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Note a margine del convegno del 10 marzo 2017

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Ma come si fa a non capire che, nell’arco di vita di una concessione sì e no un decimo del tempo (al netto del rischio amministrativo s’intende, ma questa è un’altra storiella all’italiana a cui si arriverà dopo) è impegnato dal progetto e dalla costruzione? E ugualmente, come si fa a non capire che per il futuro dei successivi 25, 30 anni ci deve essere un signore, molto bravo e coraggioso, che si deve fare carico: a) di capire se il progetto soddisfa le esigenze del mercato (e se è fatto male il progetto, cosa frequentissima, sono dolori), b) di vendere il servizio tramite l’oggetto realizzato, col massimo della competitività, c) di provvedere alla manutenzione ed all’aggiornamento delle tecnologie per mantenere il vantaggio competitivo, d) fare fronte agli impegni presi col sistema del credito, e) magari di ritagliarsi un margine di guadagno, f) di restituire lindo e pinto l’oggetto alla PA alla fine del periodo di concessione?
La realtà è che in Italia non ci sono gestori, o perlomeno non ce ne sono alla scala imprenditoriale che richiederebbe un vero sviluppo del PF, che invece si è sviluppata all’estero, e questo riguarda tutti i settori.
Perché? Perché in Italia si è persa, se mai c’è stata, la visione imprenditoriale del medio-lungo termine. Questa visione implica da un lato saper sviluppare una “vision” di quali saranno le esigenze della domanda nel futuro, e quindi prepararsi alla flessibilità, e dall’altro avere finanziariamente e patrimonialmente le spalle sufficientemente larghe per affrontare più o meno serenamente le sinusoidi che inevitabilmente si verificano dal punto di vista congiunturale nel corso dei 20, 30 anni del ciclo di vita di una iniziativa imprenditoriale. A questo occorre aggiungere che, proprio per fare fronte a questo tipo di scenari, da tempo gli imprenditori stranieri hanno creato agglomerati alla grande, grandissima scala, spesso globale, con cui si spartiscono il mercato delle gestioni.
Un esempio? Il settore alberghiero, molto più vicino al mondo del PF di quanto si possa immaginare (ne è un esempio la recente esperienza della Nuvola dell’EUR, su cui tornerò più in là), ma un altro settore calzante potrebbe essere quello dei grandi centri commerciali.
L’80% del settore alberghiero mondiale è in mano ad una decina di operatori (Marriot, Four Seasons, NH, Hilton, Aman, Kempisky, ecc.).
Sapete quanti alberghi ci sono in Italia? Circa 43.000. Sapete quanti sono gli albergatori? Circa 42.000, dato che la dice lunga sulla frammentazione e la dimensione media delle nostre aziende di questo settore. Il solo fatto che esistano ben 3 associazioni di categoria è emblematico del nostro provincialismo.
10, 12 degli albergatori in Italia hanno in mano circa il 40% del fatturato complessivo del settore, e non sono italiani. Sono, appunto, le grandi catene spagnole, francesi, americane ed ora anche cinesi che, a poco a poco, stanno impadronendosi delle nostre migliori location e delle più prestigiose e storiche strutture ricettive del nostro Paese. Nel nostro sistema si salva solo l’Alto Adige, che ha saputo sviluppare e valorizzare un sistema fortemente autoreferenziato e familiare costituito da una fitta rete di interconnessioni locali.
Perché tutto ciò?
Perché francesi, spagnoli, ecc. hanno sviluppato il mestiere del gestore alla grande scala, dedicandosi ad affinare solo questo mestiere.
Come? a) creando dei format di successo, replicati a Dubai come a Milano, in cui il cliente affezionato riconosce subito le caratteristiche della catena, b) evitando accuratamente, se non in rarissimi casi, di essere proprietari delle mura, per non immobilizzare i propri capitali, lasciando questo compito a chi lo fa di mestiere, cioè i fondi immobiliari, c) diversificando il proprio portafoglio in brand i cui bilanci vanno a consolidarsi in una holding, d) rinnovando continuamente il patrimonio gestito, adeguandolo al ciclo di vita della stanza, o key, come viene definita pragmaticamente nel gergo internazionale.
Un corollario interessantissimo? Da molto tempo ormai la valutazione dell’”oggetto albergo”, nel caso di transazioni, vendite, stime, ecc., avviene solo ed esclusivamente sulla base dell’attualizzazione dei redditi futuri, con un business plan che valuta la percentuale di occupancy annuale, il costo di manutenzione, il costo di gestione, ecc.
Il valore delle mura, o della stanza, come parametro una volta usato, non conta più nulla.
Ecco, quest’ultimo elemento, per esempio, è uno di quei metodi che stentano moltissimo ad entrare nella mentalità italiana, di tutti gli attori che operano a qualsiasi titolo nella trasformazione del territorio: le banche perché continuano ad avere in mente solo le garanzie “reali”, gli imprenditori perché pensano al patrimonio, gli amministratori pubblici perché non sono abbastanza preparati. Ma già se si immaginasse di trasferire questo diverso concetto di creazione del valore attraverso i flussi della gestione anche nel mondo delle infrastrutture, forse si farebbe un notevole passo avanti dal punto di vista della cultura del Project Financing.
Intendiamoci, io mi riferisco in special modo a quel segmento delle concessioni compreso più o meno tra 50 e 500 milioni di Euro detto “il PF all’italiana”, in cui rientrano soprattutto le “opere calde”, le quali comunque potrebbero arricchire moltissimo il patrimonio infrastrutturale del nostro territorio colmando un gap drammatico con altri paesi concorrenti: parcheggi, cimiteri, ricettività, portualità turistica, in parte strutture sportive, ecc.

3. La questione dell’urbanistica vs appalti
Un altro aspetto molto importante che ancora oggi rende difficoltoso il percorso dei capitali di investimento verso il comparto delle infrastrutture in Italia, e che è stato sollevato anche da altri interventi oltre il mio, nel corso del Convegno, è quello della netta separazione “strutturale” tra il mondo dei lavori pubblici e quello dell’urbanistica.
Per “strutturale” intendo dire che si tratta di una barriera non solo normativa, che pure c’è ed è anche molto consistente, ma che soprattutto appartiene alla sfera “culturale” di chi si occupa a vario titolo di “trasformazione del territorio”.

a. Le imprese di costruzione storicamente (io che per quasi 20 anni ho militato dentro l’ANCE posso dirlo con cognizione di causa) si dividono in appaltatori ed in costruttori in proprio e le incursioni l’uno nel campo dell’altro sono state rarissime e spesso con esiti pessimi. La differenza è talmente radicata che anche le organizzazioni amministrativo-finanziarie dei due settori imprenditoriali sono diametralmente opposte: gli appaltatori strutturano le proprie aziende per minimizzare al massimo gli immobilizzi, contando sul turn-over degli incarichi, sulle anticipazioni bancarie e sul margine d’appalto.

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