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Note a margine del convegno del 10 marzo 2017

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I costruttori in proprio (per dirla alla romana, i palazzinari), strutturano tutto sul rapporto domanda-offerta (a volte anche forzandolo), ricorrendo alle banche per prestiti ipotecari successivamente da frazionare e girare al mercato e patrimonializzando la propria impresa (mai per tempi superiori ai 5-6 anni però);
b. Gli avvocati: altrettanto storicamente gli amministrativisti non osano addentrarsi nei meandri delle norme urbanistico-edilizie e, viceversa, altrettanto fanno i civilisti esperti in edilizia privata;
c. I tecnici, ovvero i progettisti, se la cavano un po’ meglio, in quanto la ristrettezza degli incarichi da 30 anni a questa parte ha fatto sì che dovessero per forza attrezzarsi a fare un po’ di tutto.

Tutto ciò cozza contro la logica dell’intervento dei capitali privati nel campo delle infrastrutture, perché è lapalissiano che il capitale, piaccia o no, si muove partendo dalla eterna logica del rapporto domanda-offerta, e quindi del mercato tipico dell’edilizia privata, che deve in qualche modo amalgamarsi con le logiche diverse che regolano il mondo delle infrastrutture. Queste ultime, come è noto, sono manufatti di natura eminentemente pubblica e quindi “dovrebbero” esulare, anche normativamente, dalle regole del mercato. Purtroppo, come già detto, nessuno può tirare per i capelli il capitale e costringerlo a finanziare un’opera pubblica, se le condizioni per realizzarla non sono gradite al capitale.
Un esempio tipico è stata la confusione e il panico ingenerati a tutti i livelli dal recepimento della direttiva europea che sostiene perentoriamente che le opere di urbanizzazione di una lottizzazione edilizia (le cosiddette opere a scomputo) debbono essere trattate come opere pubbliche (direttiva recepita inizialmente nel famoso art. 32 c. 1, lettera g del vecchio Codice 163 e che oggi trova timidamente posto nell’art. 20 del Dlgs 50/16.
La morale, quindi, è: o il comparto delle opere pubbliche fa dei passi verso le logiche del privato (e viceversa), o le infrastrutture, col capitale privato, non si faranno mai, perlomeno alla scala di cui c’è bisogno in questo Paese per mitigare il gap che lo divide dal resto dell’Europa.

4. La questione della sottocapitalizzazione
La questione della sottocapitalizzazione del sistema imprenditoriale italiano è cosa nota e storica. Come incide sul mancato decollo del PF? In modo semplice e intimamente collegato con le argomentazioni precedenti: la sottocapitalizzazione non consente di sostenere: a) attività progettuali impegnative ed a rischio – cioè investire in (buoni) progetti e svilupparli, perlomeno nella fase del Master Plan e della Fattibilità, senza la certezza che vengano realizzati -; b) i tempi lunghi ed incerti delle pratiche amministrative; c) la realizzazione di un’opera e metterla a regime, guadagnando unicamente sulla gestione dell’opera stessa.
Il sistema imprenditoriale italiano non è attrezzato per questo, a meno che non si affaccino sul mercato due nuove figure, che all’estero già operano da sempre.
La prima è quella del gestore, e già se ne è parlato. La seconda è:

5. La figura del developer
Il developer è una strana figura, a metà tra il professionista e l’imprenditore. All’estero ci sono gruppi enormi che fanno questo mestiere.
In sostanza, il developer investe in progetti, li valuta, li sottopone al mercato e, a seconda dei casi, li sviluppa in proprio o li vende agli investitori istituzionali, guadagnando sulla valorizzazione che ha portato avanti fino al livello che più ha ritenuto opportuno.
Pensate che importanza potrebbe avere una classe imprenditoriale costituita da figure di questo genere in Italia, per esempio nel supporto alla redazione da parte della PA dei piani pluriennali delle opere pubbliche, dove il quadro esigenziale non è mai confortato a sufficienza da analisi e studi di fattibilità, al punto tale che il Codice stesso ora consente, pur timidamente, ai privati di sottoporre proposte da inserire nei piani triennali.

6. Il tema della carenza dei progetti
E qui inevitabilmente si arriva ad uno dei nodi cruciali dell’impasse del PF: la mancanza di buoni progetti.
Ci si può sforzare quanto si vuole in sede legislativa per migliorare la filiera del progetto: il Preliminare non esiste più e ora si fonde con lo Studio di Fattibilità, il Definitivo è ormai a un passo dall’essere un esecutivo, ecc. Ma, se non ci sono i soldi per fare dei buoni progetti, perché i buoni progetti costano, e anche tanto, cosa ce ne facciamo di un intrico complicatissimo di disposizioni su come si fa un progetto?
È un tema delicatissimo e importante che, anch’esso, si lega intimamente con le problematiche esposte in precedenza attraverso un fil rouge logico ed ineludibile.
Questa affermazione è tanto vera che circa 16 anni fa la Cassa Depositi e Prestiti, finalmente consapevole della realtà della carenza dei progetti, provò a inventarsi uno strumento che nelle intenzioni era santo e benedetto: il Fondo Rotativo per la Progettualità. Ma il nome stesso ne decretava il suo fallimento prima ancora di nascere: Rotativo. Ovvero, il Fondo avrebbe sì erogato agli enti locali ed alla PA in generale i fondi (con una serie infinita di clausole, cavilli e griglie, sia ben inteso) per sviluppare progetti, anche quelli che non avrebbero mai visto la luce, ma si sarebbe autorigenerato unicamente attraverso le rimesse degli Enti Locali e della PA, insomma, il cane che si morde la coda.
Figuriamoci se gli Enti Locali, che per il Patto di Stabilità non potevano neanche più accendere un mutuo per rifare la rete di illuminazione del piccolo centro di provincia, potevano accollarsi l’onere di andare a sostenere uno strumento per sviluppare progetti. Infatti, il Fondo non ha mai funzionato. Oggi se ne risente parlare, ma se non se ne modificano radicalmente i presupposti, sarà nuovamente destinato al fallimento.

7. Il rischio amministrativo
Non c’è neanche bisogno di dilungarsi, tanto è un refrain che tutti conoscono fino alla noia: il vero motivo per cui i capitali non investono in Italia non è la mancanza di soldi (privati) o di domanda, è l’incertezza assoluta dei tempi per le autorizzazioni. Basti dire che, per esperienza personale, per la realizzazione di un Porto Turistico gli enti competenti sono quasi 40, di cui la metà circa dotati di potere interdittivo!

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