Note a margine del convegno del 10 marzo 2017

di Francesco Levino Petrosemolo
Contributo collegato a: L’intervento di capitali privati nella realizzazione di opere pubbliche in Italia

Con questa nota vorrei fissare e puntualizzare un po’ più estesamente alcuni degli argomenti da me sollevati nel corso del Convegno, commentare brevemente alcuni spunti di altri interventi e auspicare che il tutto possa avere un seguito e non essere uno dei tantissimi quanto sterili episodi di genere.
In realtà, il nodo dell’attrazione del capitale privato per le opere pubbliche, se è questo il tema che interessa veramente, riguarda solo marginalmente il tema del Codice degli Appalti. L’algoritmo è molto più complesso e coinvolge una molteplicità di fattori endogeni ed esogeni al Codice stesso.
Il capitale privato, che come è noto è apolide, va dove meglio (e prima) trova una sua remunerazione, con buona pace di troppe visioni provinciali e inadeguate ai tempi di oggi che ancora impastoiano il sistema nostrano degli investimenti.
Ora, se questo Paese vuole realmente incrementare la propria dotazione infrastrutturale (considerando l’enorme deficit di cui possiamo essere fieri in questo campo rispetto ad altri paesi) contando “anche” sull’intervento del capitale privato, esso non può fare ipocritamente finta che le esigenze del capitale siano secondarie alle garanzie, sacrosante, che la P.A. deve pretendere. Devono essere perlomeno paritetiche, in caso contrario l’equazione non tornerà mai, perché il capitale privato non ha nessun obbligo a essere tirato per i capelli e non aspetta altro che di trovare altre collocazioni.
Sfido chiunque a sostenere il contrario.

1. Premessa
Sono profondamente convinto che se si cerca di analizzare i problemi da una prospettiva statica “ad oggi” non si riuscirà mai a trovarne una soluzione. È fondamentale invece cercare di andare a ritroso nel tempo, ed effettuare una “anamnesi” che chiarisca quali sono i presupposti sbagliati da cui è partita la filiera degli errori che si scontano oggi.

