d’Italia, Marsilio, Venezia 2017, mostrano come l’idiosincrasia per la concorrenza in Italia non riguardi solo l’urbanistica; si veda anche la recensione al volume citato di Giorgio Barba Navaretti, su Domenica, 23 aprile, 2017 dal titolo: Una cultura anticompetitiva. Per una panoramica sullo stato attuale della concorrenza in Italia è utile, di Luciano Capone, Concorrenza o barbarie. Quando il riformismo dorme, avanzano gli stregoni: le norme anti Flixbus, Uber, Amazon, Il foglio, 11 aprile 2017. Ma neanche negli U.S.A sembra che le cose vadano molto bene: Cfr. Economist, 16/4, commentato su Il foglio, 24 aprile 2017.

2.  In un articolo su ApertaContrada, il 9 marzo 2012, abbiamo tratteggiato in termini generali la problematica del rispetto del principio di concorrenza nel diritto urbanistico e nella prassi applicativa.

3.  La contractualisation dans le droit de l’urbanisme, Le Gridauh, Cahier n. 25/2014, La Documentation Française, Site officiell www.gridauh.fr/les –cahiers – du – gridauh. Il Rapporto sull’Italia è stato curato da Giorgio Pagliari, mentre Sandro Amorosino affronta il tema del contratto nelle operazioni di pianificazione urbanistica.

4.  M. Malaurie – Vignakl F. Rism, Urbanisme commerical et droit de la concorrence, in Urbanisme commercial et droit de la conconrrence, n. 34/2011.
2004. Charbit Urbanisme et concurrence: à propos de l’application des regles de concourrence à l’urbanisme commercial, DroitAdministratif, 10/2004.

5.  Baraud – Sarfaty, La ville restera-t-elle gratutite?, Futuribles, n. 406/2015 pp. 5-20.

6.  Mi permetto di rinviare ai nostri lavori su tale problematica; in particolare in occasione di seminari e convegni ANCE.

7.  Il vulnus al principio di concorrenza insito nell’operazione urbanistica che ha al centro la realizzazione del nuovo stadio della A.S. Roma Calcio, lo abbiamo già sollevato con alcuni articoli, scritti con Sergio Pasanisi su Il foglio: 22 giugno 2016: Un’idea per i sindaci: l’urbanistica non può fare a meno della concorrenza. Lo stadio della Roma, un caso di scuola; 24 febbraio 2017: Consigli a Virginia Raggi (e Beppe Grillo) per fare lo stadio.
Anche il Prof. Cesare Mirabelli, già presidente della Corte Costituzionale, ma con riferimento all’art. 62 del D.L. n. 50 del 24 aprile 2017 detto «manovrina», lo rileva nella intervista rilasciata alla Cronaca di Roma de Il Messaggero del 22 aprile 2017.
La stessa valutazione la fa Mario Ajello nell’articolo Quel regalo dello stadio acchiappa-voti. Pd e M5S folgorati sulla via di Tor di Valle, sempre su Il Messaggero del 22 aprile 2017.
Il citato decreto riforma anche l’istituto della conferenza dei servizi nell’approvazione delle varianti urbanistiche, sempre con riferimento agli impianti sportivi, ed amplia la gamma delle funzioni realizzabili, includendovi anche la residenza. Lo stesso decreto sembra considerare nel «progetto di fattibilità» anche le trasformazioni urbanistiche: si prevede infatti la sottoposizione di questo livello di progettazione a VIA e non, dati i contenuti tipici di un piano attuativo in variante, alla VAS.
Vedremo se in sede di conversione in legge si provvederà a correggere l’errore o se dovremo assistere a qualche nuovo contenzioso interno e/o nei confronti della UE.

8.  Come anticipato nella nota 7, il D.l. 50/2017 che modifica l’art. 1, comma 304 della l. n. 147/2013, consente anche la realizzazione di residenze.

9.  La problematica di attualità, per via del «nuovo» Codice dei Contratti, che affronta la questione, a mio parere senza risolverla, nell’art. 20 che sembra essere in netto contrasto con quanto ha sentenziato la Corte di Giustizia Europea proprio sul modo come affrontiamo la questione delle opere a scomputo; nonché in generale sulla questione della qualificazione delle stazioni appaltanti: anche il privato che bandisce una gara per opere di urbanizzazione deve avere quella qualificazione?

10.  Di fatto di validità generale a seguito dell’art. 16, comma 4, lettera d-ter) del DPR 380/2001 sulla base della modifica del D.L. 78/2010, art. 14, comma 15, lettera f) e del D.L. 133/2014, art. 17, comma 1, lettera g) del D.L. 133/2014.

11.  Implicitamente considera questo problema Rudy Ricciardi, Presidente di Federbeton, nella relazione su“Il livello di effettiva concorrenza nel mercato delle costruzioni, tenuta in apertura del Convegno su Regole, Concorrenza e Mercato. Le occasioni mancate per fa ripartire l’Italia, Roma, 21 giugno 2016.

12.  Non solo non si realizzano le nuove “centralità” programmate ma non si riescono neanche a garantire le dotazioni territoriali presenti in quelle esistenti: vedi la Cronaca di Roma de Il Messaggero del 25 aprile 2017, dove si lamenta proprio lo stato di abbandono dell’esistente parco della Madonnetta, «polmone verde» di Acilia.

13.  Su questo tema, insieme con altri, presentammo una ricerca che fu premiata, in un concorso indetto dalla Fondazione Aldo Dalla Rocca (1980), in materia di innovazioni urbanistiche.

14.  Debbo questa sollecitazione ad Anna Romano con la quale abbiamo discusso il testo. Ovviamente ogni responsabilità è nostra.