2. La questione della gestione
Ha detto bene chi al Convegno ha ribattuto a chi sosteneva che bisogna trovare il sistema di far decollare il PF in Italia: da noi il PF non deve decollare o svilupparsi, deve ancora partire da zero.
È a tutti noto che i vagiti del PF in Italia nascono ben 23 anni fa con l’avvento della Merloni 1. È un po’ meno noto, visto il tempo ormai trascorso e il fatto che coloro che vissero in diretta quell’epopea, sono sempre meno, che la Merloni nacque, sull’onda di Tangentopoli, come strumento catartico per liberarsi di un intero sistema che, norma più norma meno, durava quasi da 150 anni.
Come spesso accade, insieme all’acqua sporca fu buttato anche il bambino.
I due grandi pilastri innovativi e fondanti del nuovo “sistema” furono: a) la creazione ex novo di una nuova filiera di responsabilità nel sistema pubblico, culminante con la creazione del RUP (per la verità un accenno c’era stato già con la 241 del ‘90, ma zoppo di quella paroletta “unico”), che finalmente individuava un parafulmine di tutte le nefandezze che potevano verificarsi nell’apparato pubblico (anche sul RUP gli errori sono stati catastrofici sin dall’inizio e varrebbe la pena di dedicarvi un Convegno), b) l’invenzione della “concessione di costruzione e gestione” che, cancellando con un colpo di spugna la precedente concessione, quella famigerata “di committenza”, che portò praticamente allo sfacelo il sistema delle partecipazioni statali, salvo farlo risbucare da altri tombini (leggi Grandi Stazioni, Sistemi Urbani, Invitalia, EUR SpA, CDP Immobiliare, ecc.), introduceva la bacchetta magica del Project Finance all’Italiana, che d’incanto avrebbe sostituito col privato la caduta verticale ed inarrestabile della spesa per investimenti nel bilancio dello Stato (per fare sempre più posto alla ipertrofica spesa corrente).
E lì, a causa della fretta e dello scarso approfondimento del tema, tutt’altro che semplice, si consumò il “peccato originale” che si trascina ancora oggi come un sofisma dalle premesse sbagliate in tutta quella corposa parte delle norme ove si parla del PF e dei suoi corollari, e cioè i vari Codici, integrazioni, Regolamenti, Decreti Correttivi e Norme Transitorie che si sono accavallati nel corso di 23 anni, senza portare a nessuna svolta concreta.
L’errore, madornale se solo si fosse messo il naso al di là delle Alpi, consistette nell’impostare subito il magico strumento come un sottoprodotto dell’appalto tradizionale di lavori e quindi irregimentandolo senza rimedio nel groviglio delle norme sulle opere pubbliche e mettendo sotto il mirino il solito attore protagonista, nel bene e nel male, della trasformazione del nostro territorio dal dopoguerra in poi: il costruttore.
Il povero costruttore, ignaro, consapevole solo del fatto che si stava raschiando il fondo del secchio per trovare risorse tradizionali pubbliche per le infrastrutture, all’inizio salutò con entusiasmo la nuova trovata e ci mise un grande impegno per trovare formule che gli consentissero di tornare ad essere la primadonna nel settore: diede suggerimenti, partecipò a commissioni, fece accordi col sistema del credito, cominciò a investire (poco, pochissimo) in progetti innovativi.
Poi, a poco a poco, capì la magagna, ovvero che: a) doveva fare fior di progetti, costosissimi, senza avere la minima certezza che sarebbero stati realizzati e quando, b) che, quand’anche fossero stati realizzati, avrebbe dovuto tenersi sul groppone per 30 o 50 anni un oggetto ingombrante, facendo un lavoro che non era il suo per gestirlo, c) faticare come una bestia per rientrare del sangue che aveva anticipato per realizzare l’oggetto, quando, con un margine d’appalto o con una vendita immobiliare, poteva avere grandi soddisfazioni in poco tempo, comprarsi la barca e farsi una bellissima villa in Sardegna. Ce ne era abbastanza per tirarsi indietro e tornare al vecchio caro sistema degli appalti e dell’edilizia, quel poco che ne restava, dove il turn-over imprenditoriale era al massimo di 5-6 anni.
Il legislatore non capì un’acca di quello che stava succedendo e si accanì pervicacemente nei vari correttivi successivi, mettendo paletti, facendo concessioni e poi rimangiandosele, insomma peggiorando sempre di più la situazione.
A voler poi far peccato essendo maliziosi, come diceva un certo signore che non c’è più, ma la sapeva lunga, si potrebbe sospettare che il tutto sia stato architettato dalla categoria degli avvocati per potersi assicurare il lavoro per i prossimi 30 anni.
A nessuno venne in mente in ogni caso che bastava spostare di poco l’asse dell’impegno legislativo per collimare e mettere a fuoco la vera figura protagonista del Project: il gestore.

Ma come si fa a non capire che, nell’arco di vita di una concessione sì e no un decimo del tempo (al netto del rischio amministrativo s’intende, ma questa è un’altra storiella all’italiana a cui si arriverà dopo) è impegnato dal progetto e dalla costruzione? E ugualmente, come si fa a non capire che per il futuro dei successivi 25, 30 anni ci deve essere un signore, molto bravo e coraggioso, che si deve fare carico: a) di capire se il progetto soddisfa le esigenze del mercato (e se è fatto male il progetto, cosa frequentissima, sono dolori), b) di vendere il servizio tramite l’oggetto realizzato, col massimo della competitività, c) di provvedere alla manutenzione ed all’aggiornamento delle tecnologie per mantenere il vantaggio competitivo, d) fare fronte agli impegni presi col sistema del credito, e) magari di ritagliarsi un margine di guadagno, f) di restituire lindo e pinto l’oggetto alla PA alla fine del periodo di concessione?
La realtà è che in Italia non ci sono gestori, o perlomeno non ce ne sono alla scala imprenditoriale che richiederebbe un vero sviluppo del PF, che invece si è sviluppata all’estero, e questo riguarda tutti i settori.
Perché? Perché in Italia si è persa, se mai c’è stata, la visione imprenditoriale del medio-lungo termine. Questa visione implica da un lato saper sviluppare una “vision” di quali saranno le esigenze della domanda nel futuro, e quindi prepararsi alla flessibilità, e dall’altro avere finanziariamente e patrimonialmente le spalle sufficientemente larghe per affrontare più o meno serenamente le sinusoidi che inevitabilmente si verificano dal punto di vista congiunturale nel corso dei 20, 30 anni del ciclo di vita di una iniziativa imprenditoriale. A questo occorre aggiungere che, proprio per fare fronte a questo tipo di scenari, da tempo gli imprenditori stranieri hanno creato agglomerati alla grande, grandissima scala, spesso globale, con cui si spartiscono il mercato delle gestioni.
Un esempio? Il settore alberghiero, molto più vicino al mondo del PF di quanto si possa immaginare (ne è un esempio la recente esperienza della Nuvola dell’EUR, su cui tornerò più in là), ma un altro settore calzante potrebbe essere quello dei grandi centri commerciali.
L’80% del settore alberghiero mondiale è in mano ad una decina di operatori (Marriot, Four Seasons, NH, Hilton, Aman, Kempisky, ecc.).
Sapete quanti alberghi ci sono in Italia? Circa 43.000. Sapete quanti sono gli albergatori? Circa 42.000, dato che la dice lunga sulla frammentazione e la dimensione media delle nostre aziende di questo settore. Il solo fatto che esistano ben 3 associazioni di categoria è emblematico del nostro provincialismo.
10, 12 degli albergatori in Italia hanno in mano circa il 40% del fatturato complessivo del settore, e non sono italiani. Sono, appunto, le grandi catene spagnole, francesi, americane ed ora anche cinesi che, a poco a poco, stanno impadronendosi delle nostre migliori location e delle più prestigiose e storiche strutture ricettive del nostro Paese. Nel nostro sistema si salva solo l’Alto Adige, che ha saputo sviluppare e valorizzare un sistema fortemente autoreferenziato e familiare costituito da una fitta rete di interconnessioni locali.
Perché tutto ciò?
Perché francesi, spagnoli, ecc. hanno sviluppato il mestiere del gestore alla grande scala, dedicandosi ad affinare solo questo mestiere.
Come? a) creando dei format di successo, replicati a Dubai come a Milano, in cui il cliente affezionato riconosce subito le caratteristiche della catena, b) evitando accuratamente, se non in rarissimi casi, di essere proprietari delle mura, per non immobilizzare i propri capitali, lasciando questo compito a chi lo fa di mestiere, cioè i fondi immobiliari, c) diversificando il proprio portafoglio in brand i cui bilanci vanno a consolidarsi in una holding, d) rinnovando continuamente il patrimonio gestito, adeguandolo al ciclo di vita della stanza, o key, come viene definita pragmaticamente nel gergo internazionale.
Un corollario interessantissimo? Da molto tempo ormai la valutazione dell’”oggetto albergo”, nel caso di transazioni, vendite, stime, ecc., avviene solo ed esclusivamente sulla base dell’attualizzazione dei redditi futuri, con un business plan che valuta la percentuale di occupancy annuale, il costo di manutenzione, il costo di gestione, ecc.
Il valore delle mura, o della stanza, come parametro una volta usato, non conta più nulla.
Ecco, quest’ultimo elemento, per esempio, è uno di quei metodi che stentano moltissimo ad entrare nella mentalità italiana, di tutti gli attori che operano a qualsiasi titolo nella trasformazione del territorio: le banche perché continuano ad avere in mente solo le garanzie “reali”, gli imprenditori perché pensano al patrimonio, gli amministratori pubblici perché non sono abbastanza preparati. Ma già se si immaginasse di trasferire questo diverso concetto di creazione del valore attraverso i flussi della gestione anche nel mondo delle infrastrutture, forse si farebbe un notevole passo avanti dal punto di vista della cultura del Project Financing.
Intendiamoci, io mi riferisco in special modo a quel segmento delle concessioni compreso più o meno tra 50 e 500 milioni di Euro detto “il PF all’italiana”, in cui rientrano soprattutto le “opere calde”, le quali comunque potrebbero arricchire moltissimo il patrimonio infrastrutturale del nostro territorio colmando un gap drammatico con altri paesi concorrenti: parcheggi, cimiteri, ricettività, portualità turistica, in parte strutture sportive, ecc.

3. La questione dell’urbanistica vs appalti
Un altro aspetto molto importante che ancora oggi rende difficoltoso il percorso dei capitali di investimento verso il comparto delle infrastrutture in Italia, e che è stato sollevato anche da altri interventi oltre il mio, nel corso del Convegno, è quello della netta separazione “strutturale” tra il mondo dei lavori pubblici e quello dell’urbanistica.
Per “strutturale” intendo dire che si tratta di una barriera non solo normativa, che pure c’è ed è anche molto consistente, ma che soprattutto appartiene alla sfera “culturale” di chi si occupa a vario titolo di “trasformazione del territorio”.

a. Le imprese di costruzione storicamente (io che per quasi 20 anni ho militato dentro l’ANCE posso dirlo con cognizione di causa) si dividono in appaltatori ed in costruttori in proprio e le incursioni l’uno nel campo dell’altro sono state rarissime e spesso con esiti pessimi. La differenza è talmente radicata che anche le organizzazioni amministrativo-finanziarie dei due settori imprenditoriali sono diametralmente opposte: gli appaltatori strutturano le proprie aziende per minimizzare al massimo gli immobilizzi, contando sul turn-over degli incarichi, sulle anticipazioni bancarie e sul margine d’appalto. I costruttori in proprio (per dirla alla romana, i palazzinari), strutturano tutto sul rapporto domanda-offerta (a volte anche forzandolo), ricorrendo alle banche per prestiti ipotecari successivamente da frazionare e girare al mercato e patrimonializzando la propria impresa (mai per tempi superiori ai 5-6 anni però);
b. Gli avvocati: altrettanto storicamente gli amministrativisti non osano addentrarsi nei meandri delle norme urbanistico-edilizie e, viceversa, altrettanto fanno i civilisti esperti in edilizia privata;
c. I tecnici, ovvero i progettisti, se la cavano un po’ meglio, in quanto la ristrettezza degli incarichi da 30 anni a questa parte ha fatto sì che dovessero per forza attrezzarsi a fare un po’ di tutto.

Tutto ciò cozza contro la logica dell’intervento dei capitali privati nel campo delle infrastrutture, perché è lapalissiano che il capitale, piaccia o no, si muove partendo dalla eterna logica del rapporto domanda-offerta, e quindi del mercato tipico dell’edilizia privata, che deve in qualche modo amalgamarsi con le logiche diverse che regolano il mondo delle infrastrutture. Queste ultime, come è noto, sono manufatti di natura eminentemente pubblica e quindi “dovrebbero” esulare, anche normativamente, dalle regole del mercato. Purtroppo, come già detto, nessuno può tirare per i capelli il capitale e costringerlo a finanziare un’opera pubblica, se le condizioni per realizzarla non sono gradite al capitale.
Un esempio tipico è stata la confusione e il panico ingenerati a tutti i livelli dal recepimento della direttiva europea che sostiene perentoriamente che le opere di urbanizzazione di una lottizzazione edilizia (le cosiddette opere a scomputo) debbono essere trattate come opere pubbliche (direttiva recepita inizialmente nel famoso art. 32 c. 1, lettera g del vecchio Codice 163 e che oggi trova timidamente posto nell’art. 20 del Dlgs 50/16.
La morale, quindi, è: o il comparto delle opere pubbliche fa dei passi verso le logiche del privato (e viceversa), o le infrastrutture, col capitale privato, non si faranno mai, perlomeno alla scala di cui c’è bisogno in questo Paese per mitigare il gap che lo divide dal resto dell’Europa.

4. La questione della sottocapitalizzazione
La questione della sottocapitalizzazione del sistema imprenditoriale italiano è cosa nota e storica. Come incide sul mancato decollo del PF? In modo semplice e intimamente collegato con le argomentazioni precedenti: la sottocapitalizzazione non consente di sostenere: a) attività progettuali impegnative ed a rischio – cioè investire in (buoni) progetti e svilupparli, perlomeno nella fase del Master Plan e della Fattibilità, senza la certezza che vengano realizzati -; b) i tempi lunghi ed incerti delle pratiche amministrative; c) la realizzazione di un’opera e metterla a regime, guadagnando unicamente sulla gestione dell’opera stessa.
Il sistema imprenditoriale italiano non è attrezzato per questo, a meno che non si affaccino sul mercato due nuove figure, che all’estero già operano da sempre.
La prima è quella del gestore, e già se ne è parlato. La seconda è:

5. La figura del developer
Il developer è una strana figura, a metà tra il professionista e l’imprenditore. All’estero ci sono gruppi enormi che fanno questo mestiere.
In sostanza, il developer investe in progetti, li valuta, li sottopone al mercato e, a seconda dei casi, li sviluppa in proprio o li vende agli investitori istituzionali, guadagnando sulla valorizzazione che ha portato avanti fino al livello che più ha ritenuto opportuno.
Pensate che importanza potrebbe avere una classe imprenditoriale costituita da figure di questo genere in Italia, per esempio nel supporto alla redazione da parte della PA dei piani pluriennali delle opere pubbliche, dove il quadro esigenziale non è mai confortato a sufficienza da analisi e studi di fattibilità, al punto tale che il Codice stesso ora consente, pur timidamente, ai privati di sottoporre proposte da inserire nei piani triennali.

6. Il tema della carenza dei progetti
E qui inevitabilmente si arriva ad uno dei nodi cruciali dell’impasse del PF: la mancanza di buoni progetti.
Ci si può sforzare quanto si vuole in sede legislativa per migliorare la filiera del progetto: il Preliminare non esiste più e ora si fonde con lo Studio di Fattibilità, il Definitivo è ormai a un passo dall’essere un esecutivo, ecc. Ma, se non ci sono i soldi per fare dei buoni progetti, perché i buoni progetti costano, e anche tanto, cosa ce ne facciamo di un intrico complicatissimo di disposizioni su come si fa un progetto?
È un tema delicatissimo e importante che, anch’esso, si lega intimamente con le problematiche esposte in precedenza attraverso un fil rouge logico ed ineludibile.
Questa affermazione è tanto vera che circa 16 anni fa la Cassa Depositi e Prestiti, finalmente consapevole della realtà della carenza dei progetti, provò a inventarsi uno strumento che nelle intenzioni era santo e benedetto: il Fondo Rotativo per la Progettualità. Ma il nome stesso ne decretava il suo fallimento prima ancora di nascere: Rotativo. Ovvero, il Fondo avrebbe sì erogato agli enti locali ed alla PA in generale i fondi (con una serie infinita di clausole, cavilli e griglie, sia ben inteso) per sviluppare progetti, anche quelli che non avrebbero mai visto la luce, ma si sarebbe autorigenerato unicamente attraverso le rimesse degli Enti Locali e della PA, insomma, il cane che si morde la coda.
Figuriamoci se gli Enti Locali, che per il Patto di Stabilità non potevano neanche più accendere un mutuo per rifare la rete di illuminazione del piccolo centro di provincia, potevano accollarsi l’onere di andare a sostenere uno strumento per sviluppare progetti. Infatti, il Fondo non ha mai funzionato. Oggi se ne risente parlare, ma se non se ne modificano radicalmente i presupposti, sarà nuovamente destinato al fallimento.

7. Il rischio amministrativo
Non c’è neanche bisogno di dilungarsi, tanto è un refrain che tutti conoscono fino alla noia: il vero motivo per cui i capitali non investono in Italia non è la mancanza di soldi (privati) o di domanda, è l’incertezza assoluta dei tempi per le autorizzazioni. Basti dire che, per esperienza personale, per la realizzazione di un Porto Turistico gli enti competenti sono quasi 40, di cui la metà circa dotati di potere interdittivo!

8. Le banche
Nei cahiers de doléance del capitolo PF e intervento del capitale privato nelle infrastrutture non poteva mancare, purtroppo, una menzione al sistema bancario/finanziario.
Il nostro sistema è un paradosso vivente: è talmente antiquato che è stato solo marginalmente intaccato dalla catastrofe dei subprime del 2008. Nello stesso tempo la sua arretratezza non gli consente di stare al passo e sostenere adeguatamente nuovi strumenti di sviluppo, come, appunto, il Project Financing.
Perché? È semplice, perché è talmente attaccato alla formula delle garanzie reali (per fortuna, sotto certi aspetti) che non si è mai dato cura di sviluppare in 50 anni una reale capacità di entrare “nel merito del credito”. Non solo, ma negli ultimi 20 anni, con l’ansia di rincorrere il mercato retail, ha smantellato le ottime sezioni (o istituti autonomi) di credito fondiario, che pure esistevano e che avevano contribuito non poco a quella caratteristica che fa, della popolazione italiana, un caso unico forse al mondo e che, non lo dimentichiamo, le consente ancora forse per una generazione di tenere botta sulle crisi globali: la proprietà della casa di bel lunga superiore alla percentuale di affitti, compresa l’edilizia a scopo sociale.
Questi fondiari all’interno avevano allevato grandi professionalità nel settore ipotecario-urbanistico che poi le banche madri non si sono preoccupate di ricambiare e rinnovare, ed oggi non esistono più.
Nel dopoguerra c’è stato un solo istituto finanziario che, raccogliendo l’eredità delle grandi BIN nate con l’IRI, abbia sviluppato una vera specializzazione nell’affiancare l’imprenditoria e gli Enti Locali. Siccome funzionava troppo bene cominciò a suscitare invidie e gelosie e, come tutte le cose belle italiane (per restare in tema si pensi alla cannibalizzazione negli anni ’70 della Sogene, l’unica vera grande realtà italiana del settore immobiliare di respiro internazionale), tra la fine degli anni ’90 ed i primi anni del nuovo millennio si pensò bene di smantellarlo. Le sue risorse umane, che avevano vissuto una eccezionale stagione professionale, furono disperse, come in una diaspora, tra vari istituti, tipo SACE, CDP, altre banche, ecc. La sua meravigliosa sede langue in decadente rovina al centro di Roma da più di 6 anni, emblema della stupidità, se non della malafede.
Insomma, sta di fatto che oggi trovare non dico organizzazioni bancarie, ma anche solamente equipe al loro interno, che sappiano entrare nel merito del credito è veramente impossibile.
Ma che vuol dire, infine, il merito del credito? Vuol dire saper leggere un progetto, conoscere il mercato a cui è diretto, supportare il promotore nello sviluppo del business plan, in due parole: interpretare ed affiancare il mercato e l’imprenditoria. Senza un sistema bancario che sappia fare questo lavoro, come se non bastassero le altre componenti, non c’è niente da fare per lo sviluppo del Project.
Prendiamo ora ad esempio, dal punto di vista finanziario, alcuni aspetti critici che riguardano più da vicino la strumentazione procedimentale che dovrebbe consentire l’intervento del capitale privato per la realizzazione di infrastrutture. E qui ce ne è per tutti, dall’imprenditore alla PA, passando per le banche.
Innanzitutto l’iter. Per esperienza diretta, le tematiche legate al reperimento delle coperture finanziarie sono, nella mente dell’imprenditore che vuole cimentarsi in un Project (ovviamente un tipico costruttore nazionale) un aspetto marginale, da affrontare per ultimo e legato il più delle volte alle conoscenze personali, rispetto alle vere problematiche iniziali, che sono l’individuazione dell’area, i contatti con l’amministrazione, lo sviluppo del progetto, l’aggiudicazione della concessione, ecc.
Naturalmente questo è un errore, perché la Banca, per sviluppare l’istruttoria che porterà alla delibera del prestito, ha bisogno di tempo e ripercorre esattamente lo stesso iter che precedentemente il promotore aveva dovuto seguire per ottenere le autorizzazioni amministrative, e non sente ragioni.
Qualcuno potrebbe dire a questo punto: e l’asseverazione? Che è obbligatoria per legge sin dall’inizio per presentare un’istanza di Project?
Mai vista una prescrizione ed un documento più inutili ed inefficaci dell’asseverazione. La sua istituzione è servita solo per creare un sotto-mercato, tant’è che le associazioni di categoria degli operatori finanziari hanno tanto sbraitato finché in uno dei tanti decreti correttivi non si è consentito anche alle società finanziarie di rilasciare le asseverazioni, e non solo alle banche, come era all’inizio.
L’asseverazione non serve assolutamente a nulla, in quanto non solo non approfondisce con il dovuto impegno il solito “merito del credito”, ma soprattutto perché non è impegnativa per il successivo rilascio neanche di un euro a favore dell’iniziativa, tant’è che non c’è, per esempio, nessun obbligo di continuità tra chi rilascia l’asseverazione e chi poi istruirà la vera pratica di finanziamento.
La realtà è che, se non lo fa l’imprenditore “sua sponte”, dovrebbe obbligarlo la norma a prendere subito contatto con una istituzione finanziaria specializzata (a trovarne una, naturalmente) nella copertura di infrastrutture, ed avviare insieme, attraverso la sottoscrizione di un termsheet, il percorso di strutturazione dell’iniziativa.
Se la Ragioneria Generale dello Stato, che si preoccupa tanto di fare le pulci alla “bozza di contratto tipo” per le concessioni al punto da tenere in piedi da 4 anni (!) un “gruppo di lavoro interministeriale” (!) alla spasmodica ricerca dei rischi “ex post” da accollare al privato per tutelare la PA, si fosse preoccupata invece di rendere obbligatorio in sede contrattuale il perfezionamento “ex ante” di un rapporto “quasi” impegnativo tra privato e banca, forse la “spesa corrente” dello Stato avrebbe avuto una voce più leggera, se non in meno, da sostenere, e con più efficacia.
Il Business Plan, questo sconosciuto. Anche in questo caso ci si ricollega ad alcune cose dette in precedenza. Nel caso di un Project, il Business Plan non può essere altro che la previsione a lungo termine dei flussi di cassa derivanti sì dalla costruzione (in uscita), ma soprattutto della gestione (in entrata).
I “fattori critici di successo” nella “progettazione” del Business Plan” sono le assumption, ovvero i presupposti progettuali e di politica commerciale a medio-lungo termine che condizioneranno, senza appello, il futuro dell’operazione: se un progetto è sbagliato (cioè, sbagliato nei confronti della “domanda” che è in cerca dell’”offerta”, mica dal punto di vista estetico o di solidità strutturale), non ci sono santi, l’operazione è destinata a fallire, il territorio a tenersi l’ennesima cattedrale nel deserto, le banche ad avere un NPL in più e, last but not least, gli italiani a continuare a vivere i un paese con un deficit infrastrutturale incolmabile. Per chiudere il paragrafo del finanziamento, ma, in tutto ciò, la CDP, che fa?
Non dovrebbe essere lei che, detentrice di una liquidità immensa (anch’essa con qualche scricchiolio inquietante) da quando eroga prestiti agli enti locali goccia a goccia, a promuovere non a chiacchiere, ma con fatti concreti la partenza del PF? Eppure le professionalità, finché non andranno in pensione, e ci manca poco, che un’esperienza seria sul campo se la sono fatta, le avrebbe, ma non succede nulla, e non vorrei entrare nel merito della politica real estate della Cassa degli ultimi 10 anni, primo perché andrei fuori tema, secondo perché rischierei una denuncia.

9. I Project bond
Sui Project Bond stenderei un pietoso velo. Non hanno mai funzionato. Perché? Ma anche qui è semplice, perché se non ci sono i progetti (quelli buoni) non ci possono essere i bond. Finito.

10. Un esempio paradigmatico
Vorrei portare, alla fine di questo mio contributo, una esperienza personale, che racchiude in sé tutti, dico tutti, gli ingredienti che ho in precedenza richiamato.
a. la Nuvola
se qualcuno si fosse dato la pena, come il sottoscritto, di indagare sul lunghissimo (18 anni! Il Colosseo è stato realizzato in 5 anni, dice, sì, ma c’erano gli schiavi, e allora i giapponesi che in 5 mesi hanno ricostruito l’autostrada distrutta dal terremoto?) iter che ha seguito la Nuvola per essere realizzata, capirebbe che tutto il sistema del coinvolgimento del capitale privato nelle infrastrutture ha, in nuce, qualcosa di profondamente sbagliato, nonostante la bravura e l’impegno dei tecnici responsabili dell’ente aggiudicatore.
Limitandomi ad un elenco:
strategia di partire come Project financing (seppur con una buona fetta di finanziamento pubblico in conto capitale) e finire con un appalto tradizionale;
scelta del progetto attraverso concorso internazionale con esito quantomeno opinabile;
scelta sbagliata del primo contraente concessionario;
nessun coordinamento preventivo con una “seria” istituzione finanziaria in grado di leggere e “partecipare” al progetto;
rescissione del contratto di concessione con il primo contraente con relativa escussione della fidejussione;
decisione di abbandonare la formula del PF e di trasformare il tutto in appalto tradizionale completamente finanziato dal pubblico (!!!);
vicende varie di controversie tra l’ente aggiudicatore ed il nuovo contraente;
problemi con la commissione di collaudo in corso d’opera;
mancanza di standard urbanistici (leggi parcheggi);
progetto sbagliato dell’albergo, concepito a 4 stelle e non modificabile, per cui nessuna catena di gestione vuole accollarselo (si consideri che, sin dall’inizio, si sapeva benissimo che il Centro Congressi, in sé, non avrebbe mai consentito l’equilibrio economico, che, viceversa, doveva essere garantito dal successo dell’albergo).

Risultato? Un’opera che nasce obsoleta ancora prima di cominciare a funzionare, con quattro aggravanti:
è una presenza quanto mai ingombrante all’interno di un quartiere ormai considerato ufficialmente “Roma Centro Storico”
il vecchio Palazzo dei Congressi del 1938 di Adalberto Libera continua ad essere non solo molto più bello e discreto, ma anche più funzionale;
è costato 2,5 volte il prezzo preventivato nel 2000;
dulcis in fundo, l’albergo affaccia su “Beirut Nord”, come ormai viene chiamata un’altra perla del sistema immobiliare pubblico italiano: i ruderi delle le torri del vecchio Ministero delle Finanze che, grazie all’inefficienza della CDP, sono ancora al palo dopo anni dall’assorbimento di Fintecna. Ma questo è un altro capitolo, insieme a quello del Poligrafico di Piazza Verdi.

11. il tema dei temi: il patrimonio pubblico e quello culturale
Ora, se in tutto questo poco edificante scenario complessivo si inserisce un comparto decisivo per lo sviluppo di questo Paese e delle nostre future generazioni, ci si rende conto di quanto sia impellente ed improcrastinabile una “politica”, perché di questo si tratta, che sottragga alla mediocrità burocratica ed imprenditoriale il grande tema dell’intervento del capitale privato nelle opere pubbliche, smettendola di mettere pannicelli caldi a norme sbagliate concettualmente già in partenza.
Questo comparto è il patrimonio storico, artistico, paesaggistico e culturale dell’Italia, di gran lunga il più ricco del mondo, che, se ben gestito, potrebbe affrancare l’Italia dalle oscillazioni globali dei mercati, consentendogli di prosperare con una rendita di posizione che nessun altro paese al mondo possiede.
Il capitale privato potrebbe, se ben incanalato, sorreggere questa politica invece di scontrarsi, ogni qual volta prova a cimentarvisi, con dei frontali devastanti con la demagogia, la miopia e la burocrazia, le grandi armi in mano ai “mandarini del vincolo”.

12. Conclusioni
C’è un unico sistema per far sì che questa politica si realizzi. Il sistema non è riunirsi per l’ennesimo convegno di speziali osservando le urine al capezzale del paziente e prescrivendo salassi o come le prefiche dell’antica Grecia e del nostro Mezzogiorno a strapparsi i capelli ululando di finto dolore davanti al letto del morto.
Il sistema è fare incontrare il brain power col capitale privato. Di entrambe le risorse abbonda il mondo, e anche il nostro Paese non fa eccezione. Ma se non si rimuovono a monte pregiudizi e pastoie, spesso strumentali ad un gattopardesco immobilismo, questa sintesi clorofilliana, l’unica capace di risollevare la nostra Italia, non si verificherà mai